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«Le truppe sovietiche in Afghanistan? Tutto legale». Intervista al generale Gromov

Redazione Spazio70

Gromov: «Non riesco a capire fino in fondo di quale liberazione si parlava. Dopo la nostra partenza la vita in Afghanistan è diventata più tranquilla?»

di Fabrizio Dragosei

Boris Gromov

Fu lui il 15 febbraio del 1989 a varcare per ultimo il ponte sul fiume Amudarrya che separa l’Afghanistan dall’Uzbekistan, allora parte dell’Unione Sovietica. Il generale di corpo d’armata Boris Gromov aveva quarantacinque anni ed era il comandante supremo della quarantesima armata, il corpo di spedizione sovietico in Afghanistan. Un padre morto combattendo i nazisti, Gromov è entrato all’accademia a quindici anni e ha conseguito l’attuale grado a trentanove. Si conquistò sul campo la stella d’oro di Eroe dell’ Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche nell’87, liberando le truppe assediate nella città di Khost. Negli ultimi anni Gromov ha occupato un seggio alla Duma, la Camera bassa del Parlamento russo, ed è stato un fiero oppositore del governo, difendendo a spada tratta, ma con una certa intelligenza, l’operato delle truppe sovietiche nell’avventura afgana. Condannando però senza appello i politici che la iniziarono.

Generale, perché fu proprio lei a lasciare per ultimo il suolo afgano? Una mossa propagandistica?

«Ma no. Chi altri avrebbe dovuto farlo? Ero il comandante della quarantesima o, come si diceva da noi, del “contingente limitato di truppe sovietiche” – contingente che nel 1989 era formato da 115 mila uomini, ndr -. Non potevo certo passare il ponte lasciando, sia pure per qualche minuto, miei subordinati alle spalle».

Molti in Occidente celebrarono quel 15 febbraio come la liberazione dell’Afghanistan. Nell’Unione Sovietica fu la fine di un incubo. Visti oggi, sono corretti questi giudizi?

«Non riesco a capire fino in fondo di quale liberazione si parlava. Dopo la nostra partenza la vita in Afghanistan è diventata più tranquilla? Del resto, checché se ne dica in Occidente, le truppe sovietiche si trovavano in Afghanistan su base perfettamente legale. Ideologica, ma legale. C’erano accordi bilaterali e una richiesta di aiuto del governo legittimo di Kabul. Certo, per l’Urss il giorno del ritiro fu un evento lieto, come lo è sempre la fine di una guerra».

Ma allora fu giustificato l’ intervento in Afghanistan?

«No, l’ intervento non era giustificato né dal punto di vista politico né da quello militare. Il Paese, naturalmente, doveva essere assistito in tutti i modi, economicamente e politicamente. Come d’altronde facemmo pure: consiglieri politici, edili, militari, medici, specialisti di ogni genere. Ma l’invio delle truppe fu un errore politico strategico della dirigenza sovietica dell’epoca».

Perché l’Urss perse la guerra?

«L’Urss non perse la guerra, bisogna capirlo una volta per tutte. Mai una volta, in più di nove anni di presenza delle truppe, ci fu affidato il compito di conseguire una vittoria militare globale. Le nostre azioni avevano un carattere difensivo e preventivo, in collaborazione con l’esercito afgano. Si può parlare di sconfitta quando qualcuno è disfatto, annientato. Ma nessuna divisione, nessun reggimento della quarantesima armata ha mai subito una disfatta. Invece per quanto riguarda il ritiro delle truppe… ebbene ringraziamo il cielo per questo. Però le abbiamo ritirate in maniera organizzata, a testa alta, con orgoglio e con le bandiere spiegate. Le guerre vengono iniziate e terminate per motivi politici, l’esercito non c’entra nulla con tutto ciò».

Una posizione che ricorda quella dei generali americani che non hanno mai ammesso la sconfitta in Vietnam. Ma la macchina bellica dell’Urss non era già arrugginita?

«Affermazioni simili sono ridicole. L’ Armata Rossa non perdeva colpi. In quel momento, anzi, sul piano militare eravamo forti come mai prima. E questa non è solo la mia opinione; lo sanno benissimo anche gli esperti occidentali, compresi quelli italiani. Chiedete ai vostri militari se l’Armata Rossa era arrugginita».

Oggi l’ esercito è in ginocchio per mancanza di fondi?

«Nulla e nessuno è in grado di mettere in ginocchio l’esercito russo. E’ vero che mancano i soldi e le forze armate risentono degli scarsi finanziamenti. Di problemi ce ne sono tanti. Quando l’economia della Russia si riprenderà allora anche i militari riprenderanno fiato».

Qual è stato il momento più brutto della sua esperienza in Afghanistan?

«Ero ancora comandante di divisione. Una mia compagnia era rimasta intrappolata in una valle tra le montagne. Io mi trovavo a due, tre chilometri; li ascoltavo per radio, ma non li potevo aiutare, non potevamo fare nulla per soccorrerli. Mi creda, uno stato terribile per un comandante».

E il momento piu’ esaltante?

«Non ho dubbi: il giorno del ritiro. Era la fine della guerra, delle perdite. I morti tra i militari sono stati 13.833, i feriti decine di migliaia».

Gorbaciov voleva chiudere la partita afgana. Chi si opponeva al ritiro delle truppe?

«Ai vertici del potere sovietico in quel momento oramai tutti si rendevano conto di essere stati coinvolti in una avventura politica. Nessuno si opponeva al ritiro. Erano gli alleati afgani che si opponevano con tutte le loro forze».

Cosa dovrebbero fare oggi Russia e Occidente per l’ Afghanistan?

«Il grave errore dell’Urss e della Russia è stato quello di aver sospeso ogni aiuto dopo il ritiro delle truppe. Ciò ha solo contribuito ad attizzare ancora di più la guerra civile. Oggi bisognerebbe elaborare una posizione comune, unica. Allora, forse, le cose in Afghanistan potrebbero avviarsi a soluzione».

Alcuni dati sull’intervento sovietico in Afghanistan: nell’ aprile 1979 rivolte di matrice islamica a Kabul costringono il premier comunista Babrack Karmal all’esilio. Karmal chiede l’intervento di Mosca che nel dicembre 1979 invia l’esercito. Un quinto circa dei cinque milioni di afgani muore per i combattimenti. Due milioni sono i profughi. Le vittime sovietiche sono più di tredici mila. Il 15 febbraio1989, il corpo d’occupazione di Mosca completa il ritiro.