Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
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Il boss invisibile. Una definizione paradossale per Giuseppe De Tomasi, Sergione per amici e inquirenti, almeno mezzo secolo di denunce sulle spalle e molto più che un esponente di rilievo della Banda della Magliana, viste le sue connessioni con massoneria e criminalità organizzata. Eppure il suo nome, tanto conosciuto tra commissariati e aule di tribunale, non ha certo riempito le pagine delle cronache. Ed è rimasto sempre ai margini dell’immaginario collettivo del sodalizio criminoso che imperversò nella Capitale tra la fine dei Settanta e l’inizio dei Novanta. Perché se molto si parla, sconfinando sovente in un’inquietante idolatria, di personaggi come Franco Giuseppucci ed Enrico De Pedis, altrettanto ci si dimentica di questo alto esponente della malavita, che ha riempito centinaia di pagine di verbali e ha continuato a delinquere fino alla fine dei suoi giorni.
Aveva cominciato nel 1955. Furto d’auto, si legge in un rapporto della Questura di Roma. Ma è il 1969 la rampa di lancio nella galassia di tutta la sua carriera malavitosa: i soldi. La maggior parte dei capi di imputazione di De Tomasi, nato nel 1937 a Roma e vissuto nel rione di Testaccio, spaziò tra truffa, riciclaggio di denaro di illecita provenienza e usura. Una sua predilezione furono gli assegni. Falsi o emessi a vuoto, ragione della sua condanna a nove mesi di reclusione da parte del Tribunale di Roma il 18 settembre 1970. Quando stava albeggiando un decennio che intensificò i suoi conflitti con le forze dell’ordine. A dicembre del 1974, in appena otto giorni, fu arrestato dai Carabinieri dei Parioli per bancarotta fraudolenta (liberato l’indomani dopo pagamento della cauzione) per poi essere denunciato dall’Arma del Trionfale per «ricettazione, falso e sostituzione di persona». Le manette ai suoi polsi ricomparvero il 10 settembre 1977 per l’espiazione di una pena residua mentre alla fine del 1979 fu nuovamente denunciato, insieme ad altre tredici persone, per «associazione a delinquere, ricettazione continuata aggravata e violenza privata».
Nel frattempo le sue gesta si erano espanse ben oltre il Grande Raccordo Anulare. Fino a giungere addirittura Oltremanica. Fu necessario l’ausilio della polizia britannica per indagarlo circa l’appropriazione indebita di un’autovettura di grossa cilindrata. Era il 1972. Tre anni più tardi, fu arrestato in un’operazione congiunta di Carabinieri e Squadra Mobile di Genova per «associazione a delinquere, truffa aggravata continuata e ricettazione». Quest’ultimo reato gli fece scattare le manette ai polsi, sempre su mandato del Tribunale del capoluogo ligure, anche il 21 novembre 1978.
Se gli anni Settanta sancirono la sua affermazione nel mondo del crimine, furono gli Ottanta a elevarlo al rango di boss. E a farne un «trait d’union con elementi di spicco della malavita organizzata per la commissione di reati di grave identità». Come il «traffico di sostanze stupefacenti» e la «associazione a delinquere di stampo mafioso». Giuseppe De Tomasi inaugurò legami con la Camorra e con Cosa Nostra e il 7 febbraio 1983, nel rapporto «Bono Giuseppe + 159», frutto di un’operazione investigativa coordinata dai Centri Criminalpol di Lazio-Umbria, Sicilia e Lombardia (cioè tutta Italia), c’era anche il suo nome. Fu descritto «elemento integrante dell’organizzazione, collegato con pregiudicati appartenenti a clan mafiosi del calibro di Barbarossa Nunzio, D’Agati Francesco, Picciotto Francesco ed altri».
Anche se non fu rinviato a giudizio, come si apprende da un rapporto della Squadra Mobile del settembre 1989, i suoi contatti con certi personaggi rimasero evidenti. E altrimenti non avrebbe potuto essere, perché non è certo necessaria una sentenza processuale per stabilire la veridicità del contenuto delle intercettazioni telefoniche. Come quelle sull’utenza del suo negozio di pelletteria all’epoca situato in piazza Re di Roma. Dove erano frequenti i suoi contatti con una serie di pregiudicati romani, dai quali emerse anche il funzionamento del riciclaggio di assegni, sintetizzato da un rapporto della Questura del 28 dicembre 1990: «Rifornire denaro liquido in cambio di assegni postdatati e non coperti, di valore nettamente superiore alla somma riportata sul titolo. In altre circostanze gli assegni vengono riforniti al De Tomasi a titolo di garanzia per prestiti concessi ad altri interessi».
Ad agevolare l’illecito, anche «compiacenti funzionari di istituti di credito», che passavano a Sergione informazioni riservate relative agli assegni coperti in suo possesso oppure avvantaggiavano i suoi amici nell’apertura di nuovi conti correnti. Fra questi, anche Eugenio Serafini. Che al giudice Otello Lupacchini, il 13 ottobre 1993, durante il processo dell’Operazione Colosseo, raccontò come questo sistema fosse legato anche al gioco d’azzardo: «Io consegnavo al De Tomasi gli assegni che riscuotevo presso i picchetti clandestini, egli, a sua volta, li consegnava al F., il quale provvedeva a incassarli presso il Banco di Santo Spirito ai Mercati generali e quindi ricevevo dal De Tomasi moneta contante. Capitava anche che consegnassi al De Tomasi assegni tratti su conti correnti di mia moglie o di amici per poter disporre immediatamente di liquidità. La contropartita era costituita dagli interessi che corrispondevo al De Tomasi, per compensare le sue anticipazioni. Erano di circa il 5 per cento al mese, ma le anticipazioni erano di circa tre giorni. Su 10 milioni, per tre giorni, gli interessi venivano a incidere in ragione di 20 o 30 mila lire».
Questo sistema permise a Giuseppe De Tomasi di ingigantire il volume dei suoi profitti e dar vita a «un vero e proprio impero finanziario», i cui proventi erano reinvestiti in attività commerciali e immobiliari in diverse città italiane (Milano, Bologna) che lo misero in contatto con pregiudicati a loro volta in rapporti con i vertici della massoneria deviata. Il 3 ottobre 1989 fu intercettato mentre parlava di un affare edilizio su Milano con tal Fiorello Frattoni, che a un certo punto citò un personaggio che si sarebbe accollato l’85 per cento dei debiti dell’impresa deputata alla costruzione: «IL GRANDE VENERABILE GELLI». Col quale si era incontrato il «giovedì precedente presso l’Hotel Hasler di Roma, dove sono state firmate alcune carte».
Licio Gelli, Maestro Venerabile della P2 – la loggia massonica segreta scoperta dai magistrati Giuliano Turone e Gherardo Colombo il 17 marzo 1981 e alla quale erano iscritti, tra gli altri, i vertici dei nostri Servizi, ministri e sottosegretari – ritornò anche in un’altra telefonata dei giorni successivi tra i due, con Frattoni che informò De Tomasi di come «il Gran Venerabile partirà la domenica successiva per l’Argentina e che lo ha incaricato di prelevare un carnet d’assegni presso il suo studio e di consegnarglielo».
Pur non godendo di «fama» su scala nazionale, Sergione imperava però sulla piazza romana. Dove in parallelo ai suoi affari crebbero anche i suoi problemi con la giustizia. Sempre grazie alle intercettazioni telefoniche, il 13 novembre 1984 fu denunciato dalla Squadra Mobile per «associazione a delinquere finalizzata alla ricettazione, alle scommesse clandestine, al gioco d’azzardo e alla truffa» in un’operazione che ribadì i suoi «collegamenti […] con personaggi del calibro di Giuseppe Barbaro (affiliato alla cosca di Nitto Santapaola) e Giovanni Pezone (appartenente alla Nuova Famiglia)». Cioè mafia e camorra. Nel 1985, una perquisizione domiciliare lo trovò in possesso di settanta banconote da centomila lire provenienti dal riscatto pagato per la cuneese Federica Isoardi, figlia di Guglielmo, amministratore delegato di Alpitour, liberata dopo un sequestro di due mesi iniziato all’alba dell’anno precedente.
Il 1984 portò alla luce anche il suo saldo legame con un altro pezzo da novanta del crimine capitolino: Enrico De Pedis, punto di riferimento della mafia su Roma per il traffico di stupefacenti, come scritto in Atto di Dolore. Insieme a Ettore Maragnoli, Paolo Frau, Raffaele Pernasetti ed Enzo Mastropietro, e con l’appoggio esterno di Danilo Abbruciati, i due erano le colonne della Banda del Testaccio, l’anima economica della Banda della Magliana, che reinvestiva i suoi proventi illeciti in attività imprenditoriali. Il loro rapporto emerse il 26 novembre 1984. Quando Renatino fu arrestato, latitante, insieme a Sabrina Minardi in un appartamento di viale Vittorini, all’EUR. Quell’abitazione, che De Pedis utilizzava come garçonnière, gli era stata messa a disposizione da un fiduciario di Sergione, che l’aveva ricevuta da quest’ultimo, inziale acquirente dell’immobile. Denunciato per favoreggiamento, De Tomasi fu poi prosciolto.
Alle radici del vincolo tra i due, che la Squadra Mobile avrebbe successivamente definito «fonte di ingentissimi guadagni», un patto. Almeno secondo le dichiarazioni di Fabiola Moretti, amica dall’infanzia di Renatino, durante l’Operazione Colosseo: «Giuseppe De Tomasi, inizialmente amico dei Proietti, doveva essere ucciso per questo: De Pedis, tuttavia, gli salvò la vita e strinse con lui un patto, in forza del quale prestò i suoi servizi alla Banda e, successivamente, al De Pedis». I Proietti, altresì conosciuti come il Clan dei pesciaroli perché gestivano un banco di pesce al mercato di San Giovanni di Dio (zona Gianicolense), erano stati gli assassini di Franco Giuseppucci, unico capo riconosciuto della Banda della Magliana, avvenuto il 13 settembre 1980.
Sergione invece racconterà di una conoscenza differente e fortuita: «Nel 1962 conoscevo Antonio De Pedis, detto “Totò” e il fratello Miro, rispettivamente padre e zio del “Renato”. […] Fu soltanto nel 1983-84 che, del tutto casualmente, rincontrai il “Totò” De Pedis, il quale mi informò di aver rilevato con i figli una pizzeria chiamata “Popi popi” in Trastevere […] Allorché mi recai, ebbi modo di conoscere anche i figli, dei quali il padre mi disse essere dei bravi ragazzi, anche se uno, per la precisione appunto il “Renato”, aveva avuto delle vicissitudini giudiziarie, per le quali aveva patito una lunga carcerazione […]».
Incertezza sulle origini a parte, la sinergia era così forte che i due, una volta che De Pedis ritornò definitivamente in libertà nel 1988, misero su un vorticoso quanto fruttuoso giro di affari. Per i quali si incontravano quasi tutti i giorni e si frequentavano anche in occasioni mondane. Tramite la Roma By Night, società intestata a un suo fiduciario quale Alessio Monselles, Giuseppe De Tomasi aveva acquisito la gestione del Jackie’O, il noto locale di via Veneto, epicentro della Roma della Dolce Vita degli anni Sessanta. Dove De Pedis, nel giugno 1988, festeggiò il suo matrimonio con Carla Di Giovanni, che da un successivo controllo della polizia risultò titolare di porto d’armi. E dove l’11 ottobre 1989 si celebrò il compleanno della figlia di Sergione, grazie al quale la polizia scoprì l’abitazione di De Pedis a piazza della Torretta, seguendolo con un’auto-civetta quando lasciò la serata a bordo di una Saab Cabriolet intestata alla Oromania 92, anche questa amministrata da Monselles.
Sempre al Jackie ‘O, che per la polizia era la «base logistica per mettere a punto attività delittuose» e dove De Tomasi organizzava feste private nonostante fosse chiuso per irregolarità amministrative facendo entrare gli ospiti da una porta sul retro, il 15 marzo 1989, alla vigilia dell’omicidio di Edoardo Toscano, un controllo dei Carabinieri sorprese, seduti a un tavolo nonostante l’orario di chiusura del locale e davanti a una bottiglia di champagne, De Tomasi, De Pedis e altri tre pregiudicati, fra i quali Salvatore Sibio, Er Tararuga, noto per gestire le scommesse del Totonero dalle parti di Tor Pignattara.
Il rapporto tra Sergione e Renatino era pressoché simbiotico e alla luce del sole. Oltre che al negozio di famiglia a piazza Re di Roma, si incontravano alla boutique Enrico Coveri allora a via della Vite — gestita da Antonio Melidoni (amico di Sergione) e ritenuta dalla Mobile un altro esercizio «per riciclare il denaro di illecita provenienza» — oppure in altre zone del centro storico. Come piazza della Maddalena dove, il 10 novembre 1989, disquisirono, ad alta voce e insieme ad altri soci, l’acquisto di una serie di appartamenti dall’alto valore. Gli investigatori annotarono come De Tomasi disponesse, anche da parte di De Pedis, di ingenti somme di denaro con le quali realizzare «un vero e proprio riciclaggio difficilmente individuabile con ordinari mezzi investigativi». La loro frequentazione proseguiva anche in occasioni conviviali, come le festività natalizie, ed era estesa anche alle rispettive consorti, che si conoscevano fin dall’infanzia.
De Tomasi fu con De Pedis fino alla fine dei suoi giorni. Lo proteggeva, tanto da non rivelare il suo indirizzo nemmeno ad altri loro fedelissimi quali Enrico Nicoletti o Giuseppe Scimone. E lo sentì anche la sera del 1°febbraio 1990 per un processo relativo a Sergione. Nell’occasione Renatino si lamentò anche per le intercettazioni telefoniche della Polizia che, a suo dire, potevano mal interpretare il significato delle conversazioni e avere così «pregiudizi nei confronti di quelle persone che hanno precedenti penali a carico». I due si sarebbero dovuti vedere l’indomani. Ma non si è mai saputo se ci riuscirono o meno prima che De Pedis, all’ora di pranzo, fosse ucciso da un proiettile calibro 38 a via del Pellegrino. Un omicidio con ancora diversi punti sospesi, ai quali si aggiunge anche una telefonata (che vi proponiamo inedita) ricevuta da De Tomasi proprio ventiquattr’ore prima dell’omicidio e proprio dopo aver parlato con De Pedis, da parte di un uomo interessato a quest’ultimo.
De Tomasi: «Sì, mi ha chiamato adesso»
Uomo: «Allora?»
De Tomasi: «Ha detto vediamoci domattina e parliamo a voce»
Uomo: «Domani mattina?»
De Tomasi: «Eh!»
Uomo: «A che ora?»
De Tomasi: «Eh…io ho detto che sto al centro, lo aspetto al centro, mo’ non so a che ora passa»
Chi fosse quell’individuo e perché cercasse Renatino, non si è mai saputo. Certo invece che la sagoma di De Tomasi spiccò tra i presenti al funerale alla chiesa di San Lorenzo in Lucina.
Pur senza uno dei suoi soci più fidati, Giuseppe De Tomasi continuò la sua vita al di sopra delle regole e con i proventi delle sue attività illecite aumentò le sue proprietà. Come una palazzina di otto miniappartamenti a Sabaudia, nota località balneare laziale, dal valore di 540 milioni di lire, che si aggiunse a una villa lussuosa di Fregene, che Sergione frequentava per evadere dalla Capitale.
Ma il suo regno era al crepuscolo. Nei primi anni Novanta, a seguito di una nuova denuncia per associazione a delinquere, gli inquirenti riuscirono a confiscare il suo ingente patrimonio, che annoverava o aveva annoverato una Ferrari Mondial, una Mercedes, un’imbarcazione, un ristorante e un’oreficeria. Furono messi i sigilli alle sue attività e iniziarono le sue traversie giudiziarie, aggravate da problemi di salute che lo destinarono anche agli arresti sanitari. L’allora sostituto procuratore Andrea De Gasperis, che lo conobbe anche per il processo alla Banda della Magliana al termine del quale De Tomasi fu condannato per associazione a delinquere, quando lo intervistai nell’ottobre 2014 durante la mia inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, me lo dipinse così: «De Tomasi era uno che se magnava ‘n chilo de’ spaghetti de’ primo e ‘na tejia de’ pizza come secondo».
Per saperne di più sul suo conto avevo contattato anche il suo avvocato dell’epoca, Aldo Lucio Lania, venuto però a mancare proprio nel corso di questo 2023, come appreso dalla figlia.
La scomparsa della giovane cittadina vaticana segnò gli ultimi anni di Giuseppe De Tomasi che, durante l’inchiesta che batteva la pista della Banda della Magliana, fu accusato di essere Mario, l’uomo che il 28 giugno 1983 chiamò casa Orlandi sostenendo la tesi dell’allontanamento volontario di Emanuela. L’associazione era nata dalla telefonata arrivata alla redazione di Chi l’ha visto? nel luglio 2005, secondo la quale per risolvere il caso si sarebbe dovuti andare a vedere chi era stato sepolto nella basilica di S. Apollinare. E cioè Enrico De Pedis. Quella voce fu ritenuta simile a quella di Mario e si teorizzò la connessione che il figlio di De Tomasi avesse chiamato la trasmissione e che il padre fosse Mario. Al di là che la comparazione tra la voce di Mario e quella di De Tomasi non fu effettuata con una del 1983 di quest’ultimo bensì del 1990, la perizia stabilì la comune provenienza geografica dei due parlatori: il centro Lazio. Un verdetto scontato e che però, come fece notare la pm dell’inchiesta, «non si connota in termini di certezza scientifica assoluta o di affermazione di identità». Una conclusione supportata anche da una considerazione che fa ricorso a quel mix di logica e buonsenso spesso assenti nelle analisi giornalistiche e talvolta anche in quelle investigative: nel 1983, De Tomasi aveva già i telefoni sotto controllo per i suoi rapporti con la criminalità organizzata. Quindi gli inquirenti non avrebbero avuto problemi a individuarlo come l’eventuale Mario.
Ma non solo. Come mai, in una vita telefonica monitorata per decenni, De Tomasi ha parlato di personaggi come Gelli o politici della Prima Repubblica, come l’ex ministro Francesco De Lorenzo, ma non si è mai lasciato sfuggire mezza parola sulla ragazza del Vaticano? Idem il figlio, che non chiamò Chi l’ha visto?, i cui telefoni sono stati tenuti sotto controllo per anni. E che non si capisce perché, se davvero fosse stato a conoscenza di responsabilità nella vicenda di persone vicine alla famiglia come Renatino, avrebbe dovuto effettuare quella telefonata col rischio di inguaiare sé stesso e suo padre.
Anzi, è paradossale, per utilizzare un eufemismo, che quando Sergione abbia parlato del caso Orlandi, sia stato ignorato. Il 28 aprile 2010, in un’intercettazione ambientale – dunque più significativa della telefonica perché il diretto interessato non può controllarla a meno che non decida di non parlare con nessuno che si trova con lui – pubblicata inedita in Atto di Dolore, disse alla moglie che De Pedis, insieme al Principe Luciano Mancini (altro pregiudicato capitolino), avrebbe seppellito il corpo di Emanuela a Torvajanica: «Lo raccontava Renato, mica è ‘na barzelletta […] C’era solo il “Principe”. A Torvajanica so’ annati e l’hanno seppellita».
Parole forti e molto più significative rispetto a quelle di Sabrina Minardi, oltretutto prive di riscontri, perché provenienti da uno che aveva conosciuto molto bene De Pedis. Eppure, nessuno, a partire dai magistrati titolari dell’inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, gli chiese approfondimenti. Fu chiamato soltanto Mancini, che negò la circostanza, ma non si procedette mai a un suo confronto con De Tomasi. E così l’unico barlume che potrebbe far pensare a un ruolo della Banda della Magliana nel caso Orlandi fu lasciato cadere nel vuoto. Come un’altra affermazione domestica di De Tomasi sulla vicenda, sempre rivolta alla moglie, del maggio 2011: «O sapevano tutti. È dipeso tutto dal Vaticano». Fu l’espressione di un suo pensiero disinteressato oppure era a conoscenza di effettive responsabilità da parte di qualcuno Oltretevere?
Comunque, il controllo delle sue utenze consentì di intuire lo spessore criminale del personaggio – a Er Gnappa Manlio Vitale, altro uomo della Banda, confidò di avere una fonte in Questura gli passava le informazioni – e di scoprire un altro suo reato: un giro di usura, coinvolti anche i figli, per i quali fu arrestato, ultrasettantenne, nel luglio 2011. Fra le vittime, anche nomi illustri come Andrea Pecorelli, figlio del giornalista Mino, e il noto conduttore radiofonico Marco Baldini.
Fu il suo ultimo acuto di una vita dedita al crimine, passata però sottotraccia nei giornali. Dove il suo nome, estraneo anche alle rappresentazioni cinematografiche della Banda, è comparso rare volte rispetto alle sue «gesta» all’insegna della scaltrezza e delle vaste ramificazioni. Al punto che non fu riportata nemmeno la notizia della sua morte, avvenuta il 25 maggio 2013 secondo quanto scritto nella richiesta di archiviazione del caso Orlandi. Giuseppe De Tomasi, un boss invisibile fino alla fine.