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Il dittatore che uccise ottomila persone, ma dormiva sonni tranquilli e prendeva la comunione ogni domenica

Redazione Spazio70

Le incredibili confessioni del generale argentino Jorge Rafael Videla, un anno prima della sua morte, che diedero origine a un libro criticato da destra e sinistra

Dieci anni fa, esattamente il 15 Aprile 2012, in Argentina veniva presentato un libro destinato a far discutere: il giornalista Ceferino Reato pubblicava l’estratto di una serie di interviste, svoltesi lungo nove incontri, all’ex generale dell’esercito ed ex presidente de facto Jorge Rafael Videla. In questo libro-intervista Videla, tornato a scontare in carcere varie condanne all’ergastolo per le violazioni dei diritti umani compiute durante la dittatura da lui guidata a partire dal 1976, e ormai prossimo alla fine, rilasciò una serie di dichiarazioni di estrema importanza sotto il profilo storico e giudiziario, impressionando il pubblico per la franchezza e spaventosa lucidità con cui, come un Eichmann argentino, aveva esposto le ragioni e i metodi del massacro. La pubblicazione, il cui valore storico e giornalistico è stato ampiamente riconosciuto, suscitò tuttavia contrarietà e polemiche tanto tra i protagonisti e i sostenitori dell’operato dell’ultima dittatura, quanto tra alcuni esponenti delle locali organizzazioni a tutela dei diritti umani.

In questa primo articolo dedicato ai lettori di Spazio70, Reato ci racconta la sua esperienza e le sue impressioni scaturite sull’incontro con Videla.

 

di Ceferino Reato*

 

Partiamo da solo tre delle confessioni che mi fece l’ex dittatore Jorge Rafael Videla, che aveva guidato la dittatura più sanguinaria della storia argentina, in una serie di interviste svoltesi tra l’ottobre del 2011 e il marzo del 2012, un anno prima di morire, nella prigione in cui scontava l’ergastolo.

Quell’espressione ‘Soluzione Finale’ non è mai stata adoperata. ‘Disposizione Finale’ era la frase più utilizzata; si tratta di due parole tipicamente militari che indicano quando si ritira dal servizio una cosa che non serve più. Quando, per esempio, si parla di un indumento che non si usa più o è inutilizzabile perché frusto, allora si passa a ‘disposizione finale’. Non ha più vita utile.”

“Poniamo che fossero sette o ottomila le persone che dovevano morire per vincere la guerra contro la sovversione: non potevamo fucilarle. E nemmeno portarle davanti alla giustizia.”

Per non suscitare proteste all’interno e all’esterno dei confini del Paese, strada facendo, si arrivò alla decisione che questa gente dovesse sparire nel nulla: ogni sparizione può essere intesa sicuramente come il camuffamento, la dissimulazione, di una morte.”

Quelle venti ore di intervista si plasmarono in un libro che fece molto rumore, intitolato “Disposición Final”: fece tanto arrabbiare tanto lo stesso Videla, la sua famiglia e i suoi difensori quanto la leadership più barricadera dei diritti umani e del kirchnerismo, cioè coloro i quali hanno come referente gli ex presidenti Néstor Kirchner — venuto a mancare da tempo — e Cristina Fernandez de Kirchner.

I familiari e il nucleo duro della destra si sentirono infastiditi perché Videla aveva riconosciuto una prassi sistematica di violazione dei diritti umani più elementari (la “disposición final” appunto, ossia l’eliminazione dei desaparecidos, ndr) per “vincere la guerra contro la sovversione”, qualcosa che nessun capo militare aveva ammesso fino ad allora.

PERCHÉ TANTE CRITICHE?

In primo luogo, ricevetti tante critiche per aver intervistato il principale referente della dittatura, il generale Videla, presidente “de facto” di questo Paese durante cinque anni, tra il 1976 e il 1981, e al tempo stesso comandante in capo dell’esercito durante la prima fase del suo governo, la più dura.

Era una critica che ci si poteva aspettare. Dagli inizi di questo millennio, la storia ufficiale su quanto accaduto durante gli anni ’70 è una litania in cui hanno avuto parola solo le vittime della dittatura e i loro rappresentanti. Secondo tale narrazione, le guerriglie erano formate da gruppi militanti che erano dovuti ricorrere alle armi per combattere i militari al fine, dunque, di ripristinare la democrazia, le libertà, i diritti umani.

Pertanto, un libro che, parlando di storia, doveva posizionare Videla e altri protagonisti di quegli anni di piombo nel loro contesto non poteva essere gradito a Bonafini e Carlotto (Hebe de Bonafini, leader di “Madres de Plaza de Mayo”, Estela Carlotto leader di “Abuelas de Plaza de Mayo”, ndr) che, va detto, si erano allineate con il kirchnerismo sin dalla nascita di questa forza politica, nel 2003.

Come poteva venirmi in mente di intervistare, non una ma varie volte, nientemeno che Videla, il peggior demone tra tutti i genocidi, il numero uno dei terroristi di Stato? Perché offrire l’occasione di parlare a una persona che aveva guidato un regime, ucciso e fatto scompare migliaia di connazionali?

LA POLITICA E IL GIORNALISMO

In realtà, credo che un giornalista che indaga i fatti debba intervistare in modo onesto tutti coloro i quali possiedano informazioni rilevanti per l’opinione pubblica. Non si tratta di prendere posizione a favore o contro l’intervistato, ma di fargli delle buone domande e rispettare le sue dichiarazioni, ubicandole poi, al momento della scrittura, nel loro contesto storico e includendo i contributi di altre fonti per favorire quella intersoggettività, quel coro di diversi sguardi, che permette la ricostruzione più oggettiva possibile di un passato già trascorso.

Questa è, o dovrebbe essere, una differenza chiave tra un politico e un giornalista; il politico incarna un gioco di potere nel quale la storia è un elemento tra tanti: non gli interessa la verità di quanto già accaduto, ma la plasma secondo le sue necessità contingenti; costruisce una narrazione storica, per dirla col linguaggio di questi tempi. Il giornalista indaga e cerca la verità per comunicarla al pubblico: sa che sarà sempre una verità relativa e che l’oggettività non sarà mai raggiunta, ma si sforza di arrivarci il più vicino possibile. Milita a favore della sua professione e non degli ideali e degli interessi di un politico, per quanto siano lodevoli.

JON LEE ANDERSON E LA SUA INTERVISTA A PINOCHET

Jon Lee Anderson

Lo statunitense Jon Lee Anderson, icona dei giornalisti progressisti in questa parte del mondo e autore della più apprezzata biografia del Che Guevara, mi è stato di grande ispirazione: “Sono una persona interessata a quello che succede attorno a me”, ha dichiarato, “e ho sempre sentito lo stimolo a capire il mondo. Lo faccio attraverso la mia professione. Il mio giornalismo non si basa sulle credenze, ma su ciò che è empirico, sperimentato”.

— “Quando si trova qui, tutti vogliono che lei parli di America Latina: le pesa dover fare delle analisi tutto il tempo, davanti ai media?”, gli ha chiesto una volta la collega Monica Maristain in Messico, durante un’intervista pubblicata nel 2009 da Pagina12, quotidiano che ha saputo spesso essere una boccata d’aria fresca di un centrosinistra moderno e progressista.

— “Ciò che mi fa uscire matto è l’aspetto tendenzioso delle polemiche che, tanto da una parte come dall’altra, cercano di posizionarmi in uno schieramento o nell’altro. Io cerco di evitarlo. Se lo adottassi meccanicamente, se lo accettassi e smettessi di criticare, allora mi metterei fuori gioco da solo. Perderei il mio valore di osservatore. I miei pezzi sono equidistanti. A buon intenditor, poche parole. A che cosa ci ha portati gridare slogan? C’è un turbinio di retorica e di propaganda. Troppa gente che parla, blablabla…”

Anderson aveva appena intervistato niente meno che l’ex dittatore cileno Augusto Pinochet: “Lo trovai affascinante perché era come l’ultimo nazista, per così dire. Era un pezzo di storia vivente”, aveva spiegato.

Però nemmeno lo scudo di Anderson ha salvato me dalle critiche dei portavoce più entusiasti della narrazione ufficiale sugli anni ’70.

CAMBIARE LA SOCIETÀ COME SE FOSSE DI PLASTILINA

Una delle cose che più diede fastidio fu che Videla avesse detto che “erano sette o ottomila le persone che dovevano morire”. Ciò contraddiceva la versione ufficiale dei trentamila; a certi sembravano pochi.

Videla risultò essere l’uomo forte dell’esercito e di una dittatura diversa dalle precedenti, la più violenta, quella che cercò di “disciplinare una società in preda all’anarchia” e fondare un “nuovo modello economico”, di liberare l’Argentina dalle “piaghe” che le impedivano di raggiungere la grandezza cui era predestinata, ossia il peronismo come “populismo demagogico” imbattibile alle urne; il sindacalismo in quanto fattore di potere “esasperato e irrazionale”; la borghesia “prebendaria” che sostituiva all’impegno, alla creatività e alla competitività, le “amicizie” dei funzionari di turno, la corruzione e i crediti inesigibili dello Stato, nonché il virus “disgregante e filostraniero” della sinistra che aveva infettato la politica, il sindacalismo e, soprattutto, la cultura. Questa pretesa di rifondazione appariva chiaramente nel nome del regime militare: Processo di Riorganizzazione Nazionale.

In tal senso Videla rifletteva il punto apicale dell’autonomia progressiva che l’esercito, e per esteso le forze armate, erano andati acquisendo rispetto alla politica e alla società a partire dal 1930, il cui risvolto si era tradotto nell’indebolimento sistematico dei partiti e delle istituzioni della democrazia liberale e repubblicana. Inoltre incarnava l’unione tra la Chiesa cattolica e l’esercito, tra la croce e la spada, in difesa dei valori “occidentali e cristiani”.

Videla era stato il protagonista principale del golpe del 24 Marzo del 1976, che poté contare sull’appoggio di buona parte degli argentini per vari motivi, tra i quali il rigetto provocato nella società dalle bombe, dai sequestri, dalle rapine e dalle uccisioni operate per mano delle formazioni guerrigliere. Organizzazioni che scommettevano sulla “guerra popolare” contro “l’apparato militare del sistema”, come sosteneva il leader del gruppo Montoneros, Mario Firmenich, nel 1977, alla presentazione di un corso di formazioni di quadri dirigenti.

UN ANZIANO GENTILE E IMPLACABILE

Videla all’interno della sua cella, la numero 5

Io non conoscevo Videla. Per il mio libro precedente, “Operación Primicia”, aveva risposto ad alcune mie domande attraverso un metodo indiretto ma precario: gli avevo inviato un piccolo questionario attraverso un ufficiale in pensione che lo aveva visitato in carcere e che aveva preso nota delle sue risposte, poi trascritte in bella copia a casa sua. Tutto gli era stato poi riportato per una revisione finale e solo nell’ultima fase questo contatto informale mi consegnò il materiale. Videla aveva risposto anche ad alcuni controinterrogatori in questo modo. Successivamente, mi venne in mente di scrivere un altro libro sugli anni ’70, questa volta ambientato nella città di Cordoba, nel centro del Paese. Pensai quindi di ripetere la tattica con domande riguardanti Videla in qualità di Comandante in capo dell’Esercito, carica cui era stato nominato dalla presidente Isabel Peron, la vedova del fondatore del peronismo, nel 1975, durante l’ultimo anno del suo governo. Tuttavia le sue risposte tardavano, un po’ perché il nostro contatto aveva altre priorità e un po’ perché Videla era caduto, fratturandosi le braccia e una spalla, ed era stato ricoverato vari mesi nell’Ospedale Militare. Fu così che un sabato, mentre uscivo dalla prigione federale di Campo de Mayo dopo aver intervistato un militare che era stato destinato a Cordoba, mi imbattei per puro caso nell’ex dittatore, che stava congedando la sua signora, Alicia Raquel Hartridge, a malapena in grado di camminare.

— “Lei mi aveva inviato un questionario. Facciamo come la volta scorsa? Glielo mando tramite quell’amico?”

— “Sì, oppure se non la disturba, verrei io a visitarla e così risponde direttamente a me.”

— “Sì, meglio se facciamo così, faccia a faccia. Quando potrebbe venire? Preferisco di mercoledì, che è quando non viene la mia signora.”

Videla occupava la cella numero 5, una stanzetta piccola, con un letto a una piazza scrupolosamente rifatto con un copriletto bordeaux, un crocefisso sulla testata, un armadio, un ventilatore, una stufetta e un comò con sopra una foto della moglie all’età di 15 anni, “quando la conobbi”. Tende celesti schermavano l’unica finestra. Il bagno era in comune con il detenuto di una cella vicina.

Una fila di ritagli di un personaggio dei fumetti, “Gaturro”, decorava le pareti della stanza come in una nursery. “Li ho ereditati dal detenuto che c’era prima di me: glieli aveva appesi un nipotino e li ho lasciati lì perché alla fine era più difficile staccarli. E comunque, non danno fastidio. Ma per favore, si accomodi: è la cella di un detenuto, non ci sono molte comodità.”, disse, e indicò una delle due seggiole di plastica, una a ogni lato di una piccola scrivania, su cui c’erano un bottiglia di acqua minerale e due bicchieri.

DORMO TRANQUILLO TUTTE LE NOTTI”

A 86 anni (era nato il 2 agosto del 1925) Videla aveva ancora un ottimo aspetto fisico, anche se camminava leggermente curvo per un problema alla spina dorsale.

All’interno del carcere non si poteva entrare con registratori né con telefoni cellulari (nemmeno con documenti, denaro o chiavi) e i controlli erano molto severi: non potei registrare le interviste, per cui presi nota delle sue risposte, le trascrivevo in bella copia a casa mia e gliele lasciavo la settimana successiva perché controllasse eventuali errori e imprecisioni. Tornai per raccogliere il questionario e approfittai per fare ulteriori domande.

Era rimasto ancorato al suo passato, capace di un narrazione molto articolata su tutto quello che aveva fatto, tanto che dava l’impressione che stesse parlando di un’altra persona. Comprendeva e giustificava ogni cosa come una missione divina; si considerava un crociato nel mezzo di “una guerra giusta, come diceva San Tommaso”. Implacabile, mi disse di non essere pentito di nulla: “Dormo tranquillo ogni notte”. Inoltre, recitava il rosario tutti i giorni alle 19 e le domeniche assisteva alla Santa Messa e si comunicava.

Era convinto che Dio lo avesse sempre guidato e che non gli avesse mai lasciato la mano, nemmeno in prigione. Al contrario: “Mi è toccato affrontare un tratto molto tortuoso, molto impervio, del mio cammino, ma queste tortuosità mi stanno perfezionando agli occhi di Dio, con lo sguardo rivolto alla mia salvezza eterna.”

Il mio libro fu invece qualcosa di molto più terreno, riferito solo a un’epoca sanguinaria che continua a resistere all’oblio.

 

[Traduzione e adeguamento a cura di Spazio 70. La versione originale del presente articolo, scritto in esclusiva per noi da Ceferino Reato, è consultabile qui]

* Giornalista e scrittore, la sua ultima pubblicazione è intitolata “Masacre en el comedor”. Già redattore della sezione politica nazionale del giornale Clarin, caporedattore di Perfil, corrispondente dell’agenzia internazionale ANSA di San Paolo del Brasile, Reato è stato consigliere stampa dell’ambasciata argentina in Vaticano. Molto attivo sul circuito radio-televisivo argentino, ha pubblicato diversi libri d’inchiesta tra cui una serie di interviste all’ex dittatore Jorge Rafael Videla. Nel 2017 è stato riconosciuto dalla Fondazione Konex come uno dei cinque migliori giornalisti dell’ultimo decennio nel campo della ricerca.