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Un’indagine avventata e alimentatrice involontaria di falsi miti. Tra le piste fatue della scomparsa di Emanuela Orlandi, anche quella della «Bmw della Balduina». Nata nel 1983 per libera iniziativa dell’allora agente del Sisde (servizio segreto civile) Giulio Gangi e oggetto di interpretazioni mai suffragate dai fatti, ma ottime per intensificare il caos sulla sparizione della giovane cittadina vaticana.
Vi avevamo anticipato la sua trattazione nel nostro ultimo articolo sul caso, dedicato alla storia dell’offerta di lavoro che Emanuela Orlandi avrebbe ricevuto nel giorno della scomparsa. Adesso andiamo ad affrontarla sia perché nacque da quell’episodio, sia perché l’intera vicenda Orlandi è una selva dal facile smarrimento se i suoi molteplici episodi non si illuminano uno per uno e nel merito.
La caccia alla Bmw partì per l’esuberanza del ventitreenne Gangi, che nei giorni immediatamente successivi alla sparizione di Emanuela si presentò a casa Orlandi a titolo personale: i servizi segreti, infatti, entrarono ufficialmente nella vicenda solo dopo la rivendicazione a sfondo terroristico-internazionale del 6 luglio 1983. Un accesso favorito dalla frequentazione lavorativa con il cugino di Emanuela — Pietro Meneguzzi, figlio di Mario — almeno secondo quanto detto da quest’ultimo, lo scorso 30 maggio, di fronte alla Commissione Parlamentare di Inchiesta recentemente istituita per indagare sui casi Orlandi e Gregori. Quindi non per la pregressa amicizia tra lo stesso 007 e la sorella di Pietro, Monica, come si era sempre detto finora. Ma sul punto e sul comportamento dei Servizi in questa vicenda sarà doveroso dedicare un capitolo a parte.
Smanioso di contribuire alle ricerche, Gangi raccolse informazioni sugli ultimi movimenti di Emanuela e si mise sulle tracce della Bmw del falso uomo Avon col quale la giovane sarebbe stata vista il giorno della sparizione prima di entrare alla scuola di musica T.L Da Victoria. Parlò quindi con i due ufficiali davanti al Senato, ricevendo dal poliziotto Bruno Bosco una descrizione dettagliata della vettura. Dalla sede italiana della casa automobilistica tedesca apprese che si trattava di un modello «Touring color verde tundra» e che era stata portata presso una delle officine autorizzate Bmw, «probabilmente in zona Vescovio», da una donna «non loro cliente» per riparare il «vetro laterale anteriore passeggero rotto apparentemente all’interno».
La signora alloggiava al residence Mallia, situato in zona Balduina (la stessa del numero di telefono di «Federica»). Giulio Gangi si recò lì e la fece chiamare dalla reception. Si qualificò «come appartenente alla Squadra Mobile» e, con il pretesto di un coinvolgimento in un incidente, le chiese il nome del proprietario di quell’auto. La donna si rifiutò di rispondere. Al che lui la avvisò che sarebbe stata convocata dalla polizia. Dopodiché se ne andò e, sempre a suo dire, «dopo circa quaranta minuti» rientrò in ufficio. Dove fu redarguito da uno dei suoi superiori — «Venni verbalmente aggredito dal Criscuolo (Giorgio Criscuolo, all’epoca dirigente del Sisde, ndg) che mi contestò l’incontro con la donna» — informato di quell’episodio «dalla direzione del Sisde».
Questa la versione ai magistrati del compianto 007. Con un problema. Non di poco conto. La sua data: 23 ottobre 2008. Quando era già uscita sui giornali e in qualche pubblicazione editoriale sulla vicenda Orlandi. Ma soprattutto venticinque anni dopo i fatti e con Gangi che era stato sentito dagli inquirenti almeno cinque volte tra il 1993 (prima convocazione) e il 1997 (archiviazione della prima inchiesta). In questi verbali, però, nessun accenno all’episodio del residence Mallia — assente anche da quelli del dottor Criscuolo, sentito nello stesso arco temporale. Come mai?
Quando quel racconto arrivò sul tavolo dei pm, sul caso Orlandi imperversavano i venti della Banda della Magliana. Un contesto sufficiente perché la mancata identificazione di quella signora e la reprimenda subìta da Gangi accendessero la macchina della suggestione. Per cui: la Bmw di quella donna era la stessa sulla quale Emanuela Orlandi sarebbe salita la sera della scomparsa; dopodiché, accortasi di essere caduta in trappola, ne avrebbe rotto il finestrino per tentare una fuga. Ma non solo. Siccome al Mallia aveva alloggiato anche Danilo Abbruciati, criminale romano in costanti rapporti con la Banda della Magliana, ecco che quella signora diventava automaticamente Sabrina Minardi, amante di uno dei capi della Banda, Enrico De Pedis, nonché artefice principale della pista che avrebbe voluto Emanuela sequestrata dal criminoso sodalizio capitolino.
Un’associazione smentita dai fatti. Perché la donna del Mallia secondo Giulio Gangi era «non molto alta, bionda vistosa, capelli lunghi fino alle spalle, parlava senza inflessioni dialettali, più vicina ai venti che ai trenta». Niente a che vedere con l’ex di Renatino: mora, fisico minuto, gambe sottili e spiccato accento trasteverino.
A ogni modo, gli inquirenti vollero veder chiaro nel racconto dell’ex agente segreto. E tempo cinque giorni ottennero risposte sorprendenti, che lasciarono poco spazio al mistero. Perché dagli archivi della Squadra Mobile di Roma saltò fuori un fascicolo composto da «note inerenti comunicazioni tra gli uffici del SISDe relative al 1983 e appunti (tutti privi di data ed estensore) inerenti notizie varie acquisite all’epoca […]. Prevalentemente si rileva un’attività di ricerca concernente gli intestatari delle autovetture BMW Touring di colore verde o celeste». Fra queste, ve n’era una a suo tempo portata in un’officina sulla Circonvallazione Nomentana — e non «in zona Vescovio» come detto da Giulio Gangi, che ricordava male — «da una donna intorno al 25/30 giugno (si presume del 1983) per la riparazione del vetro anteriore destro rotto. La donna asseriva di avere avuto l’autovettura in prestito […] e si identifica per M. D., domiciliata presso il residence “Mallia”, appartamento nr. 1**».
Bionda, non ancora quarantenne all’epoca, comparsa in qualche film italiano degli anni Novanta (informazione appresa grazie alle ricerche di un mio collaboratore appassionato della materia), D., il cui cognome da nubile inizia per B., fu convocata in Procura il 3 febbraio 2009. Raccontò che lei e il marito, «a causa dei lavori di ristrutturazione», erano andati a vivere al Mallia. Ma nel 1984 e per un anno. Nel residence, siccome la loro auto si era guastata, si erano fatti prestare da un amico una Bmw. Però di colore «color giallo acido molto appariscente dotata, mi sembra, di una capotte». Niente verde tundra, quindi. La donna escluse «categoricamente di aver mai portato tale auto presso un’officina meccanica». Evidentemente, ricordava male visto quanto scritto nei documenti del Sisde.
Però confermò che nel suo periodo al residence fu cercata da un individuo che la fece chiamare alla reception: «Io scesi e questo soggetto, giovane d’età, si presentò come un poliziotto, mostrandomi un tesserino e nell’occasione mi accorsi, attraverso la giacca aperta, che aveva una grossa pistola. Di quell’incontro ho solo vaghissimi ricordi, mi sembra che mi disse che mi sarei dovuta presentare presso un commissariato, anzi mi sembra quello di via Guido Alessi, non molto lontano dal residence». La donna vi andò col coniuge. «Più tardi con mio marito ci recammo a parlare col dott. Vecchi presso il commissariato citato. Sono certa che il dott. Vecchi mi riferì che i servizi segreti avevano messo sotto controllo il telefono del “Mallia” nonostante lui gli avesse detto che ero una brava persona. Preciso che il Vecchi era un amico di mio marito e che non sono sicura che questa circostanza del controllo del telefono me la disse in quell’occasione o un incontro successivo».
Di gran parte di questo episodio avevo già scritto a fine gennaio 2020 per Articolo21, evidenziando le sottili differenze tra i due racconti (arrivati venticinque anni dopo e soggetti alle sfumature della memoria dovute al tempo che passa) e ponendo la domanda retorica se D. e la donna di Giulio Gangi fossero o meno la stessa persona. Anche perché se non lo fossero state avrebbe significato che, a distanza di pochi mesi tra il 1983 e il 1984, nello stesso residence di Roma, alloggiarono due donne pressoché identiche, entrambe munite di una Bmw e, per questa ragione, avvicinate da altrettanti giovani funzionari delle forze di sicurezza. Una coincidenza da allineamento dei pianeti.
Successivamente, ho cercato di saperne di più. A cominciare da quel fascicolo con gli appunti del Sisde giacente negli archivi della Squadra Mobile. Chiesi di consultarlo, ma da S. Vitale furono eloquenti: «Siamo spiacenti, ma non è possibile dar corso alla sua richiesta» (30 gennaio 2020). Ripresi poi a dedicarmi a D., però sempre silente alle mie richieste tra il 2018 e il 2022, e al funzionario da lei menzionato. Nel giugno 2021, da via Alessi mi confermarono che il dottor Mario Vecchi prestò servizio all’epoca presso il loro commissariato. Provai quindi a contattarlo tramite la Polfer, dove aveva prestato servizio nel corso della sua lunga carriera, ma mi risposero che non era disponibile a rilasciare interviste a causa della sua età avanzata.
In precedenza, Vecchi si era distinto per diverse operazioni, una delle quali particolarmente importante: l’arresto di Mario Tuti, terrorista di estrema destra pluriomicida, a Saint-Raphaël (Costa Azzurra), il 27 luglio 1975. Un’operazione delicata, condotta assieme a un altro funzionario. Il suo nome? Giorgio Criscuolo. Proprio lui, l’autore della reprimenda a Gangi una volta di ritorno dalla Balduina. E proprio su quegli ultimi istanti al residence, Gangi, ai magistrati nel 2008, raccontò anche un altro particolare. «Uscii dal “Mallia” e salii su una Panda dell’ufficio sulla quale mi attendeva una collega, tale Monica». Ma soprattutto: «Notai che la donna del “Mallia” mi seguì fuori ed ebbe certamente modo di vedere su quale auto ero salito e prenderne la targa».
Giunti a questo punto, lasciamo al lettore la connessione di tutte queste informazioni per capire come il Sisde, e in particolare il dottor Criscuolo, furono informati di quell’improvvisa e imprudente sortita del loro 007. Cautela e discrezione sono l’abc di un agente segreto. Ma vengono meno se ci si presenta armati a una sconosciuta e si fa in modo di poter essere identificati.
Non fu però l’unica avventatezza di Giulio Gangi in quei caldi giorni del 1983. Lo scorso 16 maggio, alla Commissione Parlamentare di Inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori, il giornalista Gianni Sarrocco, che all’epoca seguì il caso per Il Tempo, ha raccontato un inedito che meglio inquadra il Serpico di Casal Palocco. Quando Sarrocco andò alla scuola di musica di Emanuela Orlandi per rivolgere alcune domande alla direttrice, dal registro degli ospiti vide che c’era stato anche Gangi. E che accanto al suo nome c’era scritto «servizi segreti». Ora: uno che si presenta come agente segreto, o è un mitomane oppure può anche cambiare mestiere.
Come vi abbiamo raccontato all’indomani della sua scomparsa, dopo la storia della Bmw, Gangi fu progressivamente emarginato dal caso per poi essere destinato ad altri incarichi. Non lo accettò mai. Avrebbe voluto fare di più, ma la spavalderia dell’età e il conflitto di interessi personale (rapporti con la famiglia Meneguzzi) lo avevano spinto ad azioni improvvide anche per l’immagine del Servizio. Perché in pochi giorni disseminò le sue tracce per mezza Roma. Lui, che le tracce doveva seguirle senza farsi scoprire.