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di Gianluca Falanga
La strage all’Oktoberfest di Monaco del 26 settembre 1980 ha un’appendice da molti dimenticata, sebbene il fatto – un duplice omicidio – sia stato oggetto di uno dei più lunghi processi penali mai celebrati nella storia della Germania contemporanea. Il 19 dicembre 1980, intorno alle sette di sera, un uomo si introdusse furtivamente nel giardino di un bungalow alla periferia di Erlangen. Passando dal retro, l’intruso guadagnò la porta d’ingresso e suonò il campanello. Gli aprì il rabbino Shlomo Lewin, ex presidente della comunità ebraica di Monaco, croce al merito della Repubblica federale per il suo impegno antifascista e in favore del dialogo fra ebraismo e cristianesimo. Non fece a tempo, il padrone di casa, a chiedere chi fosse che l’altro gli sparò al petto tre colpi con una mitraglietta silenziata. Dall’interno dell’abitazione sopraggiunse poi la moglie del rabbino, Frida Poeschke, immediatamente freddata anche lei con altrettanti colpi. L’assassino portò quindi a termine l’esecuzione, finendoli entrambi con un colpo alla testa e andando via senza toccare né portare via nulla. Sulla scena del crimine rimasero però, oltre ai bossoli, un paio di occhiali da sole e alcuni frammenti metallici del silenziatore artigianale.
Nonostante Lewin e Poeschke fossero da tempo nel mirino dei neonazisti e i servizi segreti tedeschi a conoscenza dello sfondo antisemita dell’omicidio, polizia e magistratura indagarono per mesi nella vita privata delle vittime e all’interno della comunità ebraica bavarese, ipotizzando quali possibili moventi del crimine improbabili intrighi, uno stile di vita sregolato del rabbino e persino una sua presunta (e infamante, data la reputazione di Lewin) attività di agente del Mossad. Eppure, non sarebbe stato difficile, come poi effettivamente avvenne, ma solo nel maggio 1981, verificare e accertare che gli occhiali lasciati dall’assassino appartenevano a Franziska Birkmann, compagna del bizzarro neofascista bavarese Karl-Heinz Hoffmann, e che anche il silenziatore era stato confezionato a Ermreuth, nella residenza medievale abitata dalla coppia e dal braccio destro di Hoffmann, Uwe Behrendt. Arrestato il 16 giugno 1981 all’aeroporto di Francoforte, in procinto di volare in Libano, Hoffmann dichiarò di sapere che a uccidere Lewin e la moglie era stato Behrendt. Il ragazzo gli aveva confessato l’omicidio la sera stessa, subito dopo averlo compiuto. Aveva agito da solo, sostenne Hoffmann, di propria iniziativa e senza metterlo al corrente: «Capo», gli aveva detto, «l’ho fatto anche per Lei», intendendo che il duplice omicidio di Erlangen era un atto di ritorsione per la strage di Monaco, di cui veniva sospettata la loro organizzazione.
Al termine di una lunga vicenda giudiziaria, il 30 giugno 1986, il tribunale di Norimberga, nella stessa aula dove si erano celebrati nel dopoguerra i processi ai criminali nazisti, stabilì che non esisteva alcun mandante: Uwe Behrendt aveva pianificato ed eseguito il duplice omicidio di sua sponte. Hoffmann e Birkmann furono assolti da ogni accusa di complicità o favoreggiamento, nonostante si fosse acclarato che nelle ore seguenti il crimine la coppia si era adoperata per eliminare le tracce del loro coinvolgimento e proteggere Behrendt, aiutandolo a lasciare la Germania per il Libano. A Beirut, Behrendt si tolse la vita ai primi di settembre 1981, dopo avere inviato alla madre, residente nella Germania orientale, una lettera di addio, puntualmente intercettata dalla Stasi. Documenti della Sicurezza di Stato della DDR resi noti dopo il 1990 attestano che uomini del RASD, il servizio segreto dell’OLP, provvidero a dargli sepoltura e, confermando ai loro interlocutori tedesco-orientali il suicidio del ventottenne, ne attribuirono la causa alle forti tensioni scatenatesi in Libano all’interno del Gruppo Hoffmann, di cui Behrendt, dopo l’arresto del capo, era divenuto il comandante. In proposito continua invece a tacere il servizio di sicurezza interna della Repubblica federale (Bundesamt für Verfassungsschutz), che nello specifico rifiuta l’ostensione degli atti riguardanti i loro confidenti all’interno del Gruppo Hoffmann auditi come testimoni dell’accusa al processo contro Hoffmann, poiché questo «arrecherebbe pregiudizio agli interessi della Repubblica».
Le ragioni del duplice omicidio di Erlangen e il suo stretto nesso con la strage di Monaco stanno in uno scritto di Hoffmann, ritrovato in copia da Tobias von Heymann nel 2011 negli archivi della Stasi. Il 6 ottobre 1980, appena rilasciato dalla polizia dopo gli interrogatori sui suoi rapporti con Gundolf Köhler, il giovane attentatore di Monaco ucciso dall’esplosione dell’ordigno, Hoffmann era tornato in Libano, dove dalla tarda primavera del 1980 aveva trasferito, sotto l’egida di Fatah, il quartier generale della sua organizzazione. Il sospetto che il bombarolo di Monaco fosse stato membro attivo della Wehrsportgruppe Hoffmann (WSGH) lo spinse a fornire spiegazioni ai dirigenti palestinesi che gli davano ospitalità sui gravi fatti che lo vedevano direttamente coinvolto. In un dattiloscritto di sette pagine dettate al camerata Arndt-Heinz Marx, Hoffmann espose la sua verità sulla strage: a compierla non potevano essere stati loro, perché «un’organizzazione nazionale non lotta contro il proprio popolo», il bagno di sangue all’Oktoberfest era un’operazione false flag del Mossad, «calcolata, pianificata ed eseguita con letale precisione»: 1) sabotare la collaborazione fra WSG e OLP, 2) esagerando la minaccia neonazista in Germania, spingere il governo di Bonn a sostenere finanziariamente Israele, 3) demolire la reputazione del Gruppo Hoffmann e del suo capo carismatico. Il documento, consegnato a Mohamed Hegazi, ufficiale di collegamento del servizio segreto palestinese incaricato di gestire i rapporti coi neonazisti tedeschi in Libano, era stato girato da questo per informazione alla Stasi. A Berlino Est, insomma, sapevano perfettamente che era stata tale spiegazione complottistica di Hoffmann a ispirare la vendetta attuata da Behrendt.
Ma cosa ci faceva Karl-Heinz Hoffmann in Libano? Quando la sua WSGH fu messa fuori legge per decreto del ministro dell’Interno Gerhard Baum, alla fine di gennaio 1980, Hoffmann aveva reagito con un pubblico annuncio: «Continueremo a operare, e probabilmente in un modo decisamente più sgradevole.» Parole che, non solo alla luce degli sviluppi successivi, erano suonate come una minaccia e come tale erano stati presi seriamente dagli organi di sicurezza di Bonn, che nel settembre 1980, a ridosso della strage all’Oktoberfest, informavano dell’intenzione di Hoffmann di «creare e addestrare un’organizzazione militante radicale, una milizia di quadri che, completato l’addestramento in Libano, sarà impiegata nella Repubblica federale al posto della disciolta WSGH.» A ben vedere, ciò che Hoffmann tentò di organizzare in Libano sotto il nome di WSG Ausland era un progetto ben diverso rispetto alla WSGH, che al momento della sua messa al bando nel gennaio 1980 era considerata la più grande e temibile organizzazione di estrema destra in Germania Ovest. In verità, la WSGH degli anni Settanta non era stata né un’organizzazione clandestina né un partito; eccetto un nucleo di colonnelli, non aveva iscritti, affiliati o militanti bensì, come lo stesso Gundolf Köhler, cangevoli frequentatori delle esercitazioni. Alcuni erano abituali; altri proseguivano la militanza altrove, altri ancora l’abbandonavano del tutto.
Come la definì correttamente la Stasi in una relazione del 1980, la WSGH era stata per anni «la palestra del neonazismo», una piattaforma di aggregazione cameratistica e iniziazione alla disciplina militante per giovani estremisti interessati e non ancora organizzati, provenienti da varie aree della Germania. La WSGH non aveva avuto nemmeno una propria linea ideologica definita. Nel contesto di radicalizzazione terroristica di frange della galassia neonazista negli anni Settanta, la WSGH spiccava per una strategia legalista, orientata a preservare quanto più possibile una sorta di silente armistizio tattico con gli organi di sicurezza dello Stato, condizione che le consentiva di consolidarsi e coltivare indisturbati il loro militarismo Freikorps.
Karl-Heinz Hoffmann volò a Beirut una prima volta nel marzo 1980. Fino al suo arresto nel giugno 1981, si trattenne in Medio Oriente, facendo la spola fra Libano e Siria e rientrando di tanto in tanto in Germania via Italia, Grecia o Jugoslavia. A metterlo in contatto con i dirigenti di Fatah fu Udo Albrecht, terrorista di destra e uomo di fiducia di Abu Iyad, il capo del RASD e numero due del partito di Arafat. Dopo avere curato per Abu Daud, capo militare di Settembre Nero, l’organizzazione logistica del brutale assalto terroristico contro gli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972, Albrecht si era occupato per anni del reclutamento di giovani neonazisti tedeschi e austriaci per conto del servizio segreto palestinese nonché della supervisione delle linee di movimentamento delle armi per i commando palestinesi fra Svizzera, Austria e Germania Ovest. Noto in Germania per le sue ripetute evasioni, nel 1979 Abu Iyad aveva giudicato non più praticabile la collaborazione con un famoso super ricercato e, per riconoscenza, aveva voluto offrirgli l’opportunità di rifarsi un’esistenza legale, finanziandogli con l’acquisto a pagamento anticipato di veicoli militari dismessi della Bundeswehr l’apertura di un’attività commerciale, la Special Car Service.
Nel business si era inserito, nella primavera 1980, Karl-Heinz Hoffmann, il quale aveva ottenuto dai palestinesi l’autorizzazione a portare i suoi uomini in un campo di addestramento alla guerriglia gestito dal RASD. Fatah gli assicurò per un certo periodo anche uno stipendio mensile e ai suoi soldati alloggio, cibo, armi e documenti d’identità per muoversi nella regione e fra il Medio Oriente e l’Europa. Doveva essere – così raccontarono ai magistrati alcuni reduci della tragica trasferta libanese – «una cosa grande», Hoffmann li aveva reclutati nientemeno che «per unirsi a un movimento di liberazione», ma le cose non andarono bene, anzi proprio male, l’impresa finì in una vera catastrofe.
A fronte degli entusiasmi iniziali suscitati da Hoffmann, la vita quotidiana in un campo palestinese non corrispondeva alle attese dei militanti neonazisti, venuti in Libano per imparare a fare la guerra per davvero. Al posto della partecipazione ad azioni di guerra «contro gli ebrei» o altre imprese militari promesse dal loro capo, le giornate erano scandite da dure esercitazioni sotto il comando degli istruttori palestinesi e pesanti lavori edili sotto il sole cocente. L’atmosfera di violento rigore imposta dall’autoritario Hoffmann e dagli uomini di Abu Iyad, unita alla frustrazione e alle fatiche dell’ambientamento, diffusero nella truppa un feroce sadismo, che si manifestò innanzitutto in un catalogo di brutali punizioni corporali per qualunque trasgressione, anche la più leggera. Queste degenerarono presto in torture. Reiterati tentativi di fuga dal campo, sventati dalla sicurezza palestinese, furono sanzionati con percosse, privazione dell’acqua, ingestione forzata di olio, sale, nicotina liquida o sapone e waterboarding.
Alcuni membri della WSG si distinsero per la loro crudeltà, altri divennero vittime predilette. Una di queste, Kay-Uwe Bergmann, finì ricoverato in ospedale nel febbraio 1981 con una spalla lussata per le violente percosse subite dai compagni. Al suo rientro al campo, sospettato di avere cercato di contattare un’agenzia ONU, fu sottoposto a un brutale pestaggio, al quale avrebbe partecipato anche Hoffmann, che ne provocò la morte. Quando, nel giugno 1981, appresero dell’arresto del capo a Francoforte, i sopravvissuti all’inferno libanese batterono la ritirata, rientrando in Europa alla spicciolata. Più d’uno, deluso e avvilito, accettò di collaborare con i magistrati, confessando per esempio di avere conosciuto Gundolf Köhler.
Dai documenti della Stasi sappiamo che i movimenti del Gruppo Hoffmann erano seguiti molto da vicino dai servizi occidentali, addirittura che nelle stesse ore dell’attentato all’Oktoberfest era in corso un’operazione congiunta di tre agenzie del Verfassungsschutz proprio nell’area di Monaco. La III Divisione della Stasi, responsabile per lo spionaggio delle radiotrasmissioni, la seguì a distanza intercettando le comunicazioni interne degli agenti che monitoravano i neonazisti della disciolta WSGH. Stando agli atti della Stasi, l’operazione, nome in codice WANDERVOGEL, scattò nella notte fra il 25 e il 26 settembre 1980 alle ore 0:15 e proseguì per almeno 36 ore. A poche ora dalla strage, agenti del Verfassungsschutz della Baviera, del Baden-Württemberg e della Nordreno-Vestfalia osservarono gli uomini di Hoffmann fare il pieno di carburante a tre camion Unimog in un’officina nei pressi di Ingolstadt. Alcuni erano sopraggiunti da Ermreuth, dopo avere incontrato Hoffmann. Il piccolo convoglio di mezzi militari si era poi messo in movimento via Norimberga verso l’Austria. Destinazione: Libano, dove i camion dovevano essere ceduti ai palestinesi. Ma alle 13.50 di sabato 27, i mezzi erano stati fermati dalla polizia austriaca al passo di frontiera di Schwarzbach e rimandati indietro. Nel frattempo, si era diffusa la notizia che l’attentatore di Monaco, rimasto ucciso, era collegato a Hoffmann. Arrestati e interrogati, gli uomini dell’equipaggio respinto alla frontiera austriaca furono rilasciati dopo poche ore. Avevano un alibi di ferro, subito confermato dal Verfassungsschutz. Alla stampa la coincidenza temporale dell’attentato a Monaco con il passaggio del convoglio di camion del Gruppo Hoffmann non sembrò casuale.
Sulle tracce del Gruppo Hoffmann in Libano c’era anche il Bundesnachrichtendienst (BND). Nello stesso periodo in cui introduceva Hoffmann ai palestinesi, Udo Albrecht era entrato in affari con un faccendiere di nome Rolf Jung alias Werner Mauss, detective privato e agente del BND in Medio Oriente. Quest’ultimo, presentandosi come collaboratore di un’agenzia di sicurezza che lavorava per la Comunità europea, offrì ad Albrecht protezione e documenti per muoversi in Europa in cambio di informazioni su ciò che si muoveva nella galassia palestinese e sui soggiorni di terroristi tedeschi in Medio Oriente. Albrecht accettò, ma sospettando con chi avesse a che fare, informò i suoi gestori palestinesi. Per mesi, Albrecht portò avanti un doppio gioco, fornendo al BND tramite Mauss informazioni concordate con il capo del RASD Abu Iyad. Quando i rapporti con Mauss s’interruppero per le eccessive richieste di quest’ultimo (chiese un incontro col numero due del RASD Amin Al-Hindi per trattare l’arresto di una militante della RAF ricercata), Albrecht perse la protezione di cui aveva goduto e venne immediatamente arrestato ad Amburgo nell’agosto 1980. Seguì, nel luglio dell’anno successivo, l’ennesima evasione, stavolta la più spettacolare e clamorosa della sua lunga carriera criminale: nella DDR. Lì, la Stasi lo interrogò per dieci giorni in una sua safe-house, prima di consegnarlo ai palestinesi, che lo riportarono a Beirut. Dopodiché, di Albrecht si perse ogni traccia. A Berlino Est ritennero possibile che Abu Iyad l’avesse fatto liquidare.

26 giugno 1981, conferenza stampa dei falangisti a Beirut: da sinistra, Uwe Mainka e Walter-Ulrich Behle
Durante tutto il periodo di permanenza del Gruppo Hoffmann in Libano, che terminò nel gennaio 1982 con la partenza degli ultimi tre neonazisti rimasti a Beirut, i dirigenti del RASD tennero informata la Stasi di quanto avveniva, rassicurandola del fatto che Hoffmann non aveva intenzione di effettuare attentati contro i paesi socialisti; la loro missione era «sostenere la lotta antisionista dell’OLP» e compiere «azioni contro istituzioni americane nella Repubblica federale» per «liberare la Patria dall’occupazione straniera». Con le autorità e l’opinione pubblica della Germania Ovest, Abu Iyad fece invece alzare una cortina fumogena, creando confusione sul luogo preciso dove si addestravano i neonazisti di Hoffmann e facendo credere che non fosse l’OLP a proteggerli e ospitarli, bensì i loro avversari, le milizie cristiano-maronite della Falange libanese.
Nelle informative dei servizi di Bonn dell’estate 1980 si riportavano le indicazioni fornite personalmente del capo del RASD circa la cooperazione del Gruppo Hoffmann con i falangisti e l’addestramento paramilitare che estremisti neofascisti di vari paesi europei ricevevano in un campo di addestramento del partito Kataeb di Bashir Gemayel. Ancora il 29 settembre 1980, tre giorni dopo la strage di Monaco, una nota del BND (con riferimento a fonte palestinese) confermava che «Hoffmann e i suoi uomini, circa 13-15 persone, sono stati nel campo di Aqura, nel sud del Libano, insieme a neofascisti italiani, coi quali avrebbero parlato di possibili attentati nella Repubblica federale e in Italia.» Era la stessa versione depistante lanciata da Abu Iyad con la sua famosa intervista del 19 settembre 1980 al quotidiano svizzero Corriere del Ticino per inquinare le indagini sulla strage del 2 agosto alla stazione di Bologna, che anticipò di poco meno di due mesi quella all’Oktoberfest di Monaco.
I servizi tedeschi si persuasero il 13 ottobre 1980 di essere stati ingannati: «Hoffmann non ha avuto alcun contatto con una milizia cristiana in Libano.» Anzi, ad Aqura, che non si trova nel sud del Libano ma nel nord, vicino a Tripoli, non c’era alcun campo falangista. Otto mesi dopo, Abu Iyad fu costretto ad ammettere di avere mentito. Il 26 giugno 1981, a una conferenza stampa presso il quartier generale delle forze libanesi a Beirut, due giovani membri del Gruppo Hoffmann, Walter-Ulrich Behle e Uwe Mainka, raccontarono di avere trascorso nove mesi, dal 17 ottobre 1980, in una struttura allestita e gestita dal servizio segreto palestinese a Bir Hassan, un sobborgo alla periferia meridionale di Beirut. L’impianto di addestramento paramilitare per terroristi, finanziato dalla Siria, sarebbe stato sotto il comando diretto di Abu Iyad, al quale i due neonazisti, fuggiti dal campo dieci giorni prima per le torture subite, attribuivano niente meno che la responsabilità per le stragi del 1980 a Bologna e Monaco: «Accusiamo Abu Iyad di essere il mandante dei due più sanguinosi attentati nella storia del terrorismo internazionale in Europa occidentale. Abu Ayad dispone di una rete di terroristi in Siria, precisamente a Damasco, dove gli è consentito di accogliere giovani terroristi stranieri in vari centri, il più importante dei quali è l’Hotel Byblos. A gestire questa è un certo Mohamed HEGAZI, che parla correntemente il tedesco e ha studiato nella Germania orientale. Al momento dovrebbe trovarsi a Sabra. Lavorano con lui Atef BSEISU e Amin al-HINDI.»
Come già detto, Hegazi era l’agente del RASD cui erano affidati i rapporti col Gruppo Hoffmann, mentre Bseisu e Al-Hindi, entrambi esponenti di vertice dell’intelligence palestinese, erano a capo della struttura logistico-operativa chiamata informalmente cellula Amin-Atef, un nucleo del RASD che si muoveva a cavallo fra le due Germanie intrattenendo rapporti di diplomazia segreta sia con il Bundeskriminalamt occidentale, sia con l’Antiterrorismo della DDR. Che tale struttura del servizio segreto dell’OLP potesse essere almeno informata di quanto era accaduto a Monaco (anche a Bologna?) è ragionevole sospettarlo, ma esattamente il giorno dopo avere accertato che Hoffmann lavorava con Fatah (14 ottobre 1980), due funzionari del BND parteciparono a una riunione con i magistrati e funzionari di polizia che conducevano le indagini sulla strage all’Oktoberfest, incontro che sancì il cambio di strategia investigativa a favore della tesi dell’attentatore solitario, escludendo qualsiasi altra pista.
I palestinesi reagirono alla conferenza stampa dei falangisti organizzando subito una contro-conferenza stampa. Presentarono due tedeschi che dichiararono di avere ricevuto addestramento in una base del Kataeb a Mairouba, nel Libano centrale. L’operazione non risultò convincente, i due, tali Bauer e Eickner (quest’ultimo si scoprirà essere Behrendt), erano comparse mal preparate, che alle domande dei giornalisti dimostrarono di non conoscere neanche il cedro stilizzato simbolo dei falangisti, onnipresente nelle regioni del Libano controllate dai maroniti. Una settimana dopo, Abu Iyad cedette all’evidenza. In un’intervista rilasciata al settimanale tedesco Der Spiegel, pubblicata il 12 luglio 1981, il capo del RASD ammise che il Gruppo Hoffmann era sotto la loro protezione. L’ammissione era accompagnata però da nuove palesi falsità: Abu Iyad sostenne di non avere mai incontrato Hoffmann personalmente e che questo lo aveva ingannato facendo credere ai suoi emissari che la sua organizzazione non fosse politica, ma di carattere sportivo, «poco più di un gruppo di boy-scout». Chiarito l’equivoco, ci si era accordati per una semplice ospitalità in quanto patrioti di un movimento di liberazione antimperialista, non era stata concesso loro alcuna opportunità di addestramento paramilitare. Il RASD, insomma, li aveva solamente alloggiati e non ne controllava le attività. Abu Iyad negò anche che Fatah avesse acquistato da Hoffmann veicoli militari e dichiarò che dopo la strage di Monaco si era subito adoperato per cacciarli dal Libano.
Se la versione di Abu Iyad era evidentemente falsa e depistante, anche quella dei due tedeschi che accusavano il RASD delle stragi di Bologna e Monaco presentava alcune criticità, a cominciare dal fatto che non si portava alcuna prova a suffragio della pesante accusa di essere il responsabile di due gravissimi attentati. Behle, uno dei due neonazisti fuggiti da Bir Hassan, faceva parte dei camerati alla guida del piccolo convoglio di Unimog in viaggio verso il Libano la sera dell’attentato all’Oktoberfest, poi respinti alla frontiera austriaca. Figura opaca, Hoffmann dirà di averlo conosciuto solo il giorno stesso della strage di Monaco e di non avervi più avuto a che fare, eppure risulta che con Behle volarono insieme a Damasco da Atene, con visti rilasciati dall’ambasciata siriana, il 7 ottobre 1980. Presero alloggio all’Hotel Byblos, dove al bancone, forse in stato di ubriachezza, confidò al barista algerino Hamsi Salah che a compiere la strage di Monaco erano stati loro, i neonazisti della Hoffmann. Il barista, impressionato, denunciò il fatto, mesi dopo, all’ambasciata tedesca a Parigi, dove nel frattempo si era trasferito. Behle, interrogato al suo rientro in Germania nel luglio 1981, non escluse di essersi vantato col barista, ma erano state farneticazioni di un ubriaco, il Gruppo Hoffmann non c’entrava nulla con la bomba all’Oktoberfest. Il procuratore generale Rebmann gli credette, derubricando la cosa a un episodio di «spacconeria dovuta dall’alcool». Oggi sappiamo che Behle, all’epoca dei fatti, era un confidente del Verfassungsschutz del Land Nordreno-Vestfalia.
Behle e Mainka non furono i soli del Gruppo Hoffmann a fuggire dai palestinesi. In precedenza, un altro gruppo di quattro neonazisti si era rivolto all’ambasciata tedesco-occidentale a Beirut, raccontando di essere stati rapinati e di avere bisogno di nuovi passaporti e biglietti aerei per rientrare in patria. L’ambasciata, stranamente senza verificare chi fossero, aveva provveduto ad aiutarli. Ciò era avvenuto il 22 settembre 1980, quattro giorni prima della strage di Monaco. I quattro appartenevano al Gruppo Schlageter, una piccola formazione neonazista della Foresta Nera (Baden-Württemberg), capitanata da Odfried Hepp e responsabile di una serie di attacchi a mezzi militari americani in Germania. Il 24 settembre, dopo avere trascorso la notte nella zona cristiana di Beirut, i quattro avevano preso un taxi per raggiungere l’aeroporto, dove alle 12:10 sarebbero dovuti decollare per Atene. Ma sulla via dell’aeroporto, attraversando la zona ovest di Beirut, controllata dai palestinesi, erano stati fermati e sequestrati. Il tassista aveva portato i bagagli al quartier generale del Kataeb, OLP e Falange si erano accusati a vicenda del rapimento. Sull’episodio non si è mai fatta chiarezza, nei primi giorni seguenti la strage di Monaco gli inquirenti sospettarono che il sequestro fosse stato inscenato per fornire un alibi a Hepp e compagni, ma il 15 ottobre 1980 un funzionario di polizia giudiziaria informò il ministero dell’Interno che non vi era alcuna pista Hepp: Gundolf Köhler aveva agito da solo. L’ipotesi investigativa era però tutt’altro che immotivata.
Hepp, in Libano dal luglio 1980 su invito di Hoffmann, si manteneva in contatto con Manfred Roeder, capo della cellula terroristica Deutsche Aktionsgruppen, a sua volta interessato al sostegno palestinese. In un elenco di 200 partecipanti alle esercitazioni paramilitari della WSGH, sequestrato dalla polizia nella casa di Hepp a Karlsruhe nel settembre 1979, compariva il nome di Köhler. E ancora: uno dei quattro neonazisti sequestrati a Beirut era Kay-Uwe Bergmann, che la sera prima dell’attentato all’Oktoberfest aveva inviato al padre una lettera per comunicargli che non si sarebbero visti per i prossimi anni. Il padre era riuscito ad accertare che la lettera era stata imbucata a Francoforte nella notte fra il 25 e il 26 settembre. Fra il sequestro a Beirut e la spedizione della lettera c’era un lasso di oltre 36 ore, un tempo sufficiente per Bergmann per volare a Francoforte ed essere a Monaco al momento dell’attentato. Hepp e Köhler si conoscevano? Era Roeder a muovere Hepp dentro un gruppo indebolito, quindi facile da strumentalizzare, del quale Hoffmann stava perdendo il controllo? Bergmann, come già detto, morì nei primi mesi del 1981, pestato a morte dai suoi stessi camerati. Il corpo non fu mai ritrovato. Al pestaggio, secondo la Procura di Norimberga, avrebbero partecipato anche Behle e Mainka. Forse anche Bergmann, come Köhler, doveva morire? Ma è davvero morto Kay-Uwe Bergmann?
In Germania non si è mai indagato sulla pista mediorientale. L’ultima inchiesta della Procura generale sulla strage di Monaco, che si è conclusa nel 2020, non ha ignorato il cosiddetto complesso libanese, ma si è limitata alla stretta verifica dell’esistenza o meno di nuovi indizi, concentrandosi soprattutto sulla figura di Behrendt e sul collegamento della strage al duplice omicidio di Erlangen. Manca a oggi una coerente ricostruzione del contesto storico, l’inquadramento dell’attentato nella cornice della delicata stagione di mutamento della politica internazionale a cavallo fra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta. Superando la mera dimensione giudiziaria, che nel caso della bomba all’Oktoberfest ha mostrato tutti i suoi limiti, sarebbe ora di affrontare analiticamente il nodo dei rapporti di Bonn con il mondo arabo e l’inquieta galassia politico-militare palestinese, di scandagliare i movimenti della diplomazia segreta della Germania Ovest sul delicato scenario mediorientale. Perché Abu Iyad accettò di addestrare il Gruppo Hoffmann, che fino a quel momento non aveva commesso attentati terroristici? E perché intervenne in modo inquinante e depistante nelle stragi del 1980? Sappiamo che il capo del RASD giocava su più tavoli, i suoi uomini di fiducia collaboravano con la Stasi e il BKA, col KGB e il Sismi, ma anche con le Brigate rosse, la RAF tedesca e Carlos, al contempo Abu Iyad lanciava minacce di bombe e ritorsioni all’indirizzo dei governi occidentali per la loro ambivalenza di fronte alla questione palestinese, alle rivendicazioni di riconoscimento internazionale dell’OLP, gli stessi governi coi quali dialogava osservando patti di non belligeranza che dovevano garantire l’incolumità dei cittadini dagli attentati.
Nel periodo 1979-1981, in concomitanza con la profonda crisi interna all’OLP e della leadership di Arafat, scatenata dalla pace israelo-egiziana di Camp David, proprio quei patti e accordi stipulati dalla diplomazia segreta attraversarono un momento di crisi, che rimase nascosta alle opinioni pubbliche occidentali, ma ebbe gravi conseguenze ed ha lasciato tracce negli archivi dei servizi segreti. Quelli della Germania Ovest sono particolarmente avari di documenti in materia, quelli aperti della DDR costituiscono invece una breccia fondamentale nel muro della segretezza. I suoi stretti rapporti di collaborazione e scambio informativo coi servizi di sicurezza dei regimi arabi filosovietici e col RASD palestinese consentirono alla Stasi di seguire molto da vicino le dinamiche più intime di un passaggio storico, caratterizzato da una vigorosa ripresa del terrorismo internazionale di matrice arabo-palestinese, ma con una importante differenza rispetto alla prima ondata di proiezione internazionale della lotta armata palestinese nei primi anni Settanta: il terrorismo alle soglie dell’ultimo decennio della Guerra fredda era un terrorismo degli Stati, che non parlava più alle opinioni pubbliche per sensibilizzarle alla questione palestinese, ma mandava messaggi ai governi e che solo i governi e i loro apparati di sicurezza sapevano decifrare. I regimi arabi sponsor di quella violenza si servivano della questione palestinese, talvolta alleati, più spesso l’uno contro l’altro, per prevalere nelle loro rivalità regionali oppure come arma contro la dissidenza interna, Israele e gli USA, esponenti arabi moderati e contro gli inserimenti di Stati come la Francia, l’Austria, l’Italia e appunto la Germania Ovest, impegnati sullo scenario mediorientale a contenere il terrorismo con difficili politiche di concessioni e mediazioni.
Un percorso di indagine storiografica sul contesto storico della strage di Monaco dovrebbe dunque partire dalla ricostruzione della politica di diplomazia parallela imbastita dai governi Brandt e Schmidt negli anni Settanta, passando per lo snodo cruciale del vertice segreto del novembre 1977 a Vienna con due rappresentanti di altissimo profilo dell’OLP, Ali Hassan Salameh e Issam Sartawi. Questi offrirono all’emissario di Bonn, il diplomatico Peter Kiewitt, la collaborazione palestinese al contenimento del terrorismo internazionale in cambio del riconoscimento formale dell’OLP in un paese chiave dell’Europa occidentale come la Germania Ovest, cui Arafat riconosceva l’autorità per intervenire sugli americani. Non sappiamo se i tedeschi accettarono l’offerta, ma nel 1978-79 il BKA e il RASD svilupparono varie esperienze di cooperazione e fu formalizzata l’esistenza di un ufficio di rappresentanza dell’OLP a Bonn. La cautela del cancelliere Schmidt nell’avvicinarsi ai palestinesi era dettata non solo da ragioni storiche (il debito morale dei tedeschi verso gli ebrei) ma anche da un certo allineamento alla politica americana, che frenava l’instaurazione da parte dei partner europei di rapporti formali con l’OLP finché questa non avesse riconosciuto il diritto all’esistenza e la sovranità dello Stato ebraico. I passi compiuti, comunque significativi, nei confronti di Arafat, non bastarono a far uscire la Germania dal mirino delle forze radicali, dentro e fuori l’OLP, delusi dal corso negoziale abbracciato da Arafat nel 1973 e che insistevano per una nuova offensiva armata.
Dai documenti della Stasi emerge chiaramente il ruolo di regista dell’operazione Carlos svolto da Abu Iyad fra la fine del 1978 e il 1979. Al noto terrorista venezuelano fu appaltata l’organizzazione di una struttura clandestina, da impiantare in Europa orientale, una nuova Settembre Nero, che operasse (parole della Stasi) «come braccio armato coperto per la realizzazione di operazioni terroristiche [non rivendicabili] dei servizi segreti arabi» ovvero del consorzio di forze ostili a Camp David e alle ingerenze occidentali nel mondo arabo. Nella primavera 1979, una catena di attentati esplosivi, falliti o sventati, e l’arresto di ben cinque commando palestinesi pronti ad agire in Olanda, Germania e Austria, riconducibili direttamente al RASD, allarmarono le intelligence europee su entrambi i versanti della Cortina di ferro, che presagirono l’imminenza di una nuova ondata terroristica. Nell’autunno dello stesso anno, scoppiò il caso Youssef, un giovane palestinese fermato per un trasporto d’armi e detenuto in una prigione della Baviera. Secondo l’OLP, fu interrogato in prigione da agenti del Mossad e costretto sotto ricatto a tornare a Beirut per assassinare Abu Iyad. Piuttosto che tradire, il ragazzo si tolse la vita. Abu Iyad ne fece un martire e si scagliò violentemente contro il governo tedesco, reo di consentire agli agenti israeliani di interrogare i palestinesi nelle carceri tedesche. In una furiosa intervista rilasciata a Der Spiegel il 12 dicembre 1979, accusando Bonn di lasciare mano libera a CIA e Mossad sul proprio territorio, permettendo loro di reclutare spie fra i profughi dal Libano richiedenti asilo, il capo del RASD si espresse in questi termini: «Pretendo dal Governo federale tedesco che metta fine a questa situazione. Altrimenti, non saremo noi a venire con armi e bombe, ma ci sono molti patrioti palestinesi, che sono delusi e pieni di amarezza. E in futuro saranno ancora armi e bombe, se la politica del Governo resterà invariata.» Sei mesi dopo questo incidente e l’inequivocabile minaccia di Abu Iyad, la Dichiarazione di Venezia del Consiglio Europeo del giugno 1980, pur spingendosi molto avanti sulla questione dello status internazionale dell’OLP, deluse le aspettative della leadership palestinese.
Possono inserirsi in questo scenario la vicenda Hoffmann e la strage di Monaco? Può il massacro all’Oktoberfest essere collegato o dovuto alle tensioni di questo contesto? Che cosa riportavano le relazioni da Beirut del BND del periodo novembre 1979-settembre 1980? Come furono gestiti il caso Yussef e la crisi del dicembre 1979 a livello politico e di diplomazia segreta? Alcuni fattori si prestano a una lettura che avvalora la pista mediorientale, mai approfondita in sede giudiziaria: la fragilità del Gruppo Hoffmann in Libano e il fanatismo dei suoi singoli componenti, frustrati e sbandati, in rotta col loro capo carismatico, l’atipicità della strage di Monaco in contrasto con i presupposti ideologici e le strategie terroristiche dei gruppi neonazisti tedeschi dell’epoca, infine gli interventi depistanti di Abu Iyad nelle inchieste di Bologna e Monaco, tutti questi elementi potrebbero essere indicatori di una possibile strumentalizzazione false flag del Gruppo Hoffmann o pezzi di esso. Qui le cortine fumogene sono ancora fitte e il terreno ancora inesplorato.