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Quanti sono stati, davvero, i desaparecidos nell’ultima dittatura argentina?

Redazione Spazio70

Il numero reale, di molto inferiore ai 30 mila normalmente dichiarati, può essere quantificato per mezzo di tre fonti ufficiali: il rapporto “ Nunca Más” della Commissione Nazionale sulla Scomparsa di Persone (CONADEP) del 1984; la rettifica di questo rapporto, pubblicata nel 2006, e il Registro Unificato delle Vittime dello Stato (RUVTE) del 2015

di Ceferino Reato*

Fino a qualche anno fa pure io credevo che i desaparecidos durante l’ultima dittatura militare, la più sanguinaria della storia argentina, fossero stati 30 mila: non avevo alcun motivo per dubitare di tale cifra. La consideravo vera sin dal momento in cui mi interessai di diritti umani, nel 1980, appena arrivato a Buenos Aires dalla mia provincia natale, Entre Rios, per studiare giornalismo.

Iniziai a mettere in discussione questo numero magico, e a scrivere riguardo alle irregolarità presenti nelle liste ufficiali di vittime del terrorismo di Stato, molto tempo dopo quando mi resi conto di quello che era accaduto con i guerriglieri uccisi durante un attacco del gruppo guerrigliero Montoneros a una caserma della lontana città di Formosa, sul confine con il Paraguay a 1.200 km dalla capitale argentina. L’assalto a quella caserma avvenne nel 1975, nel governo costituzionale di María Estela Martínez de Perón, vedova del generale Juan Domingo Perón, figura di spicco della politica locale nella seconda metà del secolo scorso.

I guerriglieri si preparavano allora a resistere al golpe militare che quasi tutti si aspettavano e per questo avevano formato l’Esercito Montonero, il cui debutto fu, esattamente, la tentata presa della caserma del Reggimento di Fanteria no. 29 di Formosa: gli andò male, perché i soldati per lo più ventunenni che si trovavano di guardia non consegnarono le proprie armi. Anzi, in trenta minuti di combattimento ci furono ventiquattro morti, dodici per ciascuno dei due fronti, e gli aggressori finirono per ritirarsi.

UN INTERESSANTE POMERIGGIO “FORMOSEGNO”

Parte della caserma di Formosa dove si svolse l’attacco Montoneros del 5 ottobre 1975

Questo fu il tema del mio secondo libro sugli anni ’70. Come parte centrale della mia indagine, visitai il Nordest del Paese per intervistare gli ex-soldati e gli ex-guerriglieri coinvolti. Posso ancora ricordare bene quel pomeriggio del 1 di Agosto del 2009 in una hall dell’Hotel Internacional de Turismo, nel centro di Formosa.

“Ma lei non si rende conto di che cosa accadde? Com’è possibile che i familiari dei guerriglieri morti abbiano percepito tanto denaro mentre noi, che abbiamo difeso la caserma e i nostri figli, dobbiamo vivere così, in condizioni di povertà?” Lo sfogo del tipo in piedi, dietro a tutti gli altri, le braccia conserte, il berretto grigio abbassato fino alle sopracciglia, suonò male, fuori posto, in un ambiente dove, seppur in parecchi, tutti discutevano a bassa voce, con la tipica, elegante dolcezza che hanno i formosegni quando raccontano qualcosa.

I suoi amici lo zittirono subito: meno male che gli chiesi a che cosa si stava riferendo. Perché fu grazie a quello che mi disse Rogelio Mazacotte che venni a sapere che i guerriglieri morti in quel combattimento figuravano come vittime del terrorismo di Stato e pertanto i loro familiari avevano percepito gli indennizzi previsti per quei casi.

Non avevo idea di ciò. Tuttavia tornai a casa col dubbio: non gli credetti del tutto, benché i suoi compagni avessero confermato quello che Mazacotte affermava con tanta sicurezza. Mi disse anche che era muratore e che a volte “sentiva” le ferite che aveva ricevuto in quello scontro, due nello stomaco e un’altra in una coscia. Tuttavia doveva continuare a lavorare duro perché non aveva raggiunto il grado di invalidità che gli avrebbe permesso una pensione dell’Esercito.

GLI INDENNIZZI PUBBLICI DOPO LA DITTATURA? NON SOLO ALLE VITTIME DEL TERRORISMO DI STATO

Una volta a Buenos Aires ebbi presto conferma che Mazacotte aveva ragione e fu così che, partendo da questo dato chiave, scoprii che, mentre i parenti di ogni guerrigliero avevano percepito in media circa 224 mila dollari, i familiari dei soldati di “naja” uccisi percepivano solo una pensione ben miserevole.

Il confronto tra i due pagamenti mostrava un’asimmetria evidente: d’accordo con il tasso di interesse che era stato preso in conto, per lo Stato la vita di un guerrigliero valeva tra 6 e 7 volte di più di quella di un soldato di leva che quel giorno si trovava al turno di guardia come previsto dalla legge.

Però la cosa più grave — per me — risultò essere che lo Stato, rappresentato dai governi democratici che si erano succeduti a partire dal 1983, aveva pagato questi indennizzi a familiari di guerriglieri che, mentre era in vigore un altro governo democratico, avevano assaltato una caserma ed erano quindi morti in combattimento aperto con soldati che si trovavano di guardia. Vale a dire: non erano vittime del terrorismo di Stato, eppure non erano i soli a essere stati indennizzati in modo irregolare.

Era accaduto che, col tempo, i governi democratici erano andati ampliando il limite delle leggi che a partire dal 1994 avevano stabilito un giusto risarcimento ai parenti delle persone assassinate e scomparse (che pure furono eliminate fisicamente, con l’aggravante che i loro corpi risultarono essere stati distrutti o occultati dai militari in fosse comuni).

FURONO DAVVERO 30 MILA I DESAPARECIDOS ARGENTINI?

Le madri di Plaza de Mayo durante un corteo

In questo modo degli indennizzi avevano finito per beneficiare non più soltanto i morti nel periodo tra il 24 Marzo 1976 fino al 10 dicembre del 1983, ma anche i militanti deceduti da molto tempo prima, a partire dal 1955, quando fu deposto il generale Juan Domingo Perón, senza che avesse molta importanza che fossero stati effettivamente assassinati dalla polizia o dai militari e nemmeno se fossero morti in Argentina o in altri Paesi. Quel viaggio aveva richiamato la mia attenzione sul numero delle vittime della dittatura: erano stati effettivamente 30 mila i connazionali desaparecidos?

I militari avevano preso il potere il 24 Marzo del 1976, convinti di dover “eliminare a un grande numero di persone per vincere la guerra contro la sovversione”, come mi disse l’ex-dittatore Jorge Rafael Videla, in una serie di interviste. “Per non causare proteste dentro e fuori dal Paese, poco a poco prendemmo la decisione che queste persone dovessero sparire nel nulla”, aggiunse.

La mattanza può essere quantificata per mezzo di tre fonti ufficiali pubbliche: il rapporto “ Nunca Más” della Commissione Nazionale sulla Scomparsa di Persone (CONADEP) del 1984; la correzione di questo di questo rapporto, pubblicata nel 2006, e il Registro Unificato delle Vittime dello Stato (RUVTE) del 2015.

I numeri di queste tre fonti sono i seguenti:

— Durante il governo del radicale Raul Alfonsin, e dopo otto mesi di lavoro, la CONADEP riportò 8.960 vittime.

— Questo rapporto fu depurato e aggiornato durante il governo di Néstor Kirchner e il risultato fu un nuovo Nunca Más, presentato nel 2004: 6,415 desaparecidos e 743 vittime di “esecuzione sommaria”; 7,158 in totale.

— Alcuni giorni prima del termine del secondo mandato di Cristina Kirchner, la Segreteria dei Diritti Umani pubblicò il RUVTE sul proprio sito web. Elaborato in settembre 2015, questo documento modificò alcuni criteri, cancellò casi erronei e aggiunse nuovi nomi. La conclusione: c’erano stati 6348 desaparecidos e 952 vittime di “assassinio”: 7300 in totale.

Sebbene lontana dai 30 mila, la cifra di 7.300 vittime nei sette anni dell’ultima dittatura indica comunque una mattanza atroce, una discesa negli inferi.

L’ATTEGGIAMENTO DI SINISTRA E “KIRCHNERISTI”

La relazione del 2015 fu diffusa l’anno successivo dal nuovo governo di Mauricio Macri, di centro destra, non peronista, in risposta alla richiesta di una organizzazione non governativa. Le associazioni per i diritti umani interpretarono che il Registro era stato elaborato dai funzionari di Macri e lo criticarono benché, in realtà, fosse un’eredità del terzo governo kirchnerista.

“Ci spaventa, ma non perdiamo le forze. Non so da dove siano uscite queste cifre né dove siano le risposte. Non è mai stata data una cifra simile. È vergognoso, ci umilia.”, disse la titolare di Abuelas de Plaza de Mayo, Estela de Carlotto.

Sebbene le cifre del 2015 siano molto simili a quelle del 2006, non possono essere considerate definitive poiché gli elenchi dipendono dalle denunce di parenti, amici, colleghi, avvocati e organizzazioni per i diritti umani, che possono presentarle in qualsiasi momento. Si è sempre speculato sulla possibilità che i capi militari conservino in qualche posto una lista definitiva delle vittime, che però non è mai stata ritrovata. Bisogna considerare che la repressione illegale era decentrata a carico dei capi militari delle singole zone, sottozone e aree nelle quali la giunta militare aveva suddiviso il Paese.

Visto il tempo trascorso è improbabile che le vittime della dittatura possano arrivare ora alla cifra di 30 mila, alla quale si mantengono salde le organizzazioni dei diritti umani e la maggioranza dei dirigenti politici a capo della sinistra e del kirchnerismo.

UN NUMERO “MAGICO” SORTO IN EUROPA TRA GLI ESILIATI ARGENTINI

Una immagine del Parco della Memoria di Buenos Aires

In questo contesto, l’emblematico monumento eretto nel Parco della Memoria, sul lungofiume settentrionale della città di Buenos Aires, contiene 30 mila targhe, come se si stessero aspettando i nomi di quasi 23 mila persone che un giorno, prima o poi, dovranno saltar fuori. Anche conteggiando tutti i militanti morti dal 1955 in poi, quando fu deposto il secondo governo Perón, non si arriva neanche lontanamente a 30 mila. L’ultimo registro, del 2015, registra 8.631 vittime dal 1955 al 1983, una cifra simile a quella del Parco della Memoria.

Perché dunque le organizzazioni dei diritti umani continuano a issare la bandiera dei 30 mila desaparecidos e non ammettono che questa cifra possa avere piuttosto un carattere simbolico? Perché si adirano tanto con coloro che mettono in dubbio questo numero, pur citando le fonti ufficiali che sono i registri dello Stato? Perché accusano di “negazionismo” i critici, mettendoli sullo stesso piano di coloro che negano il genocidio nazista e vogliono punirli con pene carcerarie da due mesi a due anni secondo un progetto di legge presentato nel 2019?

Uno degli argomenti spesso adottati è che le cifre inferiori a 30 mila vengano utilizzate per sminuire la dimensione della violazione dei diritti umani compiute dal regime; per togliere insomma quel carattere di “genocidio” che, dicono, condivide con l’Olocausto o, più correttamente, la Shoah. Tuttavia da tempo è chiaro in tutto il mondo che il genocidio non ha a che vedere con la quantità dei morti bensì con l’intenzione manifesta di distruggere un gruppo di persone per ragioni estremamente specifiche.

Il “numero magico” dei 30 mila pare sia sorto dal nulla in Europa dove gli esiliati argentini, per ottenere l’attenzione non solo della gente, ma anche dei governi e delle organizzazioni non governative, dovevano competere con molti altri rifugiati latinoamericani accolti e ascoltati più favorevolmente per la loro appartenenza al socialismo o al comunismo. I peronisti, invece, erano guardati con sospetto, in quanto considerati vincolati all’ideologia fascista. Nel suo libro “La historia íntima de los derechos humanos en la Argentina”, Graciela Fernandez Meijide segnalò che la cifra era stata creata dagli esiliati in Europa per ottenere un maggior impatto con le loro denunce. Madre di un adolescente desaparecido, Graciela era stata membro della Assemblea Permanente per i Diritti Umani e segretaria della CONADEP.

I “30 MILA DESAPARECIDOS” RESTANO UNA BANDIERA POLITICA

L’ex montonero Luis Labraña fu ancora più preciso: “Ero esiliato ad Amsterdam quando le Madres de Plaza de Mayo arrivarono in Europa con una lista di 3.700 o 4.700 desaparecidos per chiedere aiuto. Agli europei, che avevano avuto sei milioni di ebrei morti nei campi di sterminio nazisti, sembrava poco e ciò rendeva difficile ottenere appoggio economico”.

“Per questo — aggiunse — si cominciò a discutere in tutta la colonia di argentini esiliati se dire che fossero 7.000, 8.000, 12.000… In una di queste discussioni, dissi semplicemente: ‘Perché non diciamo 30 mila?’ e così restò. Non fu una leggenda, quella dei 30 mila desaparecidos; fu una necessità”.

C’è un’altra ragione per la quale si insiste tanto sulla cifra dei 30 mila: i suoi difensori temono, nel caso in cui si dovesse riconoscere che i desaparecidos sono stati meno, di dover spiegare perché hanno tardato tanto ad ammettere questa verità, perdendo quindi la loro legittimità di attori sociali che ancora hanno un certo riconoscimento sulla scena pubblica, sebbene meno di prima a causa del proprio schieramento con una forza politica ben determinata come il kirchnerismo. I 30 mila desaparecidos restano una bandiera che ancora ha la sua forza e serve per mantenere unito un gruppo di fedeli alquanto numeroso, minoritario ma molto mobilizzato e che si fa sentire a gran voce. Serve per farsi valere all’interno del kirchnerismo, dove i leader dei diritti umani hanno sempre giocato il ruolo dello scudo etico — tanto in difesa come in attacco — di Néstor e Cristina Kirchner.

“La sinistra delle immunità”, come la chiamava l’ex presidente Néstor Kirchner, morto da tempo. E la bandiera dei 30 mila concede immunità, almeno in un settore della società, dinanzi alle denunce di presunta corruzione pubblica che ancora oggi nel 2022 perseguitano Cristina, la leader del potentissimo clan nato in Patagonia.

[Traduzione e adeguamento a cura di Spazio 70. La versione originale del presente articolo, scritto in esclusiva per noi da Ceferino Reato, è consultabile qui]

* Giornalista e scrittore, la sua ultima pubblicazione è intitolata “Masacre en el comedor”. Già redattore della sezione politica nazionale del giornale Clarin, caporedattore di Perfil, corrispondente dell’agenzia internazionale ANSA di San Paolo del Brasile, Reato è stato consigliere stampa dell’ambasciata argentina in Vaticano. Molto attivo sul circuito radio-televisivo argentino, ha pubblicato diversi libri d’inchiesta tra cui una serie di interviste all’ex dittatore Jorge Rafael Videla. Nel 2017 è stato riconosciuto dalla Fondazione Konex come uno dei cinque migliori giornalisti dell’ultimo decennio nel campo della ricerca.