Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
Il sito comprende sei aree tematiche e ben ventidue sottocategorie con centinaia di pezzi su anni di piombo, strategia della tensione, vicende e personaggi più o meno misconosciuti di un’epoca soltanto apparentemente lontana. Per rinfrescare la memoria di chi c’era e far capire a chi era troppo giovane o non era ancora nato.
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di Danilo Pagnin*
Nacqui in un ospedale di Teheran il 21 maggio del 1970. I primi tre anni li trascorsi tra Teheran, Khorramshahr, Isfahan e Abadan, dove mio padre aveva gli ingaggi di musicista. C’erano molti occidentali in Iran, in quegli anni: moltissimi erano gli italiani, coinvolti nella costruzione di strade, aeroporti, porti, linee telefoniche, infrastrutture in genere. Enrico Mattei ci aveva fatto guadagnare un’ottima fama: c’erano la Italimpianti, la Snam Progetti, l’ENI, la SIP e tante altre nostre aziende i cui lavoratori, in parte italiani, cercavano svaghi all’occidentale. Nei locali suonavano molte orchestre straniere, in un brulicare di italiani, francesi, inglesi e (soprattutto) americani. Tra i frequentatori, molti erano anche gli iraniani, che con noi italiani hanno sempre avuto una straordinaria capacità di entrare in empatia.
Tra il 1973 e il ’74 per la mia famiglia ci fu una breve parentesi italiana, per poi tornare in Iran stabilmente dall’estate del 1974 a quella del 1979, in un indimenticabile, incredibile quinquennio di grandi emozioni.
Nell’estate del 1974 io, mia madre e mio fratello tornammo in Iran in aereo: mio padre ci aveva preceduto con un leggendario viaggio in un Ford Transit (acquistato usato due anni prima da…. Franco Battiato!) carico di strumenti e con 3 musicisti a bordo, passando attraverso Jugoslavia, Bulgaria, Turchia per arrivare in Iran attraverso Bazargan, posto di frontiera (viaggio che meriterebbe un racconto a parte). La band arrivò appena in tempo per il debutto all’hotel Naderi: si trattava di un vecchio albergo in stile coloniale, nel centro della città, con soffitti alti e ventilatori a tre pale appesi in alto che in estate giravano senza sosta. Dentro, l’aria era piena di profumi, soprattutto di caffè. Dopo il Naderi, venne l’ingaggio al più prestigioso Sheraton Hotel americano, un edificio di 13 piani (di proprietà della Fondazione Pahlavi, che gestiva l’enorme patrimonio dello Shah) situato nella parte Nord della città, vicino a piazza Vanak, al cui culmine svettava il Supper Club, locale completamente finestrato in cui si cenava e ballava fino a tardi, con cucina americana (famose le T-bone steak cotte alla brace) e una splendida vista sulla città e i monti Elburz. Il locale era molto grande e in un angolo c’era il palco per l’orchestra, davanti al quale vi era una pista da ballo. Due membri del gruppo erano italiani: Pino (basso e canto) e Michele (batteria), detto Miky per tutti. Bresciani, giovani, simpatici e con uno spirito innato da viaggiatori, che mio padre definiva “tipi da sbarco”.
Io e mio fratello frequentavamo la scuola italiana, gestita dai padri salesiani: dall’asilo ad un liceo sperimentale quadriennale, assicuravano l’educazione di tutti i bimbi e ragazzi italiani che passavano da quelle parti. Ogni compleanno e onomastico erano l’occasione per radunarsi a casa di qualche famiglia italiana, in un clima di condivisione e reciproco aiuto mai più sperimentato dopo la mia partenza definitiva dall’Iran. Lo spirito delle comunità italiane all’estero, tanto celebrato e cantato in canzoni, film e romanzi, esisteva veramente: forse perché i nostri genitori erano passati attraverso la seconda guerra mondiale, forse perché c’era qualcosa di innato, pre-politico che distingueva il nostro popolo in quegli anni. Quelle riunioni erano sempre molto partecipate e vissute, tra regali, torte, chiacchiere e giochi collettivi.
Il Supper Club era frequentato da una folla variegatissima che andava dai genitori dei nostri compagni di scuola a persiani benestanti, da americani a lavoratori di aziende francesi, inglesi e italiane. Gli americani erano onnipresenti: il Paese, sotto lo Shah, aveva strettissimi rapporti con l’amministrazione Usa, entrati in crisi solo con l’avvento del presidente Carter, che aveva a cuore la questione del rispetto dei diritti umani, non esattamente il punto di forza di quel regime, atteggiamento che contribuì allo sdoganamento di Khomeini come interlocutore e alla fine del suo esilio parigino.
Tanti erano gli iraniani che frequentavamo, per i motivi più diversi. Uno dei personaggi che ricordo meglio è Reza Taheri, ufficiale della marina con diploma conseguito all’accademia militare di Taranto: consuetudine dello Shah era mandare i quadri e i dirigenti dell’esercito e della marina a studiare e specializzarsi all’estero, in Paesi amici. Reza parlava benissimo italiano, era simpatico e guidava malissimo la sua Peikan, auto di produzione nazionale.
Del ritorno di Khomeini dall’esilio francese si iniziò a sentir parlare nel 1978. Il malcontento nel Paese era evidentemente molto diffuso e fu in quell’anno che iniziarono le prime manifestazioni di protesta fomentate dai mullah. Il progressivo caos che ne seguì è rimasto nella memoria di tutti noi italiani in modo indelebile. Ricordo perfettamente tutti i discorsi che sentivo tra i miei genitori e gli altri adulti: preoccupazione ma, inizialmente, nessun allarme. Tutti noi stranieri eravamo consapevoli della situazione drammatica dei diritti umani in Iran, con la famigerata Savak, la polizia politica dello Shah, che era diventata potentissima e ormai era uno Stato nello Stato che controllava col terrore ogni possibile vagito di dissenso.
Eravamo però altrettanto consapevoli di ciò che rappresentava Khomeini: l’estremismo religioso e il fanatismo che diventavano sempre più visibili mano a mano che le manifestazioni di piazza iniziavano a dilagare per il Paese, specialmente a Teheran, epicentro della protesta. In realtà, all’inizio della Rivoluzione sentivamo parlare di tanti gruppi di oppositori allo Shah che scendevano in piazza come i fedayn, per esempio, di ispirazione marxista, ma fu chiaro subito che tutto ruotava intorno a Khomeini e ai suoi, intruppati nel cosiddetto “Comité”, il comitato rivoluzionario.
Nell’agosto del 1978, in un tentativo disperato di riprendere in mano l’ordine pubblico, lo Shah decise l’applicazione della legge marziale, col coprifuoco al tramonto e divieto assoluto di circolazione per le strade. Per poter protestare comunque, dopo qualche tempo gli iraniani escogitarono un metodo nuovo: salivano sui tetti dei condominii e gridavano “Allah u Akbar” in arabo, dopo il tramonto. La prima notte di questa forma di protesta ci spaventammo molto: noi bambini stavamo già dormendo quando sentimmo, dal condominio di fronte, queste grida improvvise. La nostra palazzina era tranquilla perché abitata quasi esclusivamente da stranieri, ma tutto intorno era pieno di gente sui tetti. Partirono varie telefonare tra noi italiani spaventati, e tutti raccontavano la stessa cosa. Rinaldo, un cantante di Milano che aveva lavorato tanti anni con mio padre, ci rassicurò: la moglie Jaqueline, iraniana di origine armena, disse di non preoccuparsi, erano proteste contro lo Shah e non ci avrebbero torto un capello.
Un momento chiave della Rivoluzione, successivo all’applicazione del coprifuoco, fu sicuramente la strage di Meidan Jaleh (piazza Jaleh) l’8 settembre del 1978, di cui sentii parlare moltissimo e che segnò una svolta negli avvenimenti. L’esercito dello Shah (credo fosse la Guardia Imperiale, un corpo scelto di fedelissimi, ma non ne sono certo) aprì il fuoco sparando ad altezza d’uomo e fece almeno 2000 morti (i manifestanti dissero 4000, il Regime parlò di 400) e migliaia di feriti. Dopo questo evento, la violenza per le strade aumentò ancora e per mesi circolarono le voci più diverse: nessuno di noi capiva che direzione avrebbe preso il Paese, ma paura ed incertezza dilagavano in tutte le comunità straniere. La CIA, si diceva, era pronta ad appoggiare un bagno di sangue pur di ristabilire l’ordine e tenere al potere lo Shah: bagno di sangue che poteva arrivare, dicevano i bene informati, anche a 100.000 morti, ma che lo Shah si rifiutò infine di avallare (probabilmente anche per la contrarietà di Carter).
Non era difficile imbattersi in una manifestazione. La mattina del 25 dicembre del 1978, mentre andavo alla messa di Natale con mia madre, mio fratello e Rinaldo — il cantante milanese — a bordo della sua Mini, ci trovammo bloccati nel mezzo di una manifestazione violenta, con lanci di molotov e lacrimogeni: io ero terrorizzato, mia madre gridava come una pazza, ma Rinaldo rimase quasi imperturbabile, chiuse i finestrini dell’auto e, molto lentamente, ci portò fuori dal pantano. Credo di non aver mai più provato un senso di terrore come quello, in balìa di eventi incontrollabili e violenza barbara, primordiale. Vedevo i manifestanti correre tra le auto con le molotov in mano, fumo, colpi d’arma da fuoco e non capivamo cosa stesse succedendo, in trappola e senza possibilità alcuna di fuga per lunghissimi minuti.
Ricordo un altro episodio distintamente. Era forse pomeriggio, quando udimmo vicino a casa nostra il rombo basso di una manifestazione che passava nella vicina Roosevelt Avenue, una lunga via che percorreva un bel pezzo di città. Andammo sul terrazzo di casa nostra a vedere: ricordo un manifestante che lanciò una molotov sull’insegna del Maxim de Teheran, un ristorante francese all’angolo tra la nostra via e la Roosevelt. Vidi una fiammata ed ebbi paura. Poi alcuni soldati entrarono nella nostra via per evitare che la manifestazione dilagasse nei dintorni e spararono alcuni colpi in aria: diversi bossoli caddero nel nostro cortile e diventarono cimeli per noi bambini in particolare (ne ricordo alcuni lunghi, di fucile, e altri più piccoli, presumibilmente di pistola). Mio padre li conservò a lungo, ma mia madre, che odiava armi e violenza, se ne liberò negli anni 80.
I momenti di panico non erano certo finiti. Un giorno, un tale del famigerato Comité si presentò allo Sheraton e chiese di mio padre. Una concierge capì subito il pericolo e gli raccontò una balla spaziale: mio padre era ripartito per l’Italia e nessuno lo aveva più visto. Il tizio se la bevve: andò via e non si fece mai più vedere. Per fortuna mio padre era molto benvoluto, ma essendo il Comité un’accozzaglia di personaggi di ogni risma e specie (compresi ragazzini di 15/16 anni), gli abusi e le vendette personali erano frequentissimi. Il papà di un compagno di classe di mio fratello, Cyrus Canidé, venne arrestato dal Comité e ricordo distintamente questo bimbo italo-iraniano (la madre era italiana) raccontare il fatto in lacrime a scuola.

Sheraton Hotel di Welton Becket and Associates, Teheran, 1973 (© Collection Centre Canadien d’Architecture CCA)
Una notte, tra il 1978 e il ’79, mio padre rincasava dallo Sheraton, che teneva ancora aperto il Supper Club in un estremo tentativo di normalità, chiuse la portiera della nostra Fiat 132 e fu avvicinato improvvisamente da un tizio basso e tarchiato che fece scattare un coltello a serramanico e glielo mise sotto la gola. Mio padre si bloccò e il tizio gli disse di leggere un biglietto che aveva in mano una volta entrato in casa. Mio padre entrò in casa, chiuse la porta a doppia mandata e svegliò mia madre per raccontarle quello che era successo. Ci svegliammo anche noi sentendoli parlare e ricordo benissimo il biglietto, scritto in un inglese molto approssimativo, con calligrafia pessima, che in sostanza diceva a mio padre di andarsene, che lui era straniero ed era venuto a rubare ai persiani il posto di lavoro.
Mio padre ne informò l’ambasciata italiana e la Security dell’Hotel, che da quel giorno in poi gli assegnò un paio di uomini di scorta, che lo seguivano tutte le notti con la loro auto, quando rincasava. L’ambasciata gli raccomandò prudenza, ma non era particolarmente allarmata: nel caos totale di quei mesi ogni sorta di nefandezza sarebbe potuta succedere, e non mancarono gli incidenti, ma molte minacce agli stranieri si rivelarono per lo più provocazioni fomentate dai khomeinisti. Il nostro amico americano Paul Backingham (un texano — probabilmente agente della CIA — che ci forniva molte informazioni di prima mano) si mise a ridere: ne aveva ricevute a decine, di lettere minatorie, gliele infilavano sotto la porta. Ci disse che le collezionava! Questi fatti, tuttavia, insieme alla fuga dello Shah dall’Iran all’inizio del 1979, iniziarono a far dilagare insicurezza, se non panico, tra noi italiani. Ormai la presa del potere di Khomeini si avvertiva come sempre più vicina, e l’incertezza sul nostro futuro in Iran era sempre più drammatica. Molti stavano fuggendo dal Paese e la scuola era sempre più vuota. Molte maestre mancavano e le classi furono accorpate. La mia maestra divenne una signora pugliese di mezz’età, coi capelli brizzolati corti, alta e robusta, di grande bravura e personalità. Era anche diventata la Preside e memorabile fu il piglio con cui riuscì a respingere un tentativo di alcuni non meglio identificati uomini del Comité di entrare a scuola per fare non si sapeva quale tipo di ispezione, con noi bambini dentro. Lei si mise di mezzo fisicamente e, dopo aver contattato qualcuno all’Ambasciata italiana, riuscì a respingere questi personaggi (armati).
Accaddero molte cose in quei mesi sconquassati dalla Rivoluzione: tra le altre, a causa della fuga delle maestranze straniere, si bloccarono raffinerie e centrali elettriche. Mancava la benzina, il gasolio per il riscaldamento, spesso andava via la luce e passavamo molte sere con le lampade a petrolio e le camping gaz accese, giocando a carte o a Monopoli con Pino e Michele. Per noi bambini era un grande divertimento, un’avventura, ma sentivamo la preoccupazione dei genitori: mio padre, calmo e serafico di natura, fumava ormai due pacchetti di Lark al giorno (sigarette americane bionde) e dormiva solo dopo aver preso due Tavor prima di coricarsi (come mia mamma). La poca benzina ce la scambiavamo tra amici, soprattutto tra italiani: spesso ce la portava Reza Taheri, che conosceva ogni logica legale e illegale per procurarsela. Dal benzinaio occorreva restare ore e ore in coda, senza nessuna certezza di rifornirsi. Se cercavamo un taxi, non era raro che il taxista si rifiutasse di caricarci: indicava in particolare me, biondo e con occhi chiari, e sbraitava “americai, americai!” facendo segno di no con la mano, al che mia madre replicava ruggendo “italiai, italiai!”, e, qualche volta, convinceva l’autista a caricarci.
Quando ci trasferimmo allo Sheraton all’inizio della primavera del 1979 (possibilità offertaci dalla direzione dell’Hotel per cercare di frenare la fuga in massa del personale straniero), iniziarono paradossalmente 5 mesi indimenticabili: mentre il Paese era nel caos più totale, con Khomeini appena arrivato al potere, noi andavamo in piscina tutti i giorni, vivevamo le nostre giornate di bambini circondati da compagni di scuola, tra divertimenti di ogni genere su e giù per gli ascensori, compleanni festeggiati nel parco dell’hotel, insieme a momenti di terrore come una sera, quando partì un colpo sparato da una guardia dell’hotel e iniziò una sparatoria che coinvolse persino la vicina caserma militare (formalmente ancora in mano allo Shah). Tutti sentimmo distintamente colpi di mitra molto vicini, poi andò via la luce e la Security raccomandò a tutti gli ospiti di scendere nei sotterranei (per fortuna funzionava il generatore e tutte le parti comuni erano illuminate con le luci di emergenza). Scendemmo lungo le scale a livello -2, dove c’era la lavanderia dell’albergo, un grande locale con decine di persone che, dopo l’iniziale terrore, piano piano si sciolsero e si misero a cantare, bere alcool, giocare a carte in un andirivieni caotico di notizie e di gente. Micky e la sua grande amica Auli (una finlandese che era la food&beverage Manager dell’hotel) salirono 15 piani di scale a piedi per andare sul terrazzo a vedere cosa stesse succedendo.
La vicenda, pressappoco, era iniziata con un alt non rispettato ad un’auto che passava, in pieno coprifuoco, davanti all’hotel: partì un colpo da una guardia e iniziò un inferno. Nell’auto un uomo perse la vita: era seduto sul sedile posteriore e una pallottola passò dal lunotto e lo colpì alla testa. Il giorno dopo io e mio fratello andammo a vedere l’auto, con la curiosità morbosa dei bambini, posteggiata sul lato della strada nei pressi dell’hotel: si vedeva il lunotto in frantumi e, dentro, molto sangue secco. Ne parlammo per giorni coi compagni di classe, quasi inebriati, con la totale incoscienza dell’infanzia.
Poi iniziarono le retate nei luoghi di ritrovo occidentali; anche nello Sheraton, dove se la presero in particolare con un locale dove cantava una dolcissima ragazza thailandese e — ovviamente — si servivano alcoolici. Membri del Comité mitragliarono la parete dietro il bancone dove erano posizionate le bottiglie e chiuse il locale. Alle donne fu imposto il velo (o chador), nelle vie e nelle piazze iniziarono esecuzioni e pubblici supplizi (le famigerate frustate, tuttora in uso in Iran) trasmessi in diretta alla TV di Stato ormai in mano a Khomeini (ovviamente noi bambini non potevamo guardarla, ma ne sentivamo parlare). Ormai si capiva che i khomeinisti avrebbero trasformato il Paese in una specie di convento di clausura, con uso massiccio della violenza. Gli avversari di Khomeini, per quello che sentivamo, piano piano vennero incarcerati o liquidati tutti: non solo coloro che erano legati al regime dello Shah, ma anche quelli che avevano partecipato alla rivoluzione senza essere fanatici islamici.
All’inizio Khomeini si era posto come coordinatore di tutti gli oppositori, ma ben presto gettò la maschera e iniziò a fare piazza pulita di tutti i laici. Gli occidentali pensavano solo ad andarsene, soprattutto gli americani erano già praticamente fuggiti quasi tutti: occorrevano mesi per trovare un posto su un volo. Il nostro turno venne i primi di agosto del 1979: feci in tempo a finire la 4a elementare, a salutare qualche compagno di classe (tra cui il mio amico del cuore, Vincenzo Pacifico, figlio del Console italiano che poi si avviò a sua volta per una brillante carriera diplomatica) e, non molto dopo, la Alia —Royal Jordanian Airlines ci diede quattro posti su un volo per Amman.
Nell’aeroporto di Mehrabad in quei mesi regnava un’enorme confusione, tra membri del Comité, poliziotti, militari e altra gente in divisa che nessuno sapeva manco chi fosse, che fermava chiunque in ogni angolo. La folla di passeggeri era costituita soprattutto da stranieri che fuggivano dall’Iran, come noi, ma anche da molti persiani contrari ai mullah e a Khomeini. Fummo fermati varie volte, mia madre fu quasi denudata per una perquisizione, ci fecero aprire più volte pacchi e valigie, ma alla fine, grazie all’abilità di Reza Taheri e alle sue molte conoscenze nell’esercito, saltammo diversi controlli e code e riuscimmo ad imbarcarci.
Il Boeing 727 finalmente spiccò il volo, mentre i passeggeri scoppiavano in un applauso liberatorio. L’Iran, e tutto quello che aveva rappresentato per me, sparì piano piano all’orizzonte.
* Testimonianza inedita per Spazio 70