Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
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Una valanga di contraddizioni e l’occasione giusta. Per fare chiarezza una volta per tutte. Tra gli obiettivi della riapertura dell’inchiesta giudiziaria sulla morte di Ketty Skerl, la diciassettenne romana ritrovata strangolata in una vigna di Grottaferrata il 22 gennaio 1984, oltre alla scoperta dell’assassino e del nascondiglio della salma della ragazza, c’è anche la definizione della figura di Marco Fassoni Accetti. Ovvero di colui che da un decennio ha riportato il caso sotto i riflettori con le sue dichiarazioni agli inquirenti, poi rivelatesi sconclusionate, surreali e soprattutto ricche di inverosimiglianze. Al punto da renderlo un soggetto inattendibile. Ma non solo. Il resoconto di esse, nel suo blog, insieme alle fotografie e ai filmati della sua attività di cineasta amatoriale indipendente, hanno suscitato molta inquietudine e più di un interrogativo. Quale persona metterebbe a repentaglio la propria incolumità, dichiarando pubblicamente di essere a conoscenza dei dettagli su un omicidio ancora irrisolto? Come mai Marco Accetti, a un certo punto, è entrato sulla scena del caso Skerl? Da dove nascono i suoi racconti? A che cosa mirano? E lui, chi è davvero?
Nato in Libia nel 1955, Marco Fassoni Accetti fu spedito dai genitori a Roma in collegio, prima al “Sant’Eugenio” poi al “San Giuseppe de Merode”. Successivamente passò dall’istituto “San Leone Magno” al liceo classico “Giulio Cesare”. La madre specificò agli inquirenti: “Mio figlio non ha mai lavorato nella sua vita”. D’altronde, grazie all’agiatezza economica della famiglia, si poté sempre dedicare all’attività artistica al punto da installare un teatro all’interno della sua abitazione nel quartiere Africano. Come molti coetanei dell’epoca, Accetti fu attratto fin da giovane dalla politica. Ma con idee “piuttosto confuse e contraddittorie”, come si legge in un appunto del SISDe sul suo conto del 12 marzo 1987. Perché “sino al 1977-78 ha militato nel ‘M.S.I.-D.N.’, successivamente è transitato nel ‘P.S.I.’ per approdare, da ultimo, nelle file del ‘Partito Radicale’”.
Un’instabilità ideologica per un animo irrequieto. Nel 1972, sempre secondo i Servizi, fu uno dei partecipanti “ai disordini verificatisi al liceo ‘T. Tasso’”. Arrestato per resistenza a pubblico ufficiale, fu poi rilasciato. Tra la fine di maggio e la prima metà di giugno del 1979, altre denunce: una per oltraggio a pubblico ufficiale, l’altra per estorsione e sequestro di persona nei confronti di Mario Appignani, al secolo “Cavallo Pazzo”, col quale arrivò alle mani insieme ad altri due giovani per una cospicua somma di denaro relativa alla lapide di Ahmed Alì Giama, cittadino somalo bruciato vivo da ignoti a Roma pochi giorni prima. Poi, il 20 dicembre 1983, l’episodio più grave. Nella pineta di Castelporziano (litorale romano), alla guida del suo furgoncino Accetti investì e uccise Josè Garramon, dodicenne figlio di un diplomatico uruguaiano. Arrestato poche ore dopo, il 19 aprile 1985 ottenne gli arresti domiciliari che terminarono in occasione della sentenza del processo. Dove l’imputazione di omicidio volontario con sequestro di persona avanzata dal giudice istruttore fu derubricata in omicidio colposo per una condanna di due anni e due mesi (un anno e otto mesi per il delitto, i restanti sei per omissione di soccorso) che arrivò il 30 maggio 1986. Quando lui aveva già scontato la pena. E quando erano trascorsi più di due anni dalla morte di Ketty Skerl.
Un delitto che Accetti menzionò alla Procura di Roma il 18 aprile 2013. Cioè dopo quasi trent’anni. Motivo? La sua intenzione di chiarire una serie di casi irrisolti degli anni Ottanta. A cominciare da quelli di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, per i quali si era presentato ai magistrati capitolini il 27 marzo dello stesso anno, addirittura autoaccusandosi della loro scomparsa, dovuta — a suo dire — a una guerra tra fazioni ecclesiastiche all’ombra del Vaticano: una favorevole alla politica anticomunista di Giovanni Paolo II, l’altra invece più conciliante verso i Paesi del Patto di Varsavia. Accetti sarebbe appartenuto a quest’ultima. E sarebbe stato uno dei laici di cui entrambe le fazioni si sarebbero servite per esercitarsi pressione a vicenda attraverso il compimento di nefandezze su minori dentro Roma. Come il delitto Skerl. Avvenuto però quando lo stesso Accetti era in carcere per l’uccisione di Garramon e che sarebbe stato compiuto dalla fazione avversa alla sua, secondo quanto gli avrebbe raccontato una ragazza tedesca sua collaboratrice: “Mi raccontò dopo, quando io uscii, che […] comunque andò in questo modo, che una persona delle loro aveva indagato su costei (la Skerl, ndg) e sapeva, questo era un po’ il modus operandi che adottavamo noi, che questa ultima (la Skerl, ndg) aveva un appuntamento con un’altra ragazza, no? E allora coltivarono l’altra ragazza con qualche scusa, come facevamo proprio noi e si sostituirono alla stessa all’appuntamento, quando la ragazza arrivò all’appuntamento le dissero: ‘Non è potuta venire perché sta in un ristorante ai Castelli, ti accompagniamo noi’. La accompagnarono ai Castelli, in verità si fermarono poi in questo posto appartato, questo mi è stato raccontato”.
Questo disse in quel 18 aprile 2013. Una versione superficiale e priva di dettagli fondamentali per avere un minimo di credibilità come, per esempio, il luogo dell’appuntamento o il nome dell’amica. Ma soprattutto priva di logica, la grande assente dei racconti di Accetti. Se Skerl fosse stata davvero uccisa dalla “fazione avversa” e lui ne fosse stato a conoscenza, perché non ha mai fatto i nomi dei responsabili visto che il fine della sua comparsa in Procura era la definizione di crimini ancora insoluti? Già così vacillante, il suo racconto va al tappeto con la ricostruzione dell’accaduto mediante le testimonianze agli atti di cui vi parlammo ad agosto. Dalle quali si deduce come Ketty non arrivò mai all’appuntamento con l’amica Angela L. alla fermata Lucio Sestio della metro per le 19:45. Perché alle 18:45 era sempre dall’altra parte della città, a una festa con degli amici a largo Cartesio. Considerando che avrebbe dovuto cambiare almeno due autobus “soltanto” per raggiungere la stazione Termini e che la prima fermata distava almeno quattrocento metri dall’abitazione del party, sarebbe approdata a destinazione dopo le 20, orario dell’arrivo di Angela, quella sera in leggero ritardo.
A dichiarare poi il ko tecnico delle parole di Accetti, ci pensò Accetti stesso. Quando poco dopo affermò che, finiti gli arresti domiciliari, volò a Parigi a cercare la Orlandi perché “mi dissero che stava nei sobborghi”. Sennonché “il mese dopo arrivò la polizia a Parigi e io pensai di essere stato seguito […] perché proprio in quei mesi la Polizia cominciò a cercarla a Parigi. […] Allora andammo alla scuola di questa sventurata, di questa Skerl e cercammo di prendere un’altra ragazza ancora, si chiamava Ligeia Studer”. In pratica, la sua fazione avrebbe cercato e avvicinato questa giovane – “durò qualcosa come quasi sette-otto mesi” – per far intendere all’altro schieramento di aver capito che erano i responsabili dell’uccisione della povera Ketty. Addirittura, Accetti, che non nominò la scuola dicendo di non ricordarla, affermò anche che con Studer avrebbe avuto una relazione sentimentale di “tre-quattro mesi”. Al di là del fatto che non si abbiano notizie di ricerche di Emanuela Orlandi lungo la Senna, Accetti non andò mai a Parigi in quel periodo. Almeno secondo il già citato appunto del SISDe del marzo 1987: “Negli ultimi anni non risulta abbia compiuto viaggi: durante il periodo estivo si trattiene a Roma”. Volendo poi contemplare un errore della nostra intelligence e che lui possa essere stato a Parigi già all’indomani della fine dei suoi domiciliari, cioè il 30 maggio 1986, avrebbe dovuto trattenersi come minimo fino al termine di giugno — sulla base di quanto da lui stesso dichiarato. Quindi come avrebbe mai potuto avvicinare Studer, che frequentava lo stesso liceo di Skerl, visto che le scuole terminavano entro la prima metà di giugno?
Accetti riportò l’episodio anche sul suo blog, dove però non parlò del viaggio transalpino (come mai?), in un post dell’8 settembre 2015 intitolato “Cenotafio – Una eventuale tomba vuota”. Nel quale aggiunse un’inquietante allusione. Il possibile trafugamento della salma di Ketty, del quale sarebbe venuto a conoscenza nel 2005 da “persona degna di fede” (della quale non fa il nome, as usual), per sottrarre “un elemento” — che avrebbe consentito di risalire ai responsabili della scomparsa di Orlandi, cioè a lui — senza però esplicitarlo. Lo fece in seguito, sempre sul web, sostenendo fosse la camicetta infilata alla Skerl durante la vestizione funebre, (gennaio 1984), che avrebbe avuto un marchio – “Frattina” – corrispondente all’indizio “Via Frattina 1982” del quarto comunicato a firma “Turkesh” relativo al caso Orlandi, che uscì a novembre del 1984, di cui la sua fazione sarebbe stata autrice.
E ancora: siamo sicuri che un estraneo possa presenziare alla cerimonia di vestizione di una salma? Accetti stesso si è nuovamente contraddetto, tramutando “l’elemento” del 2015 prima in una “camicetta” e successivamente in un “maglioncino” nei suoi interventi su Facebook. Anche la sua attività sui social network depone a sfavore della sua credibilità: quale indagato o collaboratore di giustizia racconterebbe su certi canali le vicende giudiziarie che lo vedono coinvolto? Infine, perché mai attendere ventuno anni per occultare un indizio? Ma soprattutto perché inguaiarsi, rivelandolo dieci mesi dopo la sua creazione? Come visto poc’anzi, Skerl fu sepolta a gennaio 1984, mentre il comunicato “Turkesh” con la scritta “Via Frattina 1982” apparve a novembre dello stesso anno. Anche qui la logica va in fumo.
“Conosco il luogo romano dove tale bene è occultato, e lo potrei rivelare ai magistrati se mai manifestassero l’intenzione di apprenderlo” scrisse Accetti nel suo blog, facendosi beffe degli inquirenti e mostrandosi irrispettoso della memoria di Ketty. La cui salma sarebbe stata caricata su un carro funebre da una fittizia squadra di operai cimiteriali e portata fuori, non prima di aver lasciato “all’interno della tomba una maniglia che svitarono alla stessa cassa. Tale maniglia raffigurava un angelo”. Dentro al fornetto, aperto lo scorso 13 luglio, è stata sì ritrovata una maniglia. Ma non a forma d’angelo, che invece sarebbe stato raffigurato sul coperchio della bara secondo i quotidiani dell’epoca. Come che sia, Accetti è caduto in fallo per l’ennesima volta.
Al tempo stesso, il suo modus operandi sulfureo e mai concreto, “frutto di un lavoro di sceneggiatura scaturito dallo studio attento di atti e di informazioni acquisite negli anni” come si legge nel decreto di archiviazione del caso Orlandi dell’ottobre 2015, è più che sufficiente perché gli inquirenti accertino fino in fondo la sua figura. Gli spunti non mancano, uno in particolare. Arriva sempre da quel 18 aprile 2013. Quando disse di aver appreso dell’omicidio Skerl in carcere: “L’ho saputo, me lo ricordo molto bene, perché ho ricevuto una cartolina di minaccia firmata ‘le due bionde’, che poi mi è stato spiegato erano come metafora la Gillespie (Caterina Gillespie, giovane conosciuta da Accetti nel 1983 per i suoi servizi fotografici, ndg) e la Skerl”. Alla domanda dell’allora procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo “Ma questa cartolina lei l’ha conservata?” rispose: “Sì”. Di essa però non c’è traccia, nonostante avesse detto: “Gliela posso produrre la prossima volta”.
Il sostituto procuratore Erminio Amelio, titolare delle indagini sull’omicidio Skerl, ha quindi la grande occasione di acquisire quel reperto. Successivamente, di farsi dire il nascondiglio del feretro e sentire Ligeia Studer. Senza temere eventuali inattendibilità, anzi approfondendole. Perché consentirebbero di capire come mai, da un decennio e a intervalli irregolari, Marco Accetti imperversi sulla scena della giustizia e della cronaca nazionale con speculazioni frutto di conoscenze, tipo il trafugamento della salma, impossibili da desumere da fonti aperte o da una vicinanza agli atti. Una nebulosa che, complice l’appoggio aprioristico e incondizionato di alcuni grandi giornali, non fa che infittire il mistero e aumentare il dolore di chi ha già sofferto troppo: i parenti di Ketty. Un canovaccio insopportabile e avvilente, sul quale ora la Procura di Roma può far calare il sipario. Per sempre.