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Humanae Vitae, l’eterna incompresa enciclica del 1968

Redazione Spazio70

L'ultima enciclica scritta da papa Paolo VI, pubblicata il 25 luglio 1968, fu volta a specificare la dottrina sul matrimonio così come definita dal Concilio Vaticano II nell'ottica del rinnovamento della morale sessuale della Chiesa

di Annalisa Meriggi

È il 1968 e la teologia cattolica vive, rifulge, resiste; no, di più: si innova. È una rivoluzione senza manifesti, questa, odora di carta da enciclica. Serpentina, silenziosa, si arrampica come l’edera, oltre la contingenza. E la storia, specialmente da quell’anno, parrebbe dirsi in molti modi. Essa, nella sua fattualità adimensionale e nelle sue possibili interpretazioni appare frammentata, come oscurata dagli eventi che la rendono difficilmente definibile in senso complessivo. A voler tentare, probabilmente sì, le identità del 1968 sono diverse, non solo ideologicamente, ma tutte caratterizzate da un certo orizzonte di senso: «Niente come prima in Italia».

La mobilitazione la si subisce o la si fa? Quelle schiere per strada che protestano fanno rumore. La rivoluzione silenziosa invece, forse, la fa la Chiesa. Charles Péguy, con enfasi lucidamente poetica, scriveva nel Dialogo della storia e dell’anima carnale che il Cristianesimo ha sconvolto l’intero mercato dei valori, volgendolo dall’umano al divino, come una balestra tesa pronta a scoccare in direzione dell’eterno, fino a ferire. È una tensione valoriale che ha toccato anche la maniera di concepire il sesso. È un’ampia questione, quella della cultura sessuale nel nostro tempo, che interseca presente e passato recente, ai crocicchi della postmodernità.

Cultura difficile da definire, questa, segnata non più da un pensiero realmente forte, ma dalla combinazione cubista di diversi elementi assemblati in maniera spesso astratta e indefinibile. Senza una legenda è difficile mettere mano. E, oggi peggio di allora, tante vetrine colorate, su cui l’uomo spiaccica il muso, tanti valori, tante opportunità. Chi guida nei meandri della moralità e dei criteri etici di riferimento? O chi guidava? L’autorità della Chiesa? Nel 1968? Veniva già da ridere. Giuseppe Angelini, teologo morale, individua l’origine incamerata di quel passato-presente postmoderno, in tre matrici culturali che ne hanno preparato il terreno.

Dalla foce dell’Illuminismo, attraverso il quale la norma morale è venuta a determinarsi come competenza del singolo, relegata in uno spazio privato, autogestito, non di certo appannaggio del magistero della Chiesa; al Romanticismo, subito dopo, con la celebrazione dell’esperienza-mito dell’amore, così assordante da riguardare sempre e solo il singolo, mai la realtà istituzionale, quella mediata, quella matrimoniale. Quando l’amore accade, lo si riconosca sempre come evento, mai progetto; l’istituzione uccide l’amore in uno sfiatatoio. E poi Freud, vero paradigma di riferimento per certe questioni; ci si rimette agli strali e ai meccanismi della psiche umana, in un mondo in cui si ritiene di poter guarire i disagi della civiltà moderna attraverso la psicanalisi; il sesso è ormai ritenuto portale d’ingresso per l’inconscio dell’uomo.

CONTRO UNA SOCIETÀ RITENUTA «MASCHILISTA». GLI ANNI SESSANTA

La basilica di San Pietro in occasione del Concilio Vaticano II (foto di Lothar Wolleh)

Quello dell’amore cristiano è il problema del confronto con lo sciame delle possibilità nuove che si sono diramate a partire dalla seconda metà del Novecento; l’essere-persona a poco a poco si ritrova fra le mani un’ampolla: l’elisir del controllo delle nascite; e la donna, in particolare, si ritrova a imbracciare una fiaccola, che non è più quella da vestale del focolare. È il fuoco inebriante dell’emancipazione femminile, che diventerà presto rogo, a stabilire una volta per tutte ciò che compete al maschio e ciò che, finalmente, compete invece alla femmina; è la questione dei ruoli di genere, il conflitto tra maschile e femminile. A partire dagli anni Sessanta, in moto crescente, ci si scaglia sempre di più contro una società ritenuta maschilista, si tenta di sovvertire le cose, di rovesciarle, di ripensarle, altresì, fino ad arrivare al nervo, all’osso: un impianto diverso di famiglia; dalla ricerca di parità, all’interscambiabile.

Le nuove coscienze rimettono in discussione certi standard. È la contestazione del patriarcato, è la liberazione — l’alienazione — sessuale, è amore libero perché destrutturato. Figliare è una cosa, procreare responsabilmente un’altra, amarsi un’altra ancora. Tante possibilità, sempre di più, negli scantinati del contemporaneo e tutte a disposizione. Innamoramento e amore, ormai, schiena a schiena. Uno stato potenziale, l’innamoramento, già simbolicamente realizzato nel desiderio, compiuto in sé, eppure tutto praticamente da realizzare. L’amore senza istituzione; l’amore senza necessità di matrimonio. Figuriamoci in Chiesa. Ma conviene prendere ad esempio, allora, la fattispecie della rivoluzione d’ottobre, come ci insegnava Francesco Alberoni, «dove viene simbolicamente instaurata la liberazione totale, la società senza classi, l’umanità degli uguali, tant’è vero che le elezioni vengono fatte per mostrare che non c’è dissenso. Però, nello stesso tempo, quello che è realizzato non è il comunismo, ma la dittatura del proletariato, una tappa verso il comunismo che resta tutto da realizzare. Anche l’istituzione, sdoppiando i due piani del simbolico e del pratico, si autodefinisce come l’avvento di un avvento». La dittatura delle false libertà, eccola. Quella che si impegna a scompaginare l’endiadi innamoramento-amore. Perché per comprendere appieno il primo, occorre però non perdere di vista il secondo, il legame più stabile, quello duraturo a cui l’innamoramento, in quanto portatore di progetto, tende. O si rischia di finire come per la grande rivoluzione di ottobre: molto male.

E il figlio? Da benedizione, ed erano i tempi di Abramo, a compito; da ricchezza, a sogno frustrato, a imperativo categorico. Pierpaolo Donati, già in tempi non sospetti, diceva che la famiglia si stava surriscaldando, nel Primo Rapporto sulla Famiglia in Italia del 1989. La famiglia, non il pianeta. È un tipo di famiglia, quella che inizia a prendere piega da quel gorgo storico di liberazione del 1968, che non è più istituzionalmente decodificata, non più istituzionalmente mediata. È la famiglia che nasce in seguito a negoziazioni private, è la famiglia autopoietica. Avviene che un uomo e una donna si guardano al tramonto, prima di salpare per il viaggio della vita; avviene che si prendono per mano e iniziano a far cambusa con quello che più aggrada.

Ma chi è la creatura, uomo, condensato in trucioli di paradossale finitezza, a potersi permettere la licenza del per sempre? Dove la prende questa patente? Quale garanzia può darsi, senza istituzione? Ma tanto il collante è l’amore. Se l’amore scema, il progetto perisce. Quando la famiglia inizia a non adattarsi più all’esterno, però, diventa un sistema chiuso. Avviene così che i confini di ciò che è familiare diventano fluttuanti, in quanto manca un simbolismo forte di riferimento che metta insieme le dimensioni biologiche, culturali, sociali e psicologiche del nucleo stesso. Famiglie lievitate, famiglie allargate, fra divorziati, conviventi, concubini, e risposati. La famiglia non scoppia, evapora letteralmente. Da allora, eccoci a oggi.

TEMPI NUOVI CHE «SMINUZZANO» LA TRADIZIONE

Dopo l'Humanae Vitae. «Nuove vie dell'etica sessuale. Discorso ai cristiani», di Ambrogio ValsecchiNel Novecento, poi, è tutto un bombardamento per la morale sessuale e familiare cattolica, che non sa più come schermarsi. I contributi di Freud, poi Marcuse. In un volume del 1972 che diede non poco scandalo, Nuove vie dell’etica sessuale. Discorso ai cristiani, Ambrogio Valsecchi scandaglia come questo tempo di passaggio sia caratterizzato da criteri etici ormai superati. Le spinte di cambiamento, rivoluzionarie, hanno costretto il magistero della Chiesa a prendere posizione, rispetto a una cultura sessuale che ormai i criteri se li fa, alle scienze dell’uomo, alla biologia e alla psicologia.

È ancora il caso di appoggiarsi al criterio della natura, o del contro natura, o può apparire fallace? Sa di vecchio. Natura e moralità, chi edifica cosa? Come sigillare insieme le nuove concezioni personaliste della sessualità, dimensione fondamentale della persona umana, la legge morale naturale, il dato biologico e il 1968? Per la Chiesa si fa necessario risintonizzarsi, prestando ascolto alle pareti del tempo, della cultura e della storia. La morale sessuale cattolica, da sempre, si afferma come un insieme preciso e granitico di norme, spauracchio di proibizioni e divieti. Affinché la normatività fosse chiara, si seguiva il cristallino criterio della mediazione istituzionale del matrimonio, al cui interno funzionava il dispositivo della doppia finalità unitiva e procreativa, e la seconda prevaleva. La prole è la prole. Massima priorità. Bergoglio non c’era ancora e Valsecchi scriveva: «Il primo e più generale aspetto dell’etica sessuale tradizionale è essersi affermata come un insieme preciso e dettagliato di norme tendenti a regolare il comportamento sessuale entro programmi e istituzioni molto rigidi. […] Si moltiplicano in tal modo i comandi e i divieti. […] Una siffatta impostazione chiede di essere rivista e superata: non nel senso di bandire ogni norma e regolamentazione, ma di articolarne i contenuti e le modalità con maggiore fedeltà».

La cultura della sessualità stava esibendo una muta nuova e piumaggi molto diversi e anche la Chiesa, proprio in quel fatidico anno, si sente chiamata in causa, alla cattedra, per una rinnovata interpretazione dell’appello morale. È la storia dei criteri etici. La sessualità e la teologia morale sono aree di sutura che sono state mosse a revisione come nessun’altra, probabilmente, sotto la scure di spinte aggiornative di vario genere, che hanno portato a una mole di studi e ricerche nuovi ampissimi, a partire dall’analisi della natura umana. L’uomo, essere biologico, fisico, culturale, mondano, spirito incarnato nei tempi. E la Chiesa, sempre la stessa, immersa in questo mulino a vento di tempi nuovi che sminuzzano la tradizione.

I DUE «FINI» DEL MATRIMONIO CATTOLICO. UNA DISTINZIONE GRANITICA FINO AL CONCILIO VATICANO II

Paolo VI in occasione dell’ultima sessione del Concilio Vaticano II (dicembre 1965)

Sessualità, procreazione, contraccezione, insomma: risuonano così i novelli tria bona coniugali della seconda metà del Novecento, su cui spaccarsi la testa, su cui arrovellarsi. Almeno fino al Concilio Vaticano II e all’Humanae Vitae. Per Agostino i tria bona erano ben altro, la cui teorizzazione era racchiusa nel De bono coniugali, va detto. La positività del vincolo coniugale, tradizionalmente, è legata a tre ingredienti micidiali: fecondità, fedeltà, sacramentalità. Ma i tempi cambiano. Lo schema aveva sempre funzionato, per secoli, ora è anacronistico. Al limite del ridicolo. La difficile riconciliazione della Chiesa con la corporeità e con la sessualità e la fatica, rispetto a tale tema, che è stata sperimentata nel corso dei secoli ha portato a un itinerario di storia della morale sessuale non sempre dagli esiti semplici.

A partire dai Padri della Chiesa, passando per Agostino e per la tematizzazione dell’incuboconcupiscenza e, a seguire, fino ai secoli del rigorismo, della casistica, e della morale seicentesca, ciò che rimane impresso nell’immaginario collettivo è il famoso inciso del Sant’Uffizio, in rebus venereis non datur parvitas materiae. Nessuno sconto per secoli. Ma per fortuna, poi, si approda al XX secolo che per la coscienza cristiana è stato il secolo della grande riconciliazione con il piacere. «Al cristianesimo non si può attribuire la colpa di aver rifiutato la sessualità, ma caso mai di aver tentato in tutti i modi, compresi quelli repressivi di esplicitarne il significato etico. Gli si può rimproverare di aver fallito, in quel tentativo di interpretazione morale, ma non di aver misconosciuto l’importanza della sessualità», scrive Erich Fuchs, nella sua teologia della sessualità, fatta di Desiderio e tenerezza.

La pastorale familiare, nell’insegnamento magisteriale della Chiesa, prima del 1968 aveva la stessa consistenza della carta vetrata. Si era ancora fermi al Codice di Diritto Canonico del 1917 e all’enciclica Casti Connubii del 1930. Il fine principale del matrimonio era la procreazione ed educazione della prole; il mutuo aiuto e il rimedio della concupiscenza erano poi annotati come secondari. Bisognerà attendere ancora un po’ per questo processo di svecchiamento, e per la fatidica messa a tacere della vittoria del primato della finalità procreativa sul resto. Fu dannoso, nel corso dei secoli, l’allontanamento dall’impostazione di Tommaso d’Aquino rispetto ai fini del matrimonio. Profeticamente, egli aveva definito il matrimonio in base a un fine principale, nel senso di fondamentale, che accomuna uomo e animali, ossia quello procreativo; mentre l’amore e la comunione tra gli sposi era definito fine secondario, ma non nel senso di qualitativamente inferiore, nel senso che si colloca a un piano superiore, specifico dell’uomo. Una vera disdetta, allontanarsi da questa innovativa e pregevole impostazione, o peggio, non averla compresa nei secoli a venire. Da lì in poi la finalità dell’amore coniugale passerà in secondo piano. Una distinzione granitica quella tra fine primario e secondario, stringente, invalidante, che dominerà il pensiero della Chiesa fino al Concilio Vaticano II.

VERSO LA FINE DEL PRIMATO PROCREATIVO

Herbert Marcuse in una foto del 1965

Il 1968 è una scarica di fulmini a potenza uguale e contraria. Le contestazioni e gli ideali che occupano luoghi tutti diversi, dalla scuola, alla fabbrica, all’università finiscono per essere congelati in un’unica copertina. E sembra di assistere davvero alla riproposizione plastica e tridimensionale di ciò che era contenuto ne L’uomo a una dimensione, testo assai letto in quel periodo. Il principio di realtà è quello di un individuo che, malauguratamente, si vede imporre la rinuncia alla soddisfazione immediata degli istinti, soprattutto sessuali. E viene teorizzato come uno dei principi su cui si regge la scadente società. Il corpo, compromesso sotto un torchio quotidiano alienante, viene desessualizzato per l’intera giornata di lavoro, e tale repressione non sarebbe altro che il simbolo, l’effigie, lo stendardo, del potere oppressivo in atto nella società industrializzata. Secondo Marcuse — quale dolce utopia — l’uomo va liberato dal lavoro, perché strumento di alienazione, specialmente sessuale. Ma mentre questo testo va a ruba e ci si interroga sulla nobiltà di tale sogno culturale ideologizzato, nel frattempo, ecco, la sessualità viene ad essere confusa con la genitalità. Fine dei giochi.

La questione della contraccezione, nel frattempo, nel corso del Novecento, è un allarme che si fa sentire e si inscrive nel rapporto tra significato unitivo e procreativo del matrimonio. Diviene oggetto di pronunciamenti. I tempi del rigorismo morale seicentesco si auspica siano conclusi, e al di là del riverbero sottile che pare sussurrare concupiscenza, ci si inizia a domandare se non sia arrivata l’ora di vivere la sessualità, specie fra coniugi, in sé stessa, senza per forza indirizzarla al concepimento. Si va verso la fine del primato procreativo all’interno della cornice matrimoniale. Parliamoci chiaro: la Sacra Penitenzieria, all’inizio del Novecento, si era già domandata quanto fosse lecito il coito interrotto, e aveva leziosamente indagato sulla negazione della naturale apertura alla vita intrinsecamente connessa all’atto sessuale. E la contraccezione, di qualsiasi foggia, era stata vigorosamente negata; ci aveva pensato nel 1930 Pio XI con la perentoria enciclica Casti Connubii.

Nel frattempo, su scala mondiale, avveniva che il chirurgo Ogino Kyusako, e l’ostetrico Hermann Knaus, partecipassero alla raccolta dei frutti della loro ricerca già intrapresa all’inizio degli anni Venti. Su un ipotetico ciclo di ventotto giorni, stabilendo con tutti i limiti del caso i vari parametri ovulatori, la sopravvivenza degli spermatozoi, quelli della cellula ovulo, questi studiosi avevano iniziato a tentare di determinare il lasso di tempo fertile. Ma se i giorni infecondi sono la maggior parte, in una donna, alla finalità procreativa resta davvero poco spazio. Com’è possibile determinare il principio per cui la finalità di un rapporto sessuale all’interno dei confini matrimoniali sia la procreazione, se in quel momento non è biologicamente possibile che ci sia un concepimento?Il Magistero ne avrebbe dovuto rispondere. Molto presto. La scoperta della pillola come anticoncezionale e il fatto di sapere che pochissimi atti sessuali sono potenzialmente fertili in scala imponevano un ripensamento della teoria del fine primario e secondario magisteriale.

TRA «RATIO» E NATURA

Paolo VI, fotografato in Vaticano (giugno 1968)

Il primo anticoncezionale per via orale è del 1953. Il biologo Gregory Pincus, nel 1934, aveva iniziato a sperimentare la fertilizzazione in vitro dei conigli e le proprietà anticoncezionali degli steroidi. E nel 1951 assieme a John Rock realizza la pillola Pincus. Pio XII, nel 1958, aveva riconosciuto la legittimità degli usi terapeutici della pillola in base al principio del duplice effetto, ma ne escludeva in ogni caso tassativamente ogni impiego anticoncezionale. Sì alla regolarizzazione del ciclo, sì alla terapia per disturbi endocrini, sì al rinvio del ciclo mestruale, sì addirittura al caso limite dell’uso della pillola come difesa preventiva da eventuali aggressori e stupri, com’era successo nel dibattito delle suore del Congo occupato. Certi dibattiti caldi, fra teologi moralisti di mestiere, iniziano qua.

25 luglio: L’Humanae Vitae, questa enciclica dalla gestazione così sofferente, fiore all’occhiello del 1968, vede faticosamente la luce. L’argomentazione di Montini, che passerà per conservatore in un tempo morfologicamente propenso a creare artificialmente radure, colline, vulcani di cambiamento, si fondava sul teorema della legge naturale. Da lì non si scappa. Dio ha creato l’uomo e la donna donando loro inclinazioni specifiche sessuali, con le quali collaborano al progetto dell’esistenza. Il principio è sempre quello: la donna è creatura segnata dalla piaga della ciclicità; ogni mese il suo corpo si prepara ad accogliere potenzialmente una gravidanza. Questo ritmo costante, onda irrefrenabile, della natura del corpo femminile è inscritto in una legge e in questa legge la Chiesa riconosce il disegno di Dio.

HV 11: «Dio ha sapientemente disposto leggi e ritmi naturali di fecondità che già di per sé distanziano il susseguirsi delle nascite». Rispettando questo ordine si rispetta la legge eterna di Dio, e il piano inclinato della natura. Il nodo, eventualmente, scorsoio intorno a cui si è svolto tutto il dibattito post enciclica e il perno intorno al quale si sarebbe mossa tutta l’ermeneutica successiva, è il ruolo della ragione nei riguardi della biologia e della legge morale naturale. Le strade d’approccio sono due. Due modi di intendere che falciano altre strade intermedie. O la ragione, propria dell’uomo, liberamente accoglie e riconosce il dato biologico, lo rispetta e si inserisce nei ritmi e nella ciclicità della natura cui si sottomette, oppure diventa ragione creatrice applicata al dato biologico e la strada della contraccezione si può aprire. Ed eccole che si fronteggiano, la ratio e la natura, gemelle eterozigoti sull’altalena dell’opera di Dio. Nascono i problemi e Montini dovrà prenderà una posizione.

IL «NO» AI MEZZI ARTIFICIALI DI REGOLAZIONE DELLE NASCITE

Giugno 1967. Paolo VI impone la berretta cardinalizia a Karol Wojtyła

L’enciclica si occupa, poi, di «paternità e genitorialità responsabile». Questa nozione è uno dei grappoli più innovativi e succosi dell’intervento magisteriale del 1968. Di base, si raccomanda agli sposi-genitori di valorizzare un uso illuminato della ragione che permetta loro di aprirsi alla vita, ma anche, in altri momenti dell’esistenza, di «evitare temporaneamente o anche a tempo indeterminato una nuova nascita». Non è accettabile la fossilizzazione ideologica sulla sterilità, ma nemmeno l’incontrollabile frenesia di mettere al mondo a ogni costo al ritmo dei conigli.  Sì, perché come ogni grande opera dell’uomo, il bambino dovrebbe vedere la luce a partire da un alveo intelligente. Una creatura concepita prende gradualmente forma non solo nella carne, ma nel desiderio, nella volontà, e nella pienezza di accordo di tutti questi elementi. Questo è «il gravissimo dovere di trasmettere la vita umana», dice l’Humanae Vitae ed è soprattutto «la presentazione positiva della moralità coniugale». Senza precedenti. Considerando che, fino ad allora, il Magistero aveva utilizzato un linguaggio solo pieno di divieti, ebbro dei sensi unici e limitanti della procreazione.

Il cardinale Villot aveva avuto l’incarico di consultare diverse personalità curiali per un parere preliminare in merito alla contraccezione, ancora prima che l’intervento magisteriale prendesse forma. Ma arrivano poche risposte scritte, che per la maggior parte si dicono favorevoli alla nuova forma di contraccezione ormonale. Tra i favorevoli, inizialmente, anche Albino Luciani.

Fra le file della minoranza, Karol Wojtyla. Contrario. Futuro papa Giovanni Paolo II.

Paolo VI deve decidere. È la solitudine del papa, di cui lui stesso parlerà testualmente, nell’affanno di doversi assumere la responsabilità di certe scelte, tirato da una parte all’altra, e lacerato nei desideri. È la solitudine di un uomo. E la decisione, alla fine: siano considerati moralmente non leciti i mezzi artificiali di regolazione delle nascite. Non accogliendo i pareri che venivano dalla maggioranza dei componenti della commissione, facendo proprie le posizioni della minoranza, si attirò tante critiche, Montini.

«REGNARE DOCILMENTE» SULLA NATURA

Gustave Martelet (fonte: la-croix.com)

Tra le novità di quegli anni, a ridosso dei Settanta, oltre alla novità della pillola anticoncezionale, da segnalare anche la scoperta di due ricercatori australiani, John e Lyn Billings, che brevettano il cosiddetto metodo Billings, per una regolazione naturale della fertilità. Muco cervicale da osservare, da decifrare, e via discorrendo. E nell’Humanae Vitae il papa ne citerà esplicitamente l’invito al ricorso, al numero 16. Procreare responsabilmente significa anche poter liberamente ricorrere a periodi infecondi, per l’esercizio di una sessualità coniugale responsabile, e non ricorrere a quelli fecondi, disponendo di facoltà naturali.

Un dato biologico veniva assunto a squadra dell’agire umano e fra le tante accuse, infatti, quelle di biologismo. L’uomo è chiamato o no, in questa vita, a manipolare la natura? Forse, sì. Come spiegare i farmaci, e la chirurgia? Non manipolano, forse? E il ricorso ai periodi infecondi, eventualmente, non è esso stesso un intervento manipolatore sui processi biologici seppur in senso obliquo? E, soprattutto, manipolare la natura non significa rispondere al mandato di collaborazione che Dio affida all’uomo circa la creazione? Tanti interrogativi. La verità, come tenterà di spiegare il teologo Gustave Martelet, non è quella dell’uomo che intesse nei riguardi della natura un rapporto di solo dominio. Regnare docilmente, in questo mondo, e cooperare al disegno divino della creazione, significa per l’uomo includere la persona nella natura, e la natura nella persona. E la coniugalità responsabile solo così può farsi missione essa stessa, nell’esercizio della libertà, dell’intelligenza e della corporeità degli sposi.

Il corpo, nel 1968, se a Parigi è metallurgia intarsiata, nelle sfilate di Paco Rabanne, per la Chiesa, è icona nuda, autenticamente umana, senza orpelli o involucri: solo natura incarnata e spirituale, per la creatura privilegiata di Dio. Il corpo ferito, tribolato, segnato dalla finitezza, vero e proprio metronomo dell’esistenza, rivelatore di un destino sublime, tragico e sessuato che esprime la vocazione di ciascuno, fino al mutuo dono di sé, all’amore.

UNA TEOLOGIA CHE ACCOGLIE LA «PROVOCAZIONE» DEL ’68

Un’enciclica diffidata, questa, solo perché letta frettolosamente con i fumi negli occhi di un tempo che stava cambiando troppo in fretta. Considerata in maniera semplicistica. Sarebbe passata alla storia, eterna incompresa, come l’enciclica del no che ha sgomberato il campo dagli altisonanti sì. No all’uso degli anticoncezionali per la regolazione delle nascite, sì all’essere-persona, sposo o sposa, integralmente assunto e interpellato da un’antropologia vocazionale e sessuale esistenziale. Non è l’enciclica dei divieti, quella del 1968, è quella che si regge, finalmente, su una visione integrale dell’uomo, impegno già assunto dal Concilio Vaticano II e che aveva aperto uno sguardo finalmente nuovo e adeguatamente profondo sulla sua vera e complessa realtà, disarcionando il dualismo corpo-spirito, riconducendolo ad unità.

La pacificazione, l’armonizzazione definitiva e ratificante, fra significato unitivo e procreativo del matrimonio arriva al numero 12 dell’enciclica, quando si parla di «connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale». Un rapporto ellittico e dialettico che evita di rompere i dinamismi del patto eterno, il senso mutuo della donazione e il coordinamento all’altissima vocazione responsabile alla genitorialità. L’uomo è sacerdote dei processi dell’intimità e usufruisce del mistero della sessualità coniugale, rispettando le leggi del processo generativo, senza arbitrarietà, senza vie illecite per la regolazione delle nascite, senza la sterilizzazione diretta o indiretta, temporanea o perpetua, e senza contraccezione. Il matrimonio si rifonda, finalmente, attraverso questo scritto, come giardino rigoglioso e monumento del patto sacramentale di amore. Non più come agenzia procreativa che sforna bambini e doveri. Paolo VI spazza via tutto ciò, mettendo in primo piano l’amore coniugale: «sensibile e spirituale», «totale» e «fedele». La teologia accoglie la provocazione del 1968 e si rinnova, senza manifesti e senza clamore e celebra lo statuto dell’amore sensuale e coniugale, così come non era mai stato fatto. Un’enciclica di questo tenore avrebbe voluto tutelare la complessità misteriosa di un’unione come quella matrimoniale, preservarla dalle insidie e dalle derive che da lì a poco si sarebbero manifestate. Pura profezia.