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La strage di Monaco 1980. Heinz Lembke e il fantasma di Stay Behind

Redazione Spazio70

Il carattere anomalo della strage di Monaco e il suo (non provato) collegamento con la grande quantità di armi nascosta da un guardaboschi neonazista nel nord della Germania alimentarono già all’epoca dei fatti il sospetto di una qualche complicità di apparati dello Stato. La magistratura tedesca archiviò però velocemente sia l'inchiesta principale sia quella sugli strani ritrovamenti

di Gianluca Falanga

Il cestino dei rifiuti, nel quale scoppiò la bomba, era un bidone per la carta in rete metallica, stava poggiato in terra, fissato con una catena a un palo della segnaletica stradale. Dal suo interno si levò prima una fiammata, alta circa un metro, un fiotto sfolgorante che sfrigolò sibilando per quattro, massimo cinque secondi, come un fuoco d’artificio. Seguì l’esplosione, un botto tremendo, cupo e assordante. La detonazione disintegrò il bidone, trasformandone le maglie di metallo in una miriade di piccole schegge affilate, una sventagliata di chiodi scagliati ad altezza d’uomo, che andarono a fare strazio dei corpi che incontravano sulla loro traiettoria entro un raggio di oltre quaranta metri. 13 morti e 221 feriti fu l’atroce bilancio finale del più sanguinoso attacco terroristico nella storia della Germania dal 1945. Da quella sera sono trascorsi ormai più di quarant’anni e la strage di Monaco 1980 continua a nascondere i suoi enigmi, rimasti senza soluzione. Alcuni di questi riguardano proprio la bomba: dove e da chi fu confezionata? Qual era la provenienza dell’esplosivo? Chi e come provocò la detonazione? E perché Gundolf Köhler, un giovane estremista di destra, rimase ucciso, tenendo fra le mani l’ordigno al momento dell’esplosione?

Strage di Monaco 1980. Ricostruzione della dinamica della detonazione in sede di esame esplosivistico

Ricostruzione della dinamica della detonazione in sede di esame esplosivistico

Gli accertamenti esplosivistici misero in evidenza che quella di Monaco era una bomba strana, un bizzarro artefatto, una via di mezzo fra una bomba e un fuoco d’artificio, o meglio: una combinazione di entrambe le cose. Una bombola di gas compresso, ricavata da un estintore, era stata inserita dentro l’involucro di un proiettile di mortaio di fabbricazione britannica, privato della punta e riempito con circa 1,39 kg di tritolo di origine militare. Nella bombola si trovava invece la nitrocellulosa che aveva causato la fiammata iniziale osservata da numerosi testimoni, ve n’erano rimaste tracce sui resti ustionati del volto, sul torso e sui monconi delle braccia mozzate del cadavere di Köhler. Evidentemente, la fiammata doveva avere investito il ragazzo all’improvviso, cogliendolo di sorpresa, mentre ancora si trovava piegato in avanti verso il fondo del cestino, bruciandogli la faccia e le mani, a diretto contatto con l’ordigno, e impedendogli di allontanarsi. L’esplosione, secondo l’ultima perizia disposta dalla Procura generale federale nel corso della seconda inchiesta del 2014-2020, sarebbe stata innescata da una capsula detonante (non ritrovata), resta l’enigma della fiammata iniziale, che non aveva funzione di innesco. A che doveva servire allora quella costruzione a due fasi così inutilmente sofisticata e delicata?

LE CONFESSIONI DEI DAG

Strage di Monaco 1980. Gundolf Köhler, sedicenne, testa una delle armi artigianali fabbricate nella casa dei genitori

Gundolf Köhler, sedicenne, testa una delle armi artigianali fabbricate nella casa dei genitori

Che Köhler avesse un debole per le armi e gli esplosivi, passione che gli fu infine fatale, unita ai suoi orientamenti politico-ideologici, non era un mistero. Il giorno dopo la strage all’Oktoberfest, nella casa dei suoi genitori a Donaueschingen fu ritrovato un intero laboratorio chimico, dove lo studente di geologia era uso cimentarsi nella fabbricazione di rudimentali modelli di razzi e bombe a mano artigianali. Fatture e ricevute attestavano l’acquisto di sostanze chimiche, attrezzatura specifica, pinze, fili di accensione, spolette. Da annotazioni, schizzi e disegni sequestrati nel corso della perquisizione, gli esperti dedussero che Köhler non disponeva di conoscenze tecniche tali da potere costruire da solo l’ordigno detonato a Monaco né poteva avere confezionato lì la bomba (contrariamente a quanto scrissero i giornali). Nell’officina-laboratorio non fu riscontrata infatti alcuna traccia del tritolo di uso militare. Quello stesso giorno, 27 settembre 1980, i funzionari di polizia giudiziaria incaricati dell’indagine (Sonderkommission Theresienwiese) ricevettero informazione da Karlsruhe (sede del Procuratore generale) che due neonazisti, interrogati nell’ambito di un’altra inchiesta, stavano fornendo indicazioni utili a determinare la provenienza dell’esplosivo.

Raymund Hörnle e Sibylle Vorderbrügge avevano deciso di collaborare. Militavano in una banda armata di estrema destra denominata Deutsche Aktionsgruppen (DAG) e da una quindicina di giorni si trovavano sottoposti a custodia cautelare nel carcere di Karlsruhe. Nell’arco di sei mesi fra il febbraio e l’agosto 1980, avevano compiuto una serie di ben sette attacchi esplosivi e incendiari contro strutture per richiedenti asilo e luoghi commemorativi dei crimini nazisti nelle regioni di Stoccarda e Amburgo. Dopo il rogo appiccato nella notte del 22 agosto a un centro di prima accoglienza per migranti, nel quale avevano trovato la morte due giovani profughi vietnamiti, la cellula terroristica, capeggiata dall’avvocato neonazista Manfred Roeder, in clandestinità dal 1978, era stata sgominata dalla polizia. Hörnle e Vorderbrügge, rispettivamente responsabili per la fabbricazione degli ordigni e la logistica dell’organizzazione, avevano raccontato ai magistrati che nell’agosto 1980, alla ricerca di armi per proseguire la campagna terroristica, erano stati incaricati da Roeder di prendere contatti con un guardaboschi nella piana di Lüneburg (Bassa Sassonia). Questo aveva offerto loro una cassa contenente esplosivo militare, spolette e detonatori. Declinando la proposta di entrare nell’organizzazione, l’uomo aveva spiegato che il suo compito nel movimento era un altro: rifornire di armi i camerati e addestrarli all’uso degli esplosivi. Il suo nome era Heinz Lembke.

 UN GUARDABOSCHI NEONAZISTA

Immagine di Heinz Lembke mostrata alla televisione in occasione del suo arresto (ottobre 1981)

Immagine di Heinz Lembke mostrata alla televisione in occasione del suo arresto (ottobre 1981)

L’allora quarantatreenne Heinz Lembke vantava una lunga militanza neonazista. Originario di Stralsund, era cresciuto nella DDR, dalla quale era fuggito ventenne nel 1959. Fin da giovanissimo aveva maturato una forte avversione per i russi e un viscerale anticomunismo. A differenza di figure carismatiche come Roeder e Karl-Heinz Hoffmann, Lembke non era un ideologo, bensì un soldato, dotato di notevoli capacità organizzative e una fanatica passione per le armi. Dopo la trafila nelle principali organizzazioni neonaziste della Germania Ovest (Bund Vaterländischer Jugend, Bund Heimattreuer Jugend, Deutsche Reichspartei, NPD), nella seconda metà degli anni Settanta, Lembke aveva assunto a livello locale una funzione di cerniera fra Roeder e la rete dei Wehrsportgruppen, divenendo uno dei principali organizzatori di campi di addestramento paramilitare per militanti, ai quali pare fosse anche in grado di fornire armi ed esplosivo per realizzare le loro azioni. Uno dei suoi clienti era il neonazista Peter Naumann, autore nel giugno 1978 di una serie di attacchi dinamitardi contro le fortificazioni di frontiera della DDR e insieme al quale Lembke, sempre nell’estate 1978, nella notte del 30 agosto, aveva fatto esplodere un ordigno al mausoleo commemorativo dell’eccidio nazista delle Fosse Ardeatine a Roma, danneggiandone il portale.

Nella casa del guardaboschi in località Oechtringen, subito perquisita, non fu rinvenuto esplosivo. E sebbene Hörnle e Vorderbrügge avessero dichiarato che Lembke aveva rivelato loro di gestire depositi segreti di armi, interrate in appositi nascondigli nei boschi della regione, inspiegabilmente gli inquirenti mancarono di verificare l’esistenza effettiva di quei depositi e nemmeno cercarono di sapere chi avesse appreso da Lembke come maneggiare gli esplosivi militari. Forse anche Gundolf Köhler, l’attentatore di Monaco? La pista Lembke, insomma, si insabbiò subito e riemerse solo nell’autunno 1981, a più di un anno dalla strage di Monaco. Casualmente, il 26 ottobre 1981, un operatore forestale, piantando dei pali per innalzare un recinto nei boschi vicino a Oechtringen, s’imbatté in un nascondiglio scavato nel terreno, dentro al quale erano state ordinatamente riposte alcune cassette di metallo avvolte in una pellicola impermeabile, contenenti munizioni, detonatori ed esplosivo. La pronta denuncia dell’uomo fece scattare l’arresto immediato di Lembke, la cui casa si trovava a pochi chilometri di distanza dal sito del ritrovamento. Il guardaboschi era stato appena rilasciato dopo sei mesi di detenzione coattiva, ordinata dai magistrati per costringerlo a rispondere alle loro domande su Roeder e le azioni dei DAG. Quando andarono a prelevarlo, prima di salire sulla volante, pregò la moglie di andargli a prendere la prolunga della sua radio portatile.

«WOLFSZEIT!»

Strage di Monaco 1980. Cassette di esplosivo trovate nei 32 depositi interrati

Cassette di esplosivo trovate nei 32 depositi interrati

Il giorno dopo l’arresto di Lembke, la polizia della Bassa Sassonia rinvenne altri due depositi interrati nelle immediate vicinanze del primo. In una delle cassette metalliche fu trovato un registro delle armi sistemate in 33 nascondigli: 159,5 kg di tritolo e pentrite, tre pistole, nove fucili, circa 13.500 proiettili e un mitra MP40 della Wehrmacht, e poi ancora 258 bombe a mano, 50 lanciagranate anticarro con relative munizioni, 2005 capsule detonanti, 146 metri di miccia e fiammiferi elettrici, manuali della Bundeswehr e sostanze chimiche (fosforo, cianuro, arsenico, stricnina). L’inventario del piccolo arsenale clandestino era stato stilato con grande precisione e risultò coincidente al contenuto delle 88 cassette recuperate da un’unità di sminatori dell’esercito in 32 depositi segreti seguendo le indicazioni fornite dallo stesso Lembke. La condotta di quest’ultimo nei confronti dei magistrati fu infatti assai diversa da quella tenuta fino a poche settimane prima, non si atteggiò a martire irriducibile ma collaborò parzialmente con gli inquirenti, quantomeno svelando l’ubicazione dei nascondigli, che furono individuati tutti, eccetto uno soltanto: il Depot 82. Lembke si rifiutò categoricamente di aiutare a cercarlo, perché – così dichiarò – il suo contenuto avrebbe prevedibilmente comportato l’incriminazione di altre persone.

Il mattino del 1° novembre 1981, Heinz Lembke fu trovato cadavere in cella, impiccato con la prolunga della sua radio, che l’autorità carceraria gli aveva appena concesso di tenere. Il giorno prima aveva inaspettatamente dato a intendere ai magistrati di essersi deciso a rendere dichiarazioni importanti. In cella fu trovato anche un messaggio del suicida: «Camerati! Sapete benissimo perché non posso continuare a vivere. Wolfszeit! Salute a voi, Heinz Hermann Ernst Lembke.» Nella mitologia nordica, l’espressione Wolfszeit (tempo dei lupi) indica il periodo che precede l’apocalisse, quando l’ordine e tutti i valori si disgregano e si impone la legge del branco. Fu interpretato come testamento di un camerata che non voleva tradire. La notizia del suicidio, che faceva seguito a quella del ritrovamento delle armi, finì su tutti i giornali, ma a poche ore dall’accaduto il Procuratore Rebmann avocò a sé l’inchiesta sull’arsenale accumulato da Lembke e impose il segreto investigativo. Sulle indagini calò il silenzio. Per un anno, fino all’archiviazione dell’inchiesta alla fine del 1982. La Procura generale non fu in grado di chiarire l’origine della maggior parte delle armi accumulate da Lembke a partire dal 1977. Fu acclarato invece che il grosso delle munizioni e le spolette erano state trafugate da un grosso impianto di smaltimento di armamenti dismessi della Bundeswehr in località Dragahn. Il misterioso deposito 82, nonostante le ricerche, non fu mai individuato.

ANCORA UN EINZELTÄTER

Manfred Roeder

Manfred Roeder

Sostanzialmente ignorando il peso dei suoi contatti con Roeder e Naumann e la sua partecipazione all’attacco esplosivo al memoriale delle Fosse Ardeatine, Rebmann concluse che Lembke non era un terrorista né faceva parte di un’organizzazione terroristica e le armi non erano state accumulate e nascoste per perseguire finalità eversive, bensì a scopo autodifensivo, per opporre resistenza in un particolare scenario di guerra partigiana: «La vita e la personalità di Lembke, come si evince dalle dichiarazioni rese, non sembrano indicare che Lembke intendesse attentare all’ordine costituzionale della Repubblica Federale con attacchi esplosivi o azioni omicide. Piuttosto, inducono a ritenere almeno possibile che Lembke fosse pervaso da un indefinito timore di un’invasione russa da est e che fosse determinato a resistere contro gli invasori come guerrigliero solitario o leader di una formazione partigiana. A questo scopo potrebbe avere raccolto e seppellito le armi ritrovate nei depositi interrati.» Occorre tenere presente che l’autore di queste parole, il Procuratore Rebmann, era titolare di entrambe le inchieste, quella della strage all’Oktoberfest e quella dell’arsenale di Lembke, dopo averle portate avanti in parallelo, le archiviò quasi contemporaneamente, nel giro di una settimana, la prima il 23 novembre 1982, la seconda il 2 dicembre 1982, escludendo ogni collegamento fra le due vicende. L’unica cosa che le accomunava era l’esito analogo delle rispettive inchieste: Köhler e Lembke erano dichiarati entrambi Einzeltäter, elementi solitari, che avevano agito per motivi personali.

La cosiddetta Einzeltätertheorie è stato a lungo lo schema esplicativo che consentiva alla magistratura tedesca dell’epoca di liquidare le indagini sulla violenza terroristica di estrema destra, evitando di fare emergere le dimensioni e la pericolosità del fenomeno, sminuendone la carica eversiva. Ciò accadeva anche per volontà della politica, timorosa di compromettere l’immagine della Germania tornata alla civiltà e di prestare il fianco agli attacchi del regime comunista tedesco-orientale, la cui propaganda di Stato faceva della postulata continuità col nazismo della Repubblica di Bonn, contrapposta alla proclamata ragion di Stato antifascista della DDR, uno dei suoi cavalli di battaglia. Come nel caso della bomba di Monaco, il terrorismo di destra veniva sistematicamente derubricato a episodiche eruzioni legate al fanatismo di singoli elementi scollegati fra loro, atti irrazionali, dietro ai quali si poteva ipotizzare l’intervento manipolatore della Stasi per mettere in cattiva luce il sistema sociopolitico occidentale e destabilizzare le istituzioni democratiche. Per inciso, negli archivi oggi consultabili della Stasi non vi è prova che l’apparato di sicurezza della DDR abbia mai manovrato i gruppi o singoli militanti neonazisti coi quali entrò in contatto. Dal 1975 in avanti la Divisione Antiterrorismo della Stasi monitorò il radicalismo di destra di là dal Muro, dedicando particolare attenzione alle frange più aggressive che effettuavano attacchi dinamitardi contro le fortificazioni di frontiera e ai loro eventuali contatti con cittadini della DDR. L’acquisizione confidenziale di elemento di spicco del neonazismo militante e bombarolo (Udo Albrecht, Odfried Hepp, Peter Weinmann) perseguiva principalmente finalità informative, sebbene non fossero escluse varie forme di protezione, sostegno e indiretta complicità. In virtù di ciò, i documenti della Stasi sono una fonte preziosa per ricostruire in sede storiografica un quadro che il governo di Bonn tendeva a sottovalutare, ma destava viva apprensione nei servizi di sicurezza (Verfassungsschutz, MAD, BND), ai quali non sfuggì la crescente pericolosità di gruppi neonazisti che negli anni Settanta sviluppavano strategie e pratiche terroristiche. 

IL TERRORISMO NERO RIMOSSO DALLA PUBBLICA COSCIENZA

Strage di Monaco 1980. Simboli e mitologia neonazista della guerriglia Werwolf

Emblema neonazista ispirato al mito della guerriglia Werwolf

Il terrorismo di estrema destra in Germania ha una lunga storia, rimasta per decenni aliena alla percezione e alla memoria pubblica, per la quale la violenza eversiva era solo di sinistra. Negli anni Settanta, all’ombra della dura lotta dello Stato contro la RAF e le altre compagini della sinistra rivoluzionaria armata, la violenza neonazista manifestò una nuova qualità. A innescare il processo di radicalizzazione di pezzi della galassia militante fu, oltre all’evoluzione liberale della società tedesco-occidentale, che isolò sempre più i nostalgici vecchi e giovani del Terzo Reich, il fallimento della strategia parlamentare del NPD, che alle elezioni federali del 1969 mancò per pochi voti l’accesso al Bundestag. Il partito nazionaldemocratico rimase il centro di gravitazione della galassia neonazista in Germania Ovest e continuò a svolgere la funzione di braccio legale del movimento, ma perse la sua capacità di contenere le spinte centrifughe delle frange più radicali. Così, negli anni Settanta, una nuova generazione di estremisti, giovani e impazienti, scettici verso la ripetibilità del modello hitleriano della via parlamentare alla conquista del potere, insofferenti verso il feticismo delle uniformi e della disciplina militare, optarono per un approccio volontaristico e, riscoprendo il mito della guerriglia Werwolf, ma traendo anche ispirazione da forme e metodi della lotta armata di sinistra, tentarono la fuga in avanti, passando all’azione.

Dal 1977, specialmente nel nord della Germania e in Assia, si registrò un crescendo di rapine di finanziamento, furti di armi e attentati incendiari ed esplosivi. Le cellule terroristiche, per lo più aggregate attorno a una figura carismatica (Manfred Roeder, Peter Naumann, Michael Kühnen), non perseguivano una strategia unitaria, anzi erano per lo più in competizione fra loro e si contendevano il primato, ma gli obiettivi colpiti rientravano in un range comune e condiviso: la frontiera con la DDR, comandi e caserme dell’esercito americano, istituzioni locali e giudiziarie, strutture di accoglienza per profughi e migranti (si radicava allora la leggenda della sostituzione etnica per cancellare la nazione tedesca), istituzioni commemorative della Shoah e dei crimini nazisti. Il 1980 fu l’annus horribilis del terrorismo neonazista, ma nel bilancio di sangue complessivo di 18 morti e oltre 200 feriti pesano le vittime della strage di Monaco, la quale, inserita in questo contesto, può apparire come il momento culminante di una strategia concertata di attacco e destabilizzazione del sistema democratico col fuoco e con le bombe, non è però difficile rendersi conto che fu una cosa diversa, un atto che per dimensioni e qualità si discostava dagli altri attentati del periodo. L’anomalia non stava tanto nella volontà di uccidere, già altrimenti dimostrata, ma nella strage di innocenti e di innocenti tedeschi, non migranti o ebrei, e per di più assassinati in occasione di una delle più tradizionali celebrazioni della cultura tedesca, nello specifico bavarese: una strage contro il popolo, contro il cittadino tedesco comune, chiaramente aliena, estranea agli orientamenti ideologici, alle strategie e agli obiettivi presi di mira delle frange più violente del mondo neonazista di quel periodo.

IL FANTASMA DI STAY BEHIND

La nuova centrale del BND a Berlino

La nuova centrale del BND a Berlino

Il carattere anomalo della strage di Monaco e il suo (non provato) collegamento con la grande quantità di armi nascosta da un guardaboschi neonazista nel nord della Germania alimentarono già all’epoca dei fatti il sospetto di una qualche complicità di apparati dello Stato. Nel dicembre 1982, quando il Procuratore Rebmann archiviò l’inchiesta sui depositi di armi di Lembke attribuendogli la paranoia dell’invasione sovietica, non era ancora nota all’opinione pubblica l’esistenza delle strutture clandestine Stay Behind (SB). Nel 2008 uscì in Germania la traduzione tedesca del saggio del politologo Daniele Ganser NATO’s Secret Armies: Operation GLADIO and Terrorism in Western Europe (ed. originale: 2005). Nel capitolo dedicato alla Germania, Ganser sosteneva che la paranoia di Lembke altro non fosse che l’idea di SB, quindi che il guardaboschi che gestiva l’arsenale dei neonazisti e li addestrava all’uso degli esplosivi non fosse un semplice camerata ma un agente della Gladio tedesca. E dando per scontato il mai provato collegamento diretto Lembke-Köhler, l’autore suggeriva la corresponsabilità del BND e della NATO nella strage di Monaco 1980, qualificandola come un probabile atto di terrorismo istituzionale, una strage di Stato. Sempre nel 2008, il giornalista Tobias von Heymann, nel suo libro Die Oktoberfestbombe, frutto di una ricerca che poteva avvalersi per la prima volta dei dossier della Stasi sulla strage di Monaco, appena resi consultabili, avvalorava l’ipotesi formulata da Ganser. A conferma che Heinz Lembke fosse stato effettivamente gestore di un deposito SB, Heymann documentò come la Stasi, avendo conoscenza delle frequenze radio utilizzate dagli agenti SB sul territorio per comunicare con la centrale del BND in Baviera, era riuscita a localizzare gran parte dei nuclei SB nelle aree a ridosso della frontiera fra le due Germanie. Proprio nelle vicinanze della casa di Lembke a Oechtringen i tecnici della Stasi ne avevano individuato uno nella primavera 1977, una coppia di coniugi, che gli operatori della Stasi chiamavano Agentengruppe 27. 

Erano Lembke e sua moglie la coppia di agenti 27 intercettata dalla Stasi? Le ricerche di Heymann non solo eccitarono le fantasie complottiste sulla strage di Monaco, ma alimentarono anche il legittimo sospetto che la condotta discutibile del Procuratore Rebmann nelle due inchieste sul complesso Lembke-Oktoberfest fosse stata dettata dalla volontà di tenere nascosto all’opinione pubblica il segreto di SB e il coinvolgimento della Gladio tedesca nel più grave atto terroristico nella storia della Germania postbellica. Nell’interrogazione parlamentare del 19 giugno 2009, il governo federale non volle rispondere alla domanda se Lembke fosse o meno un agente di SB o del BND, spiegò però che i depositi segreti del programma SB esistiti fino agli anni Ottanta erano stati rilevati dal BND nel 1956, quando gli Angloamericani avevano posto il programma SB sotto il controllo dell’intelligence tedesca, e fino allo smantellamento definitivo delle strutture SB, disposto dal governo Kohl nel 1990 e concluso entro la primavera del 1991, non ne erano stati allestiti di nuovi. Non si poteva escludere tuttavia l’eventualità che i servizi americani e soprattutto quelli britannici avessero continuato a gestire proprie reti SB sul territorio della Repubblica federale, come d’altronde dimostrava il ritrovamento, avvenuto nella primavera del 1996 nella foresta di Grunewald a Berlino, di due depositi interrati abbandonati e ancora intatti, risalenti probabilmente al 1952.

MONACO UNA STRAGE DI STATO? 

Effetti dell’evoluzione della dottrina militare NATO sull’operatività dei nuclei Stay Behind

Effetti dell’evoluzione della dottrina militare NATO sull’operatività dei nuclei Stay Behind

Il volume di Ganser, che ha l’attenuante di essere stato un lavoro pionieristico sull’argomento (all’epoca non vi erano ancora molte fonti primarie oggi disponibili), non ha le caratteristiche di un equilibrato lavoro storiografico sulle strutture SB e la loro parabola nei decenni della Guerra fredda. Oltre all’utilizzo acritico e tendenzioso delle fonti, ai numerosi errori e alle approssimazioni nonché a un’evidente ignoranza di come funzionano i servizi segreti, all’autore va rimproverata l’ossessione di volere dimostrare a tutti i costi che l’esistenza di eserciti segreti diretti dalla NATO, in verità dagli USA, impegnati in operazioni di terrorismo false flag per tenere in scacco le sinistre secondo lo schema della strategia della tensione in Italia. La tesi della regia unica delle strutture SB è stata respinta da tutti i maggiori esperti internazionali della materia (P. Davies, P.H. Hansen, O. Riste, C. Cogan, G. Schöllgen, P. Girard, T. Riegler), il comitato di coordinamento ACC ospitato dalla NATO, del quale facevano parte anche paesi neutrali come la Svezia e la Svizzera, non controllava le singole organizzazioni SB nazionali, che proprio in virtù della natura informale e clandestina del progetto erano gestite in autonomia dai servizi segreti dei rispettivi Stati ed ebbero ciascuna origini ed evoluzioni differenti. Comune a tutte, oltre al principio generale della cellula dormiente che si attiva in condizioni di occupazione nemica del territorio, fu il loro generale e sostanziale ridimensionamento a partire dall’inizio degli anni Settanta per effetto delle modificazioni della dottrina militare atlantica, che non riconosceva più al modello SB un ruolo importante nelle pianificazioni operative in caso di guerra con gli eserciti del Patto di Varsavia. Le strutture persero allora la loro componente paramilitare (sabotaggio, resistenza partigiana) e conservarono le funzioni d’intelligence.   

Il libro di Ganser è purtroppo all’origine della popolarizzazione del termine Gladio (impropriamente esteso a tutte le organizzazioni SB) come sinonimo di terrorismo di Stato, sebbene non esista alcuna prova di un coinvolgimento di tali strutture nella preparazione o realizzazione di attentati terroristici o altri atti di guerra a bassa intensità, in fondo, al netto di tutti i teoremi e anni di scavo, inchieste e processi, nemmeno in Italia. Entrando nel merito del caso tedesco, la declassificazione nel 2014 di venti faldoni sulle reti SB gestite dal BND, che sono andati ad arricchire la documentazione già messa a disposizione degli studiosi negli anni Duemila dal governo americano col Nazi War Crimes Disclosure Act, ha consentito agli storici di ricostruire l’evoluzione di quelle strutture clandestine dall’immediato dopoguerra fino alle porte degli anni Settanta. La mancanza di fonti dello stesso valore per il periodo successivo rende gran parte dei ragionamenti che si leggono in proposito di carattere speculativo. Dalle investigazioni dell’esperto di storia del BND Erich Schmidt-Eenboom e dai documenti della Stasi, si può ricavare comunque qualche punto fermo: la Gladio tedesco-occidentale si chiamava, dal 1956 in avanti, Geheimer Widerstand (Resistenza segreta); coperta dietro la facciata di un fantomatico ufficio della Bundeswehr denominato Raggruppamento di formazione per la ricognizione speciale, aveva il suo quartier generale segreto a Monaco di Baviera, da dove nei primi anni Ottanta appena una cinquantina di funzionari del BND gestiva circa un centinaio di agenti (secondo la Stasi: 85 nel 1984), semplici cittadini che mantenevano la loro piena copertura civile, organizzati in piccoli nuclei dormienti, addestrati a svolgere compiti di raccolta informativa e cura di piccoli depositi di armi leggere, apparecchiature di comunicazione, bende e viveri, da tenere a disposizione per eventuali operazioni di commando infiltrati in territorio occupato.

HEINZ LEMBKE UN «GLADIATORE»? PIUTTOSTO UN WERWOLF…

Peter Naumann

Peter Naumann

Ci sono molti buoni motivi per considerare il coinvolgimento di strutture SB nella bomba di Monaco 1980 uno scenario tanto suggestivo quanto improbabile. Innanzitutto, Heinz Lembke non era il solo a nascondere armi ed esplosivi nei boschi. Anche Peter Naumann, probabilmente co-gestore dei depositi di Lembke, aveva creato un sistema di nascondigli segreti, ritrovati nel 1995. E anche i gruppi armati di sinistra, soprattutto la RAF, in quegli stessi anni a cavallo fra la metà degli anni Settanta e gli anni Ottanta, seminavano in varie aree della Germania centro-meridionale i loro piccoli e grandi depositi segreti di armi, esplosivi e documenti falsi, in cui ancora oggi di tanto in tanto si imbattono operatori forestali, cacciatori e cercatori di funghi. Sotterrare le armi non era affatto prerogativa esclusiva dei programmi SB, anzi: l’idea della SB angloamericana, nell’immediato dopoguerra, aveva vari modelli ed esperienze precedenti a cui ispirarsi nei diversi paesi, i movimenti di resistenza partigiana, le strutture paramilitari clandestine dei partiti comunisti, il SOE britannico, ma anche le strutture SB organizzate dall’Abwehr nazista in Francia e Danimarca e l’organizzazione Werwolf, quest’ultima per i neonazisti un mito e un modello da imitare, fino agli anni Ottanta e oltre.

Quanto a Lembke, il suo profilo non corrisponde minimamente a quello dei civili reclutati come agenti SB dal BND, in primis non è dato l’aspetto dell’assoluta riservatezza e insospettabilità: Lembke era un noto neonazista, che non faceva segreto ai camerati che venivano a cercarlo dei suoi depositi segreti. Inoltre, dalle confessioni dei due militanti DAG nell’autunno 1980 alla scoperta dei 32 depositi nell’ottobre 1981 gli specialisti del BND o di un altro servizio avrebbero avuto un anno di tempo per svuotare i depositi ed evitarne il ritrovamento, perché non si mossero? Anche il contenuto dei depositi, seppure quantitativamente imponente, non era quello tipico dei depositi SB di Geheimer Widerstand, la sua composizione induce piuttosto a ritenere che si trattasse di un arsenale accumulato mettendo insieme ciò che si riusciva a racimolare. Quanto ai documenti della Stasi studiati da Heymann, l’ipotesi che Lembke e sua moglie fossero esattamente la coppia di agenti SB intercettata è impressionante, tanto più che l’area geografica coincide quasi perfettamente, ma ci sono due problemi: Lembke era ben noto alla Stasi, eppure a Berlino Est nessuno si domandò se lui e la moglie erano identici agli agenti 27. Le intercettazioni dei gladiatori e il ritrovamento dei depositi di Lembke non furono mai messi in collegamento, anche se tutto avveniva nell’arco di pochi anni e non poteva sfuggire. E probabilmente, infatti, non sfuggì: i documenti ci dicono che il 14 novembre 1978 la Stasi intercettò una comunicazione radio cifrata inviata dalla centrale BND alla agente 27 per farle gli auguri di compleanno. Se tale comunicazione non aveva un secondo significato (questo genere di attenzioni per le fonti fiduciarie non erano inusuali, lo faceva anche la Stasi con i suoi agenti oltrecortina), Lembke non può essere l’agente 27 perché sua moglie era nata nel mese di luglio.    

 … E UN COLLABORATORE DEI SERVIZI?

Strage di Monaco 1980. Copia della bomba realizzata dai periti esplosivisti della polizia giudiziaria bavarese

Copia della bomba di Monaco realizzata dai periti esplosivisti della polizia giudiziaria bavarese

Resta il fatto che Lembke era in qualche modo parte del processo di radicalizzazione terroristica di una parte della destra estrema, che sfociò nelle attività terroristiche di fine anni Settanta e inizio anni Ottanta. Che fosse l’amministratore di un arsenale a disposizione delle cellule bombarole neonaziste è probabilmente un’esagerazione, considerata la frammentazione che caratterizzava quel mondo, comunque sia Lembke era elemento in una posizione strategicamente cruciale per seguire molto da vicino, da dentro, le dinamiche interne alle compagini più irrequiete e pericolose. A proposito del perché il governo, alla domanda se Lembke fosse o meno un agente di SB e del BND, non abbia voluto confermare né smentire, è interessante la scoperta fatta dall’avvocato delle vittime della strage di Monaco, Werner Dietrich: negli atti dell’ultima inchiesta sulla strage di Monaco è presente una nota che avverte «informazioni su Lembke sono utilizzabili solo parzialmente in sede processuale». Tale dicitura si trova di norma negli atti della polizia giudiziaria in riferimento a collaboratori o agenti dei servizi operanti sotto copertura.

Tornando, infine, all’enigma della bomba: il proiettile di mortaio usato per fabbricare l’ordigno, un pezzo da 4,2 pollici, era di provenienza britannica così come britannica era la zona di occupazione della Bassa Sassonia, dove si trovava la piana di Lüneburg, uno dei territori effettivamente esposti allo sfondamento delle forze corazzate tedesco-orientali e sovietiche da est in caso di guerra. In assenza di informazioni più approfondite e circostanziate sull’esistenza di strutture SB (o parallele a SB) britanniche lungo la fascia di frontiera con la DDR, l’ipotesi di una provenienza della granata e forse anche dell’esplosivo da arsenali o depositi irregolari britannici è destinata a restare un vicolo cieco. La sua attendibilità come scenario possibile è comunque almeno pari a quella di un altro scenario, finora trascurato e meritevole di maggiore considerazione. La verifica dei registri delle armi smarrite tenuti dal Rheinarmee (forza britannica di occupazione di stanza nella Germania settentrionale) e visionati dagli inquirenti già durante la prima indagine (1980-82) aveva dato esito negativo. Ma sempre allora si era appreso, come dimostra una nota del procuratore Rebmann, che quel genere di proiettile di mortaio era facilmente reperibile in Medio Oriente, nei territori della Palestina sotto mandato britannico fino al 1948.