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Assalto alle Olimpiadi 1972: una cellula neonazista aiutò Settembre nero a compiere la strage

Redazione Spazio70

Spregiudicata sul piano operativo, la politica di Settembre nero risultava aperta a tutte le forze antiebraiche. L’appoggio ricevuto da una cellula neonazista per l’attentato alle Olimpiadi di Monaco non rappresentava un caso isolato, ma aveva radici storiche ben precise

di Gianluca Falanga*

Dieci anni fa fu declassificato e pubblicato in Germania un corposo fascicolo della Cancelleria di Stato bavarese contenente la corrispondenza dei Servizi informativi della Repubblica federale tedesca con polizia e magistratura intorno alle Olimpiadi di Monaco del 1972. La nota strage di atleti israeliani, di cui quest’anno ricorre il cinquantenario, sarebbe potuta essere evitata se solo gli organi di sicurezza tedesco-occidentali non avessero giudicato improbabile, fra gli scenari di rischio analizzati, quello di un attacco palestinese alla rappresentativa israeliana, più concretamente se non avessero fatalmente trascurato un telex della polizia di Dortmund che, nel luglio 1972, segnalava il soggiorno in un albergo della città di un arabo di nome Saad Walli alias Abu Daud, capo militare dell’organizzazione terroristica Settembre Nero e regista della feroce operazione che insanguinò i Giochi. L’assalto scattò all’alba del 5 settembre. Senza difficoltà, un commando di otto fedayn penetrò nel villaggio olimpico e prese d’assalto gli alloggi della squadra olimpica israeliana, uccidendo subito due atleti e prendendone in ostaggio altri nove. A seguire, il maldestro intervento della polizia tedesca provocò l’assassinio di tutti gli ostaggi, cinque terroristi e un agente tedesco. Per la prima volta nella storia, la tragedia si consumò in diretta televisiva.

13 febbraio 1970: l’attentato alla casa di riposo ebraica di Monaco

In cambio della liberazione degli atleti sequestrati i terroristi richiesero l’immediata scarcerazione di 234 prigionieri palestinesi e dei “compagni di lotta” tedeschi Andreas Baader e Ulrike Meinhof. Questi ultimi erano stati arrestati solo poche settimane prima, dopo la prima furiosa serie di attentati esplosivi compiuti dalla Rote Armee Fraktion (RAF) a maggio (ben sei in soli quindici giorni) contro obiettivi militari e civili. La presenza dei capi della RAF nella lista dei prigionieri da rilasciare (Ulrike Meinhof si sdebitò redigendo in carcere un pamphlet che esaltava la “strategia di guerra antimperialista” di Settembre nero) spingeva a pensare che i palestinesi si fossero avvalsi del supporto logistico di militanti della sinistra radicale tedesca. Peraltro, lo speciale sodalizio terroristico tedesco-palestinese era già diffusamente emerso in precedenza. Il 9 novembre 1969, anniversario della “notte dei cristalli” del 1938, un militante dei Tupamaros West-Berlin, formazione organizzata dall’anarchico Dieter Kunzelmann al ritorno da un soggiorno in Giordania, aveva deposto un ordigno, rimasto inesploso per un difetto tecnico, nella sede della comunità ebraica a Berlino Ovest. Al fallito attentato ne erano seguiti altri, il più sconcertante quello del 13 febbraio 1970 alla casa di riposo ebraica di Monaco: una bomba uccise sette anziani, cinque dei quali sopravvissuti ai lager nazisti.

Abu Daud

A dispetto dell’impreparazione mostrata dalle autorità tedesche nell’affrontare la determinazione dei terroristi, i Servizi segreti della Repubblica federale avevano buona conoscenza della consistenza delle reti palestinesi impiantate in Europa, dei movimenti di giovani tedeschi fra la Germania e il Medio Oriente e delle strutture che facevano da cerniera fra la sinistra extraparlamentare tedesca e le principali organizzazioni politiche e militari palestinesi. Ma altrettanto noti erano i contatti dell’Agenzia di sicurezza palestinese Jihaz al-Rasd con esponenti dell’estrema destra neofascista tedesca. Le oltre 2000 pagine desegretate nel 2012 rivelarono clamorosamente che per preparare l’assalto al villaggio olimpico, coordinando l’organizzazione in tutte le sue fasi dalla stanza di un albergo di Monaco, Abu Daud si era sì avvalso dell’assistenza tedesca, ma non di militanti della sinistra radicale, come ritenuto probabile da esperti e analisti contemporanei, bensì di una cellula neonazista, una piccola compagine denominata Volksbefreiungsfront Deutschland (“Fronte di liberazione popolare della Germania”), organizzata e capitanata da una figura chiave dell’eversione neonazista nella Repubblica federale tedesca e uomo di raccordo fra Fatah e gli ambienti dell’estrema destra tedesca: Udo Albrecht.

LA PRIMULA ROSSA DEL TERRORISMO NERO

Udo Albrecht nel 1968

Per conoscere Udo Albrecht, facciamo un salto in avanti. Fine giugno 1981: il quarantunenne originario di Beyroda (Turingia, DDR) si trovava in carcere a Bielefeld da dieci mesi, sottoposto a custodia cautelare per rapina aggravata plurima e associazione finalizzata al terrorismo. Le autorità lo tenevano sotto stretta osservazione, era già evaso sette volte. Rischiava ora una pesante pena detentiva e la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza a vita. Per questo motivo, Albrecht si era deciso a collaborare. Confessò una rapina con ostaggi e indicò agli inquirenti come individuare tre depositi di armi, esplosivi e banconote false appartenenti alla milizia Wehrsportgruppe Hoffmann, la più grande organizzazione neonazista tedesca, bandita e sciolta dal ministero degli Interni nel gennaio dell’anno precedente. Due depositi furono rinvenuti subito, a Monaco e Dortmund, il terzo non si trovava. I magistrati accettarono allora l’offerta di Albrecht di accompagnare la polizia nelle ricerche. Il 29 luglio 1981 il detenuto venne condotto in località Büchen, lungo i binari della linea Amburgo-Berlino, a ridosso del confine con la Germania orientale, gli tolsero le manette e gli misero in mano una pala. Al passaggio di un convoglio ferroviario, Albrecht approfittò di un momento di distrazione generale per sottrarsi alla sorveglianza e fuggire. Corse dritto verso le fortificazioni di frontiera, inseguito dagli agenti della penitenziaria. Le guardie tedesco-orientali spalancarono una porticina e lo lasciarono entrare, gli inseguitori si trovarono i kalashnikov dei Grenzer puntati contro e si fermarono, poco prima che il varco nella Cortina di ferro si richiudesse. Albrecht si era rifugiato nella DDR.

Albrecht oltrepassa il confine DDR

Era scappato di nuovo, stavolta però l’evasione aveva del clamoroso. Chi l’aveva aiutato a fuggire? La Stasi? O gli amici del Servizio palestinese? Oppure il BND tedesco-occidentale? A oggi l’enigma non è sciolto. Sappiamo che l’antiterrorismo della Stasi conosceva bene Albrecht ed era da tempo interessata a incontrarlo. E in quell’estate del 1981 non si lasciarono sfuggire l’occasione. Se lo portarono in una safe house a Klein Köris, una cinquantina di chilometri a sud di Berlino, dove per dieci giorni fu trattenuto per rispondere alle domande dei funzionari della Divisione XXII. I verbali dei colloqui riempiono due grossi faldoni per un totale di oltre mille pagine, grazie alle quali è possibile ricostruire i passaggi principali della carriera di criminale e militante politico di Albrecht. I tedeschi gli assegnarono il nome in codice König, “il Re”. Per i palestinesi era “il Generale”.

Albrecht nella DDR

Dai documenti della Stasi risulta che Udo Albrecht abbandonò la DDR per trasferirsi all’Ovest con la famiglia nel 1956, all’età di 16 anni. Il padre e il nonno, fanatici nazisti e anticomunisti, avevano fatto esperienza della repressione sovietica. Frequentando gli ambienti della frammentata destra radicale nella regione del Reno-Ruhr, maturò l’idea di una lotta di liberazione nazionale da condurre in Germania contro “l’imperialismo sionista” e l’occupazione americana, sull’esempio di quella palestinese contro Israele. A questo scopo formò il Volksbefreiungsfront Deutschland, organizzazione che non mise a segno alcuna operazione, ma servì ad Albrecht, insieme all’esperienza di rapinatore plurievaso e abile falsario, per allacciare contatti in Medio Oriente, con esponenti della Lega araba a Bonn e Parigi, e ad attirarsi le simpatie di Fatah, per la precisione di Abu Ayad, numero due di Fatah e capo del Rasd, interessato alla collaborazione con militanti antisionisti europei, non importa se di destra o sinistra radicale, l’unica cosa che contava era che fossero disposti a sostenere la causa palestinese.

Salah Khalaf conosciuto anche come Abu Ayad

Nel 1970, Albrecht si trasferì temporaneamente a Beirut, dove in autunno partecipò al fianco dei fedayn di Fatah ai combattimenti contro l’esercito giordano, guadagnandosi definitivamente la fiducia di Abu Ayad, che lo inserì nei ranghi del Servizio segreto palestinese con il compito di reclutare giovani antisemiti da addestrare alla guerriglia nei campi dell’OLP e da impiegare in operazioni di trasporto clandestino di armi ed esplosivi fra il Medio Oriente e l’Europa. Proprio in quel periodo, a cavallo fra il 1971 e il 1972, uomini di Abu Ayad generavano l’organizzazione terroristica denominata Settembre nero, formazione apparentemente autonoma e priva di legami con l’OLP, in verità costola del Rasd per la realizzazione di operazioni terroristiche di profilo internazionale. Tali operazioni rientravano in una strategia di internazionalizzazione della lotta, volta a proiettare il conflitto arabo-israeliano nel teatro europeo, richiamando così l’attenzione occidentale e della comunità internazionale sulla questione palestinese. La novità di Settembre nero era la sua struttura acefala, composta di piccole cellule compartimentate e operanti autonomamente, in regime di rigida compartimentazione delle informazioni. Questa particolare configurazione, che fece scuola trasversalmente nei settori dell’eversione europea, metteva la leadership di Fatah in condizione di poter esercitare una plausibile declinazione di responsabilità, distanziandosi ufficialmente dagli attentati.

Il finanziere svizzero François Genoud

Spregiudicata era, sul piano operativo, anche la politica delle alleanze di Settembre nero, aperta a tutte le forze antiebraiche. L’appoggio ricevuto da una cellula neonazista per l’attentato alle Olimpiadi di Monaco non era infatti un caso isolato e aveva radici storiche che risalivano al periodo del Gran Muftì di Gerusalemme Amin al-Husseini, precursore del fondamentalismo islamico e predicatore della Jihad al fianco dei nazisti, nonché alle origini nasseriste del movimento di liberazione nazionale palestinese. Il consigliere e consulente finanziario di Husseini durante la Seconda guerra mondiale, il finanziere svizzero François Genoud, noto negazionista antisemita e ammiratore di Hitler, aveva abbracciato nel dopoguerra la causa del nazionalismo arabo e contribuito, recuperando le risorse necessarie all’acquisto di armi, alla vittoria del Fronte di liberazione nazionale algerino nella guerra d’indipendenza contro la Francia. Dopo la Guerra dei Sei giorni, di fronte a iniziali esitazioni sovietiche nei confronti delle richieste di aiuto palestinesi, Genoud aveva giocato d’anticipo, mobilitando settori dell’informale Internazionale nera, di base nella Spagna franchista e alla quale erano legati svariati ex nazisti, per intervenire in aiuto dei palestinesi contro Israele. Sempre Genoud gestiva, insieme ad Ali Hassan Salameh, i depositi bancari del terrorismo palestinese presso la Banca commerciale araba a Ginevra.

LE MISTERIOSE VENTI VALIGIE NASCOSTE A BEIRUT

Un’altra immagine di Abu Daud

Anche Albrecht fu incaricato di aprire conti in Svizzera sotto la falsa identità di Gerhard Jäger. Il tedesco operava inserito nella struttura logistico-operativa della cosiddetta cellula Amin-Atef (dai nomi dei due dirigenti del Rasd Amin al-Hindi e Atef Bseisu), nucleo del Servizio palestinese che si muoveva in Germania a cavallo della Cortina di ferro e intratteneva rapporti “diplomatici” sia con il BKA tedesco occidentale che con la Stasi. Albrecht aveva inoltre un rapporto diretto con Abu Daud, capo militare di Settembre nero e personaggio di cui l’antiterrorismo della DDR scriverà lapidariamente: “… per esperienza, il suo comparire è segnale di imminenti azioni di grande portata”. Nel corso degli anni settanta, Albrecht si occupò principalmente della supervisione delle linee di movimentamento delle armi per i commando palestinesi, finendo periodicamente arrestato in Germania, Svizzera e Austria e riuscendo sempre a uscire di galera o a evadere, per riprendere immediatamente il lavoro. Fino al 1979, quando il rapporto con i palestinesi si raffreddò. Abu Ayad riteneva non più praticabile la collaborazione con un superricercato, per riconoscenza volle però offrirgli l’opportunità di aprire un’attività commerciale, l’impresa Special Car Service, che vendeva all’OLP autocarri Unimog e fuoristrada usati dell’esercito tedesco.

I miliziani neonazisti della Wehrsportgruppe Hoffmann

Sul finire del 1979, Albrecht fu intercettato dal BND, l’intelligence della Germania Ovest, che tramite il faccendiere e agente Rolf Jung alias Werner Mauss gli offrì protezione e documenti falsi sicuri per muoversi in Europa in cambio di informazioni su ciò che si muoveva nella galassia palestinese e sui soggiorni di terroristi tedeschi in Medio Oriente. Albrecht accettò, portando avanti per mesi un doppio gioco: fornì a Bonn ragguagli sulla permanenza in Libano dei miliziani neonazisti della Wehrsportgruppe Hoffmann, ospitati in una struttura del Rasd (l’organizzazione era coinvolta nelle indagini sulla strage all’Oktoberfest di Monaco del 26 settembre 1980) e, contemporaneamente, tenne aggiornato Abu Ayad sulla sua collaborazione con il BND. Non appena quest’ultima si interruppe, per le richieste eccessive dell’agente Mauss, Albrecht perse la protezione di cui aveva goduto e venne immediatamente arrestato ad Amburgo nell’agosto 1980. Seguì, l’anno successivo, la spettacolare fuga nella DDR. Studiando la copia di informazioni fornite da Albrecht a Klein Köris, gli analisti della Stasi ragionarono sulle circostanze dell’evasione, che avevano accettato di sostenere: poteva essere stata favorita dagli stessi Servizi della Germania Ovest? Forse speravano di poter reinserire Albrecht nei circoli dell’intelligence palestinese? Oppure era il Rasd a volerselo riprendere? Che cosa volevano tutti da Albrecht?

Willi Pohl nel 1970

La risposta a questa domanda, che Albrecht fornì alla Stasi durante i colloqui di Klein Köris, fu la seguente: venti valigie, nascoste a Beirut, cariche di appunti e documenti, indirizzi, agende, persino detonatori e altro materiale usato nel corso degli anni per fabbricare ordigni esplosivi. Quindi: indizi per sciogliere crimini irrisolti? Quelle valigie erano la sua assicurazione, spiegò Albrecht, aggiungendo che le aveva promesse un po’ a tutti i Servizi coi quali era entrato in contatto o affari. Il 5 agosto 1981 arrivò a Berlino est Atef Bseisu, per discutere con la Stasi come procedere con Albrecht. I funzionari tedeschi dell’antiterrorismo e dell’HVA di Markus Wolf si lasciarono convincere a farlo tornare in Libano. Il Rasd gli fornì un passaporto libico a nome Ahmed Salem Mahmood e Albrecht lasciò la DDR il 9 agosto 1981, raggiungendo Beirut via Damasco. Lì i palestinesi lo interrogarono per settimane, girando infine alla Stasi nel dicembre 1981 una relazione di 47 pagine e due nastri con la registrazione di parte delle conversazioni, dalle quali si evinceva che Albrecht, intenzionato a riconquistarsi la fiducia di Abu Ayad a tutti i costi, rivelava che il suo ex braccio destro, Willi Pohl, era una spia. Lavorava per la CIA.

Un’altra immagine di Pohl, risalente al 1972

Fra il dicembre 1981 e il gennaio 1982 Stasi e Rasd discussero dell’opportunità di accettare la proposta di Albrecht di organizzare insieme ad Abu Daud l’assassinio di Pohl e dell’agente del BND Werner Mauss. Convennero che Albrecht non era elemento idoneo per realizzare un’operazione del genere, giudicata assai delicata. Da allora di Albrecht si perse ogni traccia. A Berlino est si continuarono a seguire con attenzione le ricerche del BKA, senza escludere la possibilità che potessero averlo liquidato i palestinesi. Nel marzo 2019 la Procura di Dortmund ha comunicato di avere ritirato l’ordine di cattura, ritenendo gli investigatori del BKA improbabile che sia ancora vivo. Il “Generale” avrebbe oggi 83 anni.

LE TRE VITE DI WILLI POHL

Le vittime israeliane dell’agguato alle Olimpiadi di Monaco 1972

Udo Albrecht seguì a distanza la preparazione dell’agguato alle Olimpiadi di Monaco 1972. Quando Abu Daud giunse in Germania per organizzare l’operazione, il capo del Volksbefreiungsfront si trovava in carcere da un paio di mesi. Ad assistere Daud sul campo furono due suoi uomini, il falsario Wolfgang Abramowski, che confezionò i passaporti falsi per il commando in una tipografia di Beirut, e Willi Pohl, pregiudicato per rapina, che organizzò le auto necessarie agli spostamenti e fece da autista ad Abu Daud. Pohl e Albrecht si erano conosciuti nel carcere di Werl, in Vestfalia. Originario della Ruhr, Pohl era un ragazzo sbandato, facilmente influenzabile, perché affamato della considerazione altrui. Il carisma e la determinazione del neonazista lo impressionarono tanto da spingerlo ad unirsi alla sua organizzazione, sebbene non avesse un orientamento politico definito: “Non sono mai stato davvero nazista”, spiegherà molti anni avanti, “ero piuttosto un cane sciolto, uno che ha preso così tanti calci nella vita da avere solo voglia di mordere, non importa come”. E ancora: “se avessi incontrato Andreas Baader in quel momento, probabilmente sarei finito nella RAF.” Ma invece aveva incontrato Albrecht, il quale lo aveva immediatamente messo in contatto con i suoi referenti palestinesi. Appena uscito di carcere, Pohl era volato a Beirut, dove fu accolto da Abu Daud e Abu Ayad, che lo istruirono e gli consegnarono una pistola per sancire il suo ingresso in Settembre nero.

I resti di uno degli elicotteri sui quali i terroristi palestinesi tentarono di partire, con gli ostaggi israeliani, dalla base aerea di Fürstenfeldbruck. Il blitz della polizia tedesca provocherà un massacro

Il 5 settembre 1972, Pohl seguì alla televisione, da Vienna, l’operazione di Monaco, alla cui organizzazione aveva partecipato, senza conoscerne i dettagli. Fu catturato, insieme ad Abramowski, nell’abitazione dell’ex ufficiale delle Waffen-SS Charles Jochheim, sei settimane dopo il tragico epilogo dell’agguato, il 27 ottobre 1972. I due stavano preparando un duplice azione terroristica per vendicare gli attentatori di Monaco rimasti uccisi. Il piano prevedeva l’assalto in contemporanea al duomo di Colonia e a quello di Santo Stefano a Vienna la notte di Natale. Pohl fu trovato in possesso di una lettera minatoria indirizzata al magistrato responsabile delle indagini sui tre terroristi sopravvissuti allo scontro a fuoco di Fürstenfeldbruck e incarcerati in Germania. All’esame delle armi rinvenute nell’appartamento (mitra kalashnikov e bombe a mano di fabbricazione belga, confezionate per l’esportazione in Arabia Saudita), queste risultarono del medesimo tipo di quelle utilizzate dai terroristi per assassinare gli ostaggi israeliani. Pohl e Abramowski subirono lievi condanne e, quattro giorni dopo la sentenza, il primo fuggì a Beirut, per il sollievo delle autorità federali, che temevano un’azione palestinese per liberarlo. Anche i tre terroristi superstiti di Fürstenfeldbruck furono liberati a fine ottobre 1972 con il dirottamento di un volo Lufthansa. Il governo tedesco-occidentale acconsentì immediatamente al rilascio dei responsabili della strage, che furono accompagnati in Libia. In seguito, si diffuse il sospetto che il dirottamento non fosse stato contrastato da Bonn per liberarsi dei terroristi e mettersi al riparo da prevedibili ritorsioni terroristiche.

Willi Pohl a Beirut

Nella primavera del 1974, Pohl riprese il lavoro per Fatah e il Servizio segreto dell’OLP. Abu Ayad gli fece mettere a disposizione una villetta, nella quale il tedesco andò ad abitare con la sua nuova compagna e una bambina di otto anni. Lo scoppio della guerra civile libanese, nell’aprile 1975, stravolse la tranquilla esistenza della famiglia tedesca. Pohl faceva il padre, il marito e svolgeva missioni per conto del Rasd, effettuando viaggi sotto falso nome. Durante una delle periodiche trasferte in Europa (doveva portare a Belgrado una Mercedes), venne fermato e trattenuto alla frontiera rumena per accertamenti. Dentro a un doppio fondo sotto la macchina a bordo della quale viaggiava era stipato un carico di esplosivo e armi da guerra. Sconcertato, Pohl cercò di spiegare agli ufficiali rumeni di essere stato ingannato, l’auto era stata manipolata a sua insaputa. Non gli credettero. Solo l’intervento di Fatah, in ottimi rapporti col regime di Ceausescu, riuscì a sbloccare la situazione. Armi e auto rimasero sequestrati, a Pohl fu consentito di proseguire verso la Jugoslavia. Deluso e furioso per essere stato tradito dai capi del Rasd, di cui si fidava, illuso di goderne la stima, il tedesco realizzò di essere poco più di una pedina nella disposizione dei palestinesi, e per giunta sacrificabile. Decise di vendicarsi, rivolgendosi agli americani.

Duane Clarridge, capo del centro antiterrorismo CIA a metà anni Settanta

Nell’estate 1975, Pohl si presentò all’ambasciata USA a Belgrado, chiedendo di parlare con un funzionario della sicurezza. Fu accolto con curiosità e interesse, non appena realizzarono che lavorava davvero per Arafat. L’allora capo del centro antiterrorismo CIA Duane Clarridge lo assegnò alle cure di un esperto case-officer, Terrence Douglas alias agente “Gordon”, che operava sotto copertura diplomatica presso l’ambasciata USA di Bonn. La collaborazione confidenziale con Pohl alias fonte “Ganymede” permise all’intelligence americana di ricevere informazioni direttamente dall’interno del quartier generale dell’OLP a Beirut. I documenti fotografati da Pohl negli uffici della direzione del Rasd, a rischio della vita sua e della sua famiglia, misero la CIA in condizione di identificare numerose cellule terroristiche in vari paesi, di sventare attacchi terroristici in Svezia, Germania Ovest e Israele e anche di conoscere lo stato dei rapporti fra l’intelligence di Arafat e i due terroristi internazionali all’epoca più pericolosi, Abu Nidal e Carlos. Dopo essere stato catturato e torturato dai falangisti nel dicembre 1975, Pohl pretese dagli americani maggiore protezione e l’opportunità di rifarsi un’esistenza legale. La CIA rispose intervenendo presso le autorità tedesche affinché gli venisse ripulita la fedina penale, consentendogli così di tornare a vivere in Germania con la famiglia senza tema di venire arrestato. Iniziò così la terza vita di Willi Pohl, dopo quella del criminale comune e del doppio spione: quella dello scrittore di successo. Riscoprendo una vecchia passione di gioventù, si mise a scrivere e pubblicare con lo pseudonimo di E. W. Pless romanzi gialli e polizieschi.

Oggi Willi Pohl, anzi Voss (ha assunto il cognome della moglie), è un apprezzato autore di thriller a sfondo politico e sceneggiature di polizieschi per la tv pubblica tedesca ARD.

“GANYMEDE” E LA GRANDE OFFENSIVA DEL 1979-81

Arafat con Abu Ayad

La doppia collaborazione segreta di Pohl con il Rasd e la CIA non si esaurì però col suo rientro in Germania nel 1976, bensì proseguì fino alla cacciata dell’OLP da Beirut a seguito dell’invasione israeliana del Libano nel giugno 1982. Muovendosi fra il Medio Oriente, l’Europa orientale e il Nordafrica per conto dei suoi committenti, il doppio agente venne a conoscenza dei piani palestinesi di scatenamento di una nuova grande offensiva terroristica in Europa per reagire alla crisi dell’OLP, provocata dagli accordi di Camp David del settembre 1978. L’intesa fra Egitto e Israele, preludio al trattato di pace siglato nel marzo dell’anno successivo, faceva vacillare la leadership di Arafat e insidiò gli interessi sovietici nella regione. La linea di moderazione della violenza terroristica e della disponibilità a trattare con Israele, abbracciata dal presidente dell’OLP nel 1974, non aveva dato frutti soddisfacenti per tenere a bada le frange più radicali del movimento palestinese. Nell’autunno 1978, coinvolgendo anche militanti dei gruppi lottarmatisti europei (soprattutto tedeschi), i vertici del Rasd intrapresero la costruzione di una nuova struttura militare coperta che doveva funzionare da braccio armato del Fronte del Rifiuto e delle Fermezza, consorzio informale dei regimi arabi (Libia, Siria, Sudyemen, Iraq) uniti contro il “tradimento” del regime egiziano di Sadat. Abu Ayad si mosse insomma riproponendo uno schema simile a quello del primo assalto all’Europa all’inizio degli anni settanta ovvero appaltando l’esecuzione delle operazioni terroristiche a un’organizzazione clandestina internazionale, assemblata e gestita da Carlos e Abu Daud. La principale differenza rispetto alla stagione di Settembre nero era che gli attacchi terroristici non miravano più a impressionare l’opinione pubblica per tenere viva l’attenzione sulla causa palestinese, ma erano piuttosto messaggi mandati ai governi, atti di intimidazione, dal carattere minatorio o punitivo e opportunamente depistati, pertanto opachi per le opinioni pubbliche e di difficile decifrazione. D’altronde, il contesto geopolitico della fine degli anni settanta era mutato rispetto all’inizio del decennio e il terrorismo era diventato uno strumento usato da regimi come quelli di Assad, Gheddafi e Saddam Hussein per regolare conti interni al mondo arabo, conflitti per l’egemonia regionale, ma anche per contrastare intrusioni dei governi occidentali nello scenario mediorientale.

Nel triennio 1979-1981, la fonte “Ganymede” si rivelò particolarmente preziosa, e non solo per la CIA, per comprendere ciò che stava accadendo e anche per parare alcuni colpi. Nell’aprile 1979, per esempio, le segnalazioni di Pohl, tempestivamente girate dalla CIA al BKA, permisero alla polizia tedesca di fermare ben quattro commando palestinesi in procinto di colpire entro pochi giorni a Berlino Ovest, Amburgo e nel sud della Germania. Sarebbero dovuti essere i primi fuochi del nuovo ciclo terroristico, come confermava anche una relazione della Stasi datata 3 maggio 1979. Nello stesso periodo, Pohl declinò la richiesta avanzatagli dagli americani di avvicinare Carlos, incarico che considerava troppo rischioso, fece invece pervenire agli organi di sicurezza tedesco-occidentali, sempre tramite la CIA, le indicazioni necessarie per far scattare l’arresto di Albrecht ad Amburgo nell’estate 1980. Proprio Udo Albrecht, il suo mentore d’un tempo, l’uomo che lo aveva inserito nel network del terrorismo internazionale, avviandolo alla sua singolare “carriera”, provò a fargliela pagare l’anno successivo, dopo la sua clamorosa fuga oltrecortina, convincendo i palestinesi ad eliminarlo. Stando al racconto di Pohl, a salvargli la vita fu Abu Ayad, che evidentemente non aveva creduto al suo tradimento.

 

Storico e ricercatore, Falanga ha pubblicato numerosi lavori sulla Stasi e la DDR. Il suo ultimo libro – Non si parla mai dei crimini del comunismo – è uscito recentemente per Laterza.