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Proletario, latitante, ministro della paura: le tre vite di Erich Mielke

Redazione Spazio70

Nel 1957, all’età di 49 anni, Mielke assunse la direzione del Ministero per la Sicurezza di Stato, incarico che mantenne fino al crollo del regime nell’autunno 1989

di Gianluca Falanga*

Quando nel novembre 1982 il capo del Kgb Andropov succedette a Brežnev alla guida del Partito comunista sovietico, muta insicurezza si diffuse ai piani alti dei regimi satelliti dell’est europeo, perché inaspettatamente si era infranto un tabù. Era infatti prassi consolidata nel mondo dei governi comunisti tenere separate le sfere del partito e della polizia segreta, i dirigenti politici dagli amministratori del terrore. Questi ultimi potevano aspirare a venire cooptati nel politburo del comitato centrale, ma il massimo scranno di segretario generale era loro precluso. Ai tempi delle Grandi purghe staliniane, quando decidevano della vita e della morte di milioni di innocenti, i capi dell’apparato di sicurezza non venivano sostituiti ma uccisi e i loro beni ereditati dal successore. Così il potere proteggeva se stesso da quella violenza, che adoperava come strumento contro il popolo.

UN UOMO DA SEMPRE AL SUO POSTO

L’ufficio di Mielke al quartier generale della Stasi a Berlino (oggi Museo della Stasi)

Nel 1982, nella DDR, il ministro della Sicurezza di Stato Erich Mielke era in carica già da 25 anni e non aveva mai ambito alla vetta del partito. Nemmeno nell’ora più drammatica della crisi dell’autunno 1989, quando insieme ad Egon Krenz organizzò la destituzione di Honecker, esattamente come diciotto anni prima aveva contribuito a deporre Ulbricht, che pure era stato il suo primo mentore e al quale doveva la carriera. Alla storica riunione del politburo del 17 ottobre 1989, a poco più di una settimana dalla marcia dei 70.000 a Lipsia, minacciò il segretario generale di dimettersi, altrimenti sarebbe stato costretto a rivelare informazioni compromettenti sul suo conto.

Caduto il Muro, si lamentò che nessuno aveva voluto ascoltarlo. Se gli avessero dato retta la DDR non sarebbe crollata. Mielke sapeva esattamente quale fosse il suo posto, l’aveva sempre saputo, fin dagli albori della sua lunghissima militanza comunista all’epoca della ferocia: scenario, l’effervescente e turbolenta Berlino degli anni venti, babilonica capitale della fragile prima democrazia tedesca di Weimar, minata dai veleni della Pace di Versailles, frustata dalle crisi economiche, dall’inflazione più selvaggia della storia e dalla disoccupazione di massa, assediata dai nemici della repubblica che si battevano quotidianamente per le strade a pugni e coltellate. Nella vicenda esistenziale di un uomo tutto lascia il segno, l’infanzia senza madre, la vita in sei dentro a un umido tugurio di 50 metri quadri a Gesundbrunnen, nella roccaforte rossa di Wedding, il padre un umile artigiano, la miseria più nera e opprimente.

UN «SOLDATO» DI PARTITO

Erich Mielke nel 1927

Giovanissimo, quasi ancora un fanciullo, Erich Mielke si arruolò nei ranghi della gioventù comunista, in un partito che era più di strada che operaio, tutto disperazione dei disoccupati unito all’intelligenza radicale. La sua fu subito una militanza più militare che politica, un soldato di partito, si definì sempre, devoto alla causa e disposto a tutto, anche a uccidere. Lo inquadrarono nella struttura clandestina che organizzava l’autodifesa ovvero le armi per gli scontri di piazza con la polizia e le battaglie con le camicie brune. Quando gli chiesero di liquidare il comandante del settimo distretto, il capitano Paul Anlauf, che dirigeva le perquisizioni nella sede del partito, non ci pensò due volte. Lo freddò insieme a un compagno a Bülowplatz, davanti al cinema Babylon. Nella sparatoria rimase ucciso anche un secondo agente, il capitano Lenck, e ferito un terzo sergente.

Era la sera del 9 agosto 1931. Pochi giorni dopo, per evitare che venisse arrestato, il partito ordinò a Mielke di lasciare Berlino, agenti del Comintern gli fornirono denaro e passaporti falsi per raggiungere Mosca via Anversa. Tutti i suoi complici, esecutori e mandanti del duplice omicidio di Bülowplatz, identificati dalla polizia, furono costretti a riparare in Unione sovietica, finendo in seguito, nel 1937-38, vittime delle esecuzioni di massa del Grande Terrore staliniano. Si salvarono solo Ulbricht (ispiratore dell’omicidio Anlauf) e Mielke, che alla Scuola Lenin, ricevendo la formazione politico-militare dei quadri comunisti, apprese non solo le regole della lotta di classe in clandestinità, ma anche come sopravvivere alle epurazioni staliniane: tradendo i propri compagni, denunciandoli al Nkvd come spie del nemico imperialista. Il terrore non scosse le sue convinzioni politiche, al contrario le consolidò, Stalin gli fu maestro e presto si presentò l’occasione per dimostrare di essere stato un ottimo allievo.

LA FIDUCIA DI ULBRICHT

Mielke in un’altra immagine giovanile (1927). Grande appassionato di football, il futuro capo della Stasi è il ragazzo al centro (in piedi, rispetto al portiere)

Lo stalinismo non fu per Mielke solo confessione ideologica, un modo di concepire la vita e le relazioni umane, ma anche un orizzonte di riscatto personale, una prospettiva di realizzazione professionale. I suoi rapporti con la sanguinaria polizia segreta del regime sovietico dovevano essere così buoni, che nel 1936 decisero di mandarlo in Spagna come commissario politico e addestratore militare presso il quartier generale delle Brigate internazionali, che si battevano nella guerra civile contro i nazionalisti spagnoli sostenuti dall’Italia fascista e dalla Germania nazista. Testimoni oculari sostengono che Mielke operò anche, in qualità di funzionario del Comintern, come ispettore del Servicio de Investigación militar, la polizia politica delle forze repubblicane, di cui si servì Stalin, dall’estate 1937, per epurare le file antifasciste da anarchici e trozkisti. Ad Albacete, Mielke avrebbe effettuato interrogatori e segnalato ai sovietici elementi da arrestare e liquidare. Verifiche negli archivi del Comintern, aperti dal 2017, non hanno però finora dato conferma di questa attività coperta, sebbene, spostatosi in Francia all’inizio del 1939, continuò a occuparsi di sicurezza interna alle strutture clandestine del partito comunista tedesco, vigilanza e procedimenti disciplinari.

Con l’occupazione nazista della Francia, Mielke finì internato in un campo per emigranti tedeschi del regime di Vichy. Nel 1941 tentò di lasciare l’Europa per trasferirsi in Messico, senza fortuna. E dopo lo sbarco degli Alleati in Nordafrica, invece di unirsi alla resistenza francese, preferì farsi arruolare nell’Organizzazione Todt, con la quale riuscì a tornare in Germania nella primavera del 1945, dopo 14 anni di latitanza. In seguito, falsificherà le circostanze del suo rientro, dicendo di essere giunto a Berlino «insieme alla gloriosa Armata rossa». La fiducia di Ulbricht, primo capo politico della neonata DDR, gli spianò la via per una rapida carriera negli organi di polizia della nuova amministrazione tedesca nella zona di occupazione sovietica. L’esperienza raccolta nel rigoroso lavoro di verifica dell’aderenza dei militanti alle norme e alla disciplina di partito lo rendeva un predestinato a rilevare il comando dell’apparato di polizia segreta, istituito nel 1950 col benestare del Cremlino e sotto la supervisione degli istruttori sovietici.

I TRENTADUE ANNI A CAPO DELLA STASI

Le indicazioni di Mielke alla segretaria Ursula Drasdo su come preparargli la colazione al mattino (Museo della Stasi)

Nel 1957, all’età di 49 anni, Mielke assunse la direzione del Ministero per la Sicurezza di Stato, breve Stasi, incarico che mantenne fino al crollo del regime nell’autunno 1989. In quei 32 anni al comando del principale strumento di dominio a disposizione della dittatura comunista nella Germania orientale, Mielke riuscì a imprimere all’organizzazione il marchio inconfondibile della sua paranoica volontà di controllo e condizionamento di ogni dinamica umana e sociale. Nessun altro come lui incarnò il potere della tentacolare polizia segreta tedesco-orientale, capace di infiltrare e pervadere l’intera società. Struttura, funzioni e caratteristiche della Stasi, specie nel secondo ventennio della sua esistenza, rappresentano anche un riflesso del suo carattere e della sua storia personale. Maestro della paura, di quel terrore discreto che colpiva nel silenzio dissidenti, renitenti e altri cosiddetti «elementi negativi» ostili al sistema, mettendoli ai margini della società, intimidendoli, appestando la loro vita di dubbi e insicurezze, demolendo carriere e annientando affetti, Mielke visse con lucida consapevolezza, nonostante l’età (82 anni quando cadde il Muro), la più grande e irrevocabile sconfitta della sua esistenza. I fantasmi del passato, che aveva fatto di tutto per scacciare, per esempio facendo rimuovere, nel 1953, la statua commemorativa dei poliziotti che aveva assassinato, tornarono ad assillarlo un’ultima volta nella primavera del 1991, quando la Procura di Berlino spiccò contro di lui mandato di cattura per il doppio omicidio di sessant’anni prima.

Mielke in uniforme a una cerimonia al Palast der Republik (1985)

I magistrati poterono avvalersi dei risultati delle indagini svolte negli anni trenta, perché Mielke si era tenuto i fascicoli in cassaforte per decenni, sicuro che non lo avrebbero mai più potuto incriminare. Il processo si concluse con una condanna a sei anni di reclusione, che scontò per due terzi. Rilasciato alla fine del 1995, si spense novantaduenne in un ospizio a Berlino il 21 maggio 2000.

Per via dell’età avanzata e delle condizioni di salute, non poté subire ulteriori condanne nei vari altri procedimenti aperti a suo carico. Durante la custodia cautelare in una cella del carcere di Hohenschönhausen, lo stesso dove la sua Stasi aveva tenuto imprigionati e interrogato oltre diecimila detenuti politici, Mielke, che ancora alla vigilia della caduta del regime si era mostrato reattivo nella ricerca di contromisure, apparve svuotato e assente, come affetto da demenza senile, disinteressato al processo, scambiò il presidente del tribunale per il barbiere del carcere e ai giornalisti che premevano per intervistarlo chiedeva solo che lo lasciassero tornare in branda a dormire. Nessuna traccia più dei suoi proverbiali scatti di collera, tanto temuti anche dai suoi più stretti collaboratori, nessuna autodifesa contro la giustizia del nemico.

Fino all’ultimo i periti psichiatrici non riuscirono a liberarsi del dubbio che stesse fingendo, che volesse ingannare tutti, per scampare ancor una volta alla sentenza.

 

* Storico e ricercatore, Falanga ha pubblicato numerosi lavori sulla Stasi e la DDR. Il suo ultimo libro – Non si parla mai dei crimini del comunismo – è uscito poche settimane fa per Laterza.