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La strage di Monaco 1980. Il dottor Langemann e la tesi dell’attentatore solitario

Redazione Spazio70

Anche la documentazione Stasi conferma che la sera dell’attentato c’era nell’area di Monaco una particolare concentrazione di uomini e confidenti del BfV. Il governo Merkel si è però rifiutato di fornire delucidazioni sulle fonti dei servizi. Nemmeno una sentenza della Corte costituzionale tedesca è riuscita a fare breccia nel muro opposto dalla Cancelleria federale. Quindi: caso chiuso? Forse non ancora. Ma adesso tocca agli storici

di Gianluca Falanga

Lo scenario che si presentò ai primi soccorritori era orribilmente surreale. Sul piazzale antistante l’ingresso principale, i corpi investiti e straziati dall’esplosione giacevano a decine immersi nella cornice orgiastica della festa, che solo a pochi metri di distanza proseguiva indisturbata. I rantoli e i lamenti dei feriti si fondevano con la musica, i canti e le urla lanciate dalle montagne russe, l’odore ferrigno del sangue faceva uno con quello caramellato delle mandorle tostate e dello zucchero filato, sulla strage svettava illuminata a giorno e in perpetuo movimento, imperturbabile come la generale smania edonistica, la ruota panoramica. Con tutto quello strazio impastato all’ebbrezza, l’inaudita ferocia dell’atto si palesava in tutta la sua efferata follia. L’ordigno, collocato dentro a un cestino dei rifiuti, era detonato alle ore 22.19 di venerdì 26 settembre 1980, vigilia dell’ultimo weekend della fiera, quello che tradizionalmente faceva registrare il maggiore afflusso di pubblico, e a ridosso dell’orario di chiusura dei padiglioni alle 23: il giorno e l’orario perfetti per fare il maggior numero di vittime possibile. Insomma: terrorismo, allo stato puro, nella sua forma più autentica ovvero l’intenzione di uccidere indiscriminatamente innocenti, falciati a caso nella fiumana che si accingeva a lasciare la festa della birra più grande e famosa del mondo. Un attentato senza precedenti per un paese che conosceva i colpi della RAF, ma ancora non aveva fatto esperienza, come invece l’Italia, delle bombe nei luoghi pubblici, nelle piazze, nelle stazioni, sopra i treni.

Mentre negli ospedali della città si lottava per salvare vite, rimuovendo schegge dalle carni e operando amputazioni, mentre la polizia cercava con difficoltà di mettere in sicurezza la scena del crimine e gli uomini della scientifica raccoglievano ogni reperto utile alle indagini, la politica si precipitava a commentare l’accaduto. L’attentato, col suo atroce bilancio di 13 morti (tre bambini) e oltre 200 feriti (un terzo dei quali molto gravemente) il più sanguinoso nella storia della Germania postbellica, cadeva a una settimana dal voto per il rinnovo del Bundestag, nel momento culminante di una campagna elettorale fino a quel momento particolarmente tesa e polarizzata dalla contrapposizione fra il cancelliere uscente, il socialdemocratico Helmut Schmidt, e il candidato dei conservatori, il primo ministro della Baviera Franz Josef Strauß, uno dei più controversi protagonisti della vita politica nazionale nella Repubblica federale tedesca. E proprio quest’ultimo, fiutata l’opportunità di trarre immediato profitto dallo sdegno provocato dalla strage nella sua Monaco, non esitò a rivolgere al ministro dell’Interno Gerhart Baum, la durissima accusa di complicità morale con gli ancora sconosciuti autori della carneficina, per il suo atteggiamento troppo liberale nell’annosa lotta dello Stato contro il terrorismo rosso.

UN CADAVERE SENZA MANI

Strage all'Oktoberfest 1980. Il governatore della Baviera Franz Josef Strauß sul luogo dell’attentato

Franz Josef Strauß sul luogo dell’attentato

Strauß attribuiva dunque alla sinistra radicale la responsabilità per la strage all’Oktoberfest. Le sue infamanti dichiarazioni uscirono sull’edizione del quotidiano BILD del sabato mattina successivo all’attentato, quando gli addetti alle pulizie del comune avevano ormai quasi terminato di lavare il sangue dal piazzale e gli operai di rattoppare il selciato danneggiato dall’esplosione, in tempo per consentire la puntuale riapertura dei capannoni, previste per le 11. Il borgomastro di Monaco, infatti, aveva disposto che la popolare kermesse non venisse annullata né interrotta, ufficialmente per non cedere al ricatto della violenza dei terroristi, in verità per non scontentare i numerosi visitatori giunti da ogni angolo della Germania e dall’estero e per non privare gli allestitori e gli espositori degli incassi dell’ultimo weekend (fu decisa una chiusura per lutto nella giornata del lunedì seguente).

Intanto, a poche centinaia di metri dal luogo del massacro, all’Istituto di medicina forense dell’Università di Monaco si effettuava l’autopsia di un cadavere maschile, il più orrendamente mutilato, rinvenuto a una quindicina di metri di distanza dal punto dell’esplosione. La bomba gli aveva strappato entrambe le braccia all’altezza dei gomiti e mozzato di netto la gamba sinistra, il petto era un’unica massa sanguinolenta crivellata di schegge, il volto sfigurato, insieme bruciato e fracassato. L’analisi delle lesioni consentì ai medici e agli esperti esplosivisti di determinare con certezza l’esatta postura dell’uomo al momento della detonazione: quella di chi aveva l’ordigno fra le mani, piegato in avanti a posarlo sul fondo del cestino. Il cadavere dell’attentatore.

Un documento d’identità e un tesserino universitario rinvenuti a pochi metri dalla salma mutilata permisero di darle subito un nome: Gundolf Köhler. Nonostante le fattezze del volto fossero gravemente deturpate, gli inquirenti ritennero di poterle identificare con quelle del giovane ritratto nella foto sui documenti personali, anni 21, studente di geologia all’Università di Tubinga, residente a Donaueschingen. Alle ore 9.20 di sabato 27 settembre 1980 i dirigenti della commissione speciale d’indagine (SOKO Theresienwiese) costituitasi nella notte e composta di funzionari e tecnici del Landeskriminalamt bavarese, comunicarono via telefono alla centrale operativa del Ministero Affari interni della Baviera le generalità del ragazzo. Fu allora che entrò in scena il dottor Langemann.

L’UOMO GIUSTO AL POSTO GIUSTO

Hans Georg Langemann, una delle figure chiave intorno alla vicenda della strage all'Oktoberfest 1980

Hans Georg Langemann

Nell’autunno 1980, Hans Georg Langemann dirigeva già da qualche anno l’ufficio Sicurezza dello Stato (Staatsschutz) presso il ministero dell’interno bavarese. In tale funzione era uno dei funzionari di vertice del ministero, diretto all’epoca da uno dei colonnelli di Strauß, l’ex segretario generale della CSU Gerold Tandler. Il ministero non aveva responsabilità diretta per le indagini sulla strage, ma in virtù delle sue funzioni di supervisione delle forze di polizia in Baviera vi convergevano di fatto tutte le principali informazioni rilevanti ricavate dagli uffici coinvolti nelle investigazioni. Il ministero di Tandler fungeva inoltre da interfaccia fra gli organi investigativi e i servizi segreti, con i loro schedari, banche dati e dossier sul terrorismo nazionale e internazionale. Nelle competenze specifiche dell’ufficio di Langemann ricadeva l’attività di informazione del governo bavarese in materia di monitoraggio dell’estremismo politico e contrasto dello spionaggio. Primo dirigente della Sicurezza di Stato nel Land più vasto e ricco della Germania Ovest, Langemann si trovava pertanto in una posizione strategica, proprio lui che era un uomo dotato di ottimi agganci nella sfera dei servizi, essendo stato a lungo un funzionario del Bundesnachrichtendienst (BND).

Giurista e assistente, all’Università di Bonn, del professor Hans von Hentig, uno dei padri della psicologia criminologica, Langemann doveva la sua carriera alla sua fortunata tesi di dottorato, che a metà anni Cinquanta lo aveva reso noto, ancora giovane (30 anni), nell’ambito delle scienze criminologiche. Lo studio, intitolato L’attentato, era un’approfondita analisi dell’attentato politico nella storia nelle sue molteplici manifestazioni, sotto l’aspetto della realizzazione tecnica e organizzativa come quello delle condizioni e dei processi determinanti l’atto terroristico, compresa la psicologia dell’attentatore. Alla luce del ruolo assunto da Langemann nelle indagini sulla strage all’Oktoberfest, saltano all’occhio le osservazioni fatte dall’autore in merito all’attentatore solitario (Einzeltäter) nel secondo capitolo del volume: secondo Langemann, l’autentico (echter) Einzeltäter, che maturava in completa solitudine l’idea dell’azione e la metteva in atto, era un’assoluta rarità, generalmente l’attentatore solitario era mosso da altri, sospinto, istigato, ispirato o condizionato da singoli complici, da un gruppo o un’organizzazione, talvolta mero esecutore di ordini ricevuti, talaltra finalizzatore incoraggiato da chi aveva concepito e preparato l’azione.

LA CARRIERA DI LANGEMANN NEL BND

Lo studio di Hans Georg Langemann «L’attentato»

Lo studio di Langemann «L’attentato»

Dopo un rapido passaggio in magistratura, che aveva deciso non fare per lui, Langemann era approdato ai servizi, entrando nel 1957 nel BND. Gehlen lo aveva affidato a uno dei suoi collaboratori di maggiore fiducia, Wolfgang Langkau, capo del Servizio strategico, una struttura del servizio protetta da compartimentazione particolarmente rigida per tenerla segreta agli americani. Gehlen, infatti, l’aveva fatta organizzare nel 1952 venendo incontro al desiderio di Adenauer di disporre di canali informativi su scala internazionale indipendenti dalla CIA. Langemann, nome in codice Dr. Lückrath, si era fatto le ossa per due anni, dal 1959 al 1961, alla sezione di Gegenaufklärung, preposta all’acquisizione di doppi agenti dei servizi segreti avversari.

Langkau lo aveva coinvolto nell’Operazione FADENKREUZ, un vasto programma di dossieraggio e spionaggio contro centinaia di politici, accademici, giornalisti e personalità della vita pubblica tedesco-occidentale, sospettati di avere simpatie socialiste o addirittura di operare al soldo dei regimi comunisti d’oltrecortina. Langemann aveva anche preso parte alle operazioni di individuazione e reclutamento nel BND di veterani della Gestapo, sulla cui esperienza nella repressione della resistenza clandestina comunista durante il nazismo Gehlen faceva affidamento per attribuire illegalmente alla sua organizzazione competenze di polizia segreta che non spettavano all’intelligence esterna. Come sappiamo dai recenti studi pubblicati dalla Historikerkommission indipendente, incaricata di visionare gli archivi dell’Organizzazione Gehlen/BND relativi al periodo 1946-1968, Gehlen mirava a ricostituire il Reichssicherheitshauptamt (cosa che non gli riuscì per l’opposizione degli angloamericani) e credeva nell’esistenza di una nuova Orchestra rossa, una rete spionistica e sovversiva filosovietica, un vero fantasma al quale diede la caccia per oltre un decennio.

Negli anni Sessanta, Langemann aveva fatto carriera nel Servizio strategico, dirigendo gruppi operativi e gestendo reti informative clandestine in vari paesi e regioni del mondo (Etiopia, Grecia, Hong Kong, Giappone, Malta, Austria, America latina, Vietnam del Sud), inserito in un programma di operazioni segrete e spionaggio su scala internazionale, nome in codice EVA. A Langemann erano state affidate anche missioni di particolare delicatezza, per esempio quella compiuta nel gennaio 1968, quando era volato a Washington per far sparire dai National Archives documenti sul passato nazista del cancelliere Kurt Kiesinger. I materiali erano stati sequestrati dai militari americani in Germania nell’immediato dopoguerra ed erano in procinto di essere resi ostensibili agli storici.

Lo stesso anno, Langemann era divenuto capocentro BND a Roma, succedendo a Johann Gehlen, fratello di Reinhard, che dal 1949 aveva organizzato e gestito la rete informativa romana, spiando principalmente in Vaticano, ma non solo per il governo di Bonn. Proprio in quel periodo, infatti, Langemann aveva operato per un servizio informativo parallelo, organizzato nell’autunno 1969 da esponenti politici ultraconservatori e uomini dei servizi ostili alla Ostpolitik brandtiana, fra questi Langkau, nel frattempo pensionato, il ministro Karl Theodor zu Guttenberg e Hans-Christoph von Stauffenberg (da cui il nome non ufficiale dell’agenzia Stauffenberg-Dienst).

Con l’approdo alla cancelleria di Willy Brandt, l’opposizione CDU-CSU aveva perso il controllo del BND, circostanza che si volle compensare creando una rete informativa clandestina. Langemann era uno dei funzionari che tenevano informata l’opposizione sull’azione diplomatica del governo socialliberale (nel suo caso fornendo indiscrezioni circa le posizioni del Vaticano sulla Ostpolitik e i tentativi di intermediazione del PCI), consentendole non solo di seguire i negoziati con i regimi comunisti, ma anche di provare a sabotarli. Lo Stauffenberg-Dienst continuò a operare anche oltre la conclusione dei trattati della Ostpolitik e fu sciolto solo nel 1982, quando il ritorno al governo dei conservatori ne rese superflua l’esistenza.

UN ESPERTO MANIPOLATORE

Hans-Christoph von Stauffenberg (s.) e Karl Theodor zu Guttenberg (d. insieme al cancelliere Kurt Georg Kiesinger), iniziatori del servizio segreto parallelo «Stauffenberg-Dienst»

Hans-Christoph von Stauffenberg (s.) e Karl Theodor zu Guttenberg (d. insieme al cancelliere Kurt Georg Kiesinger), iniziatori del servizio segreto parallelo «Stauffenberg-Dienst»

A Roma, Langemann ci era rimasto appena un anno. Nel 1970 era rientrato a Monaco per ricoprire l’incarico di consigliere alla sicurezza per i Giochi olimpici del 1972. Il fiasco dei servizi segreti di Bonn, che mancarono di prevedere e sventare il brutale assalto palestinese agli alloggi degli atleti israeliani al villaggio olimpico, non aveva compromesso la carriera dell’ex pupillo di Langkau, che era proseguita nel 1973 con la sua cooptazione al ministero dell’Interno bavarese. La stesura delle relazioni mensili e annuali sullo stato della sicurezza interna, tuttavia, lo annoiava. Frustrato dal lavoro di burocrate dopo oltre quindici anni di attività operativa sul campo, si era messo a scrivere le sue memorie, evidentemente senza possedere il talento letterario necessario a convincere un editore a pubblicarle, quantomeno uno all’altezza del potenziale esplosivo delle vicende che intendeva rendere di pubblico dominio.

Nel marzo 1982, estratti del dattiloscritto apparvero sulle pagine della rivista Konkret, provocando un colossale scandalo di cui si occuparono ben tre commissioni d’inchiesta del parlamento regionale bavarese. Si scoprì allora che a vendere i passaggi del libro di Langemann era stato Frank Peter Heigl, giornalista che l’influente agente letterario Josef Ferenczy aveva affiancato a Langemann come coautore perché lo aiutasse a rimaneggiare l’opera. Arrestato per avere rivelato informazioni riservate sulle operazioni top-secret del programma EVA (per esempio, il sostegno al colpo di Stato del generale Suharto in Indonesia nel 1965, fornendo ai golpisti addestramento e armi, con le quali venne massacrato oltre mezzo milione di persone, soprattutto militanti e sostenitori del partito comunista indonesiano, allora il terzo partito comunista più grande al mondo), Langemann si difese sostenendo di essere stato raggirato da Heigl, il quale a sua volta reagì pubblicando gli oltre cento documenti segreti fornitigli da Langemann, peraltro non tutti legati alle vicende degli anni Sessanta trattate nel libro.

Nel novembre 1984, Langemann fu condannato a nove mesi di reclusione, pena detentiva sospesa per le sue cattive condizioni di salute, un referto medico certificava problemi psichici derivanti da una vecchia ferita alla testa riportata da giovanissimo soldato in guerra, nel 1944. Fra i documenti girati da Langemann a Heigl non vi erano solo i dossier delle operazioni segrete compiute dal BND su vari fronti della guerra fredda, bensì anche documenti relativi alle indagini sulla bomba esplosa all’Oktoberfest, fra questi una copia delle pagine del diario delle operazioni, compilato alla centrale operativa del ministero dell’Interno bavarese, che riportavano minuziosamente le prime frenetiche investigazioni effettuate nelle convulse giornate successive alla strage.

Era questa la prova che Langemann aveva riferito in tempo reale a due giornalisti di sua conoscenza, Heigl e Paul Limbach, entrambi firme degli scoop pubblicati dal popolare settimanale Quick, interna sullo stato delle indagini, a cominciare dall’identità del presunto attentatore Gundolf Köhler, quando il nome non era ancora stato reso noto dalla Procura generale. Alle 9.35 di sabato 27 settembre 1980, appena ricevuta la segnalazione dai dirigenti del LKA, Langemann aveva richiesto verifica del nominativo nel cervellone elettronico NADIS, la banca dati condivisa dei servizi segreti e di tutti gli organi di sicurezza nazionale della Repubblica federale, scoprendo che Köhler risultava collegato alla nota organizzazione paramilitare neonazista Wehrsportgruppe Hoffmann, informazione da lui prontamente girata alla stampa, violando il riserbo imposto dal procuratore Rebmann.

SBATTI IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA

Strage all'Oktoberfest di Monaco di Baviera (1980). Copie del diario delle operazioni della polizia del mattino seguente alla strage, consegnate da Langemann ai giornalisti Heigl e Limbach

Copie del diario delle operazioni della polizia del mattino seguente alla strage, consegnate da Langemann ai giornalisti Heigl e Limbach

La divulgazione dell’identità del presunto attentatore all’insaputa degli investigatori ebbe come effetto immediato quello di allertare potenziali complici e persone informate dei fatti, consentendo loro di correre ai ripari, procurarsi alibi, occultare prove e concordare cosa dire e cosa tacere alla polizia, come effettivamente fecero gli amici più stretti di Köhler, Peter Wiegand e Max Gärtner, a conoscenza della passione del ventunenne per le armi e gli esplosivi. Quella di Langemann fu certamente un’azione dettata da un freddo calcolo, condotta da un elemento dotato di grande esperienza nella manipolazione e pienamente consapevole degli effetti e delle conseguenze di ciò che faceva. Oltre a pregiudicare in maniera definitiva l’individuazione di possibili responsabili, stando a ben nove testimonianze raccolte dalla polizia probabili complici di Köhler, presentato dalla stampa a nemmeno ventiquattro ore dalla strage come il mostro stragista (Massenmörder), Langemann fu il primo a intervenire, impistando le indagini, accreditando cioè la cosiddetta tesi dell’attentatore solitario, che lui per primo (vedi la sua famosa tesi di laurea) considerava improbabile.

In altre parole, il capo dell’ufficio Protezione dello Stato, interfaccia fra governo, polizia e servizi segreti in Baviera, fece di tutto per ostacolare l’esplorazione e la ricostruzione del background della strage, promuovendo fin da subito l’attribuzione di ogni responsabilità a un singolo elemento, debolmente collegabile alle formazioni dell’estrema destra radicale organizzata (Köhler aveva partecipato sedicenne a due esercitazioni della WSG Hoffmann nel 1976-77), in sostanza depotenziando la carica politica dell’atto, opera di un giovane confuso, frustrato e disperato per ragioni private (pene amorose e un esame non passato).

Che cosa mosse il primo dirigente della Sicurezza di Stato in Baviera a intervenire in questo modo? I suoi motivi sono noti solo parzialmente, così come conosciamo solo una parte, la proverbiale punta dell’iceberg, del suo agire nei primi dieci giorni dopo l’attentato. Certamente, si attivò per limitare il danno politico che poteva costare caro a Strauß alla vigilia del voto. La notte stessa della strage Strauß aveva accusato, invocandone le dimissioni, il ministro Baum, a suo dire moralmente complice della carneficina per manifesta incapacità di tenere sotto controllo gli estremisti violenti con la sua linea troppo liberale. La mattina successiva, era emerso il collegamento del sospettato Köhler con la WSG Hoffmann, di cui proprio Baum aveva ordinato lo scioglimento nel gennaio 1980 attirandosi le critiche di Strauß, che invece ne aveva sottovalutato la pericolosità: «Per Dio», aveva dichiarato nel marzo 1980 polemizzando con Baum e riferendosi alle esercitazioni paramilitari dell’organizzazione vietata dal governo Schmidt, «se a qualcuno piace divertirsi andando a spasso la domenica in campagna con lo zaino in spalla e la mimetica, che lo si lasci in pace!»

Informato da Langemann poco prima delle 12 di quel turbolento sabato mattina del 27 settembre, il ministro Tandler lo aveva pregato di fare filtrare alla stampa stralci delle intercettazioni telefoniche di Karl-Heinz Hoffmann effettuate negli anni precedenti dal Verfassungsschutz bavarese e documenti della stessa agenzia che trattavano il pericolo di infiltrazione della destra eversiva in Germania Ovest da parte della Stasi, il servizio segreto della DDR. In questo modo si sarebbe rovesciata la realtà, dimostrando che il governo bavarese non aveva affatto trascurato la WSG Hoffmann, anzi la teneva sotto stretta osservazione. Tirare in ballo le infiltrazioni d’oltrecortina doveva invece servire a distrarre l’attenzione pubblica dal reale pericolo costituito dall’estrema destra, agitando il fantasma di una strumentalizzazione rossa del terrorismo neonazista. Langemann fece quanto richiestogli e sicuramente anche di più, per sua sfortuna Strauß e Tandler non gli ricambieranno il favore abbandonandolo al suo destino quando, poco più di un anno dopo, sarà travolto dallo scandalo nella primavera 1982.

RISOLVERE IL CASO PER STRONCARE LE INDAGINI 

Gundolf Köhler, lo stragista dell'Oktoberfest, in prima pagina

Gundolf Köhler in prima pagina

Appreso di un possibile coinvolgimento della WSG Hoffmann nella strage all’Oktoberfest, Langemann aveva intuito immediatamente che vi era qualcosa di più imbarazzante ancora e non solo per la candidatura a cancelliere di Franz Josef Strauß. Langemann sapeva che i gruppi dell’eversione nazista in Baviera, compresa la WSG Hoffmann da poco sciolta dal ministro Baum, erano tutti infiltrati dal Verfassungsschutz. Le fonti d’intelligence, quasi tutti neonazisti acquisiti come confidenti, dovevano avere colto qualcosa dei preparativi di un attentato tanto grave, ma nulla avevano riportato ai loro gestori, forse per lealtà verso i loro camerati e per non essere scoperti, forse perché coinvolti loro stessi in qualche modo nell’organizzazione dell’attacco terroristico.

Indagini approfondite intorno ai contatti e alle frequentazioni di Köhler avrebbero potuto fare emergere il ruolo giocato dai servizi e stimolato domande scomode sul loro coinvolgimento nell’accaduto. Imbeccando i reporter e manovrando le inchieste e gli scoop giornalistici sulla strage, Langemann demolì l’unica vera opportunità investigativa di individuare eventuali complici e, facendo circolare il nome di Köhler prima che venisse reso noto ufficialmente, calamitò e inchiodò l’attenzione generale sulla figura dell’attentatore isolato e apolitico, restringendo gli orizzonti d’indagine, frenando ogni affondo investigativo nei circoli dell’estrema destra e distraendo l’opinione pubblica dal ruolo che gli infiltrati dei servizi potevano avere avuto. Fino alla chiusura dell’inchiesta giudiziaria, decisa dalla Procura generale nel novembre 1982, l’ipotesi di un coinvolgimento di persone collegate ai servizi non fu preso minimamente in considerazione né dalla polizia né dalla magistratura.

Sulla tesi dell’attentatore solitario si realizzò una convergenza fra organi inquirenti e servizi segreti, i primi orientati, secondo una tendenza di pensiero, dominante nelle forze dell’ordine e nella magistratura tedesche dell’epoca, che induceva a ritenere gli estremisti di destra incapaci di pianificare razionalmente i loro attacchi e quindi a negare o trascurare ogni possibile legame fra esecutori e mandanti, i secondi invece interessati a proteggere le loro fonti e non fare trapelare molto del loro modus operandi nei confronti dell’eversione e del terrorismo. Qualche (debole) traccia significativa dell’intervento manipolatore dei servizi nelle indagini si è riuscita a individuarla, per esempio nei verbali delle consultazioni dei commissari della SOKO Theresienwiese con rappresentanti del Bundeskriminalamt (BKA) e della Procura generale, alle quali parteciparono anche uomini dei servizi segreti.

Risulta che nella seduta dell’8 ottobre 1980, a quindici giorni dalla strage e a quattro dalla sconfitta di Strauß alle elezioni, la polizia non escludeva affatto l’esistenza di complici di Köhler, suggerita da tracce e testimonianze, alcune delle quali molto precise, che attendevano di venire verificate a fondo. S’indagava su una rete di neonazisti organizzati attorno alla figura carismatica di Odfried Hepp nel sudovest del Baden-Württemberg, la regione di residenza di Köhler, il nome di quest’ultimo compariva in un elenco di 200 membri della WSG Hoffmann, compilato da Hepp e sequestratogli al suo arresto nel settembre 1979. A quella riunione il rappresentante del Verfassungsschutz informò i funzionari di polizia che Odfried Hepp era un loro confidente (dal 1982 al 1985 anche della Stasi, nomi in codice ADLER II e FRIEDRICH).

Una settimana dopo, il 14 ottobre, furono due funzionari del BND, la cui identità resta ad oggi coperta, a presenziare a una nuova riunione con i funzionari di polizia che conducevano l’indagine. Purtroppo, il verbale di questa seduta è, rispetto a quello della precedente, molto avaro di dettagli. Resta il fatto che l’incontro sancì un radicale cambio di strategia investigativa. All’indomani, gli inquirenti sposarono incondizionatamente la tesi di Langemann del Gundolf Köhler che aveva agito solo per debolezza psichica e mutarono il loro atteggiamento nei confronti dei testimoni che indicavano Köhler in compagnia di altre persone di sua conoscenza prima dell’esplosione, liquidando come non credibili le loro deposizioni, fino a pochi giorni prime ritenute attendibili.

LE PROVE ELIMINATE

Strage all'Oktoberfest 1980. Identikit dell’attentatore e della granata di mortaio usata per confezionare l’ordigno diffuso dalla polizia nei giorni seguenti alla strage: la valigia bianca trasportata da Köhler insieme alla busta che conteneva la bomba, notata da vari testimoni, non fu mai ritrovata

Identikit dell’attentatore e della granata di mortaio usata per confezionare l’ordigno diffuso dalla polizia nei giorni seguenti alla strage: la valigia bianca trasportata da Köhler insieme alla busta che conteneva la bomba, notata da vari testimoni, non fu mai ritrovata

Basandosi su di una sola testimonianza, quella del compagno di università di Köhler, Peter Wiegand, il quale per non finire lui stesso sospettato negava qualsiasi motivazione politica dell’atto, presentando l’amico come un complessato socialmente isolato, fu stabilito alla fine del 1982, a dispetto di numerosi indizi contrari (Köhler era tutt’altro che depresso, viaggiava, vedeva amici, suonava in una nuova band e aveva appena firmato un contratto di risparmio edilizio), che la strage all’Oktoberfest era un caso di omicidio-suicidio. Il restringimento dell’orizzonte investigativo, quindi l’operato di uomini come Langemann che si erano prodigati per giungere a quell’esito, non solo condizionò l’inchiesta, causandone l’archiviazione, bensì, attraverso lo scandaloso trattamento dei reperti giudiziari e biologici raccolti sulla scena del crimine, compromise la ricerca della verità in maniera definitiva.

I ben 48 mozziconi di sei diverse marche di sigarette individuati nell’automobile di Köhler, parcheggiata nelle vicinanze della scena del crimine, sarebbero oggi sottoponibili all’esame del DNA, ma furono distrutti già nel febbraio 1981. All’epoca, in laboratorio, erano state individuate tracce di tre diversi gruppi sanguigni. Come riportavano i testimoni, Köhler non era venuto da solo a Monaco la sera del 26 settembre 1980. E non era solo sulla scena del crimine. Il resto dei reperti, compresi i frammenti della bomba, è stato eliminato su disposizione della Procura generale nel 1997, ufficialmente per fare spazio in deposito, trattandosi di un caso chiuso, l’attentatore era deceduto e non vi erano altre persone incriminate né processi in corso. Fra i reperti che sono così andati perduti per sempre vi era il frammento di una mano, ritrovato a una ventina di metri di distanza dal cratere ed erroneamente attribuito all’attentatore nonostante sia l’esito dell’analisi sierologica sia la perizia dell’esperto esplosivista del BKA Gerd Ester avessero escluso che potesse appartenere a Köhler. Ester, nell’estate 2013, ha ribadito che delle mani del ventunenne, fra le quali era esplosa la bomba, non potevano esistere frammenti del genere, dal momento che la detonazione di più di un kg di tritolo doveva averle completamente «atomizzate».

Gli errori commessi nell’inchiesta del 1980-82, molti dei quali riesce davvero difficile considerare tali, si sono dimostrati una pesante ipoteca sulla riuscita della nuova inchiesta, aperta dalla Procura generale della Repubblica l’11 dicembre 2014 e archiviata ai primi di luglio 2020. A quasi 40 anni dalla strage, al termine di cinque anni e mezzo di intenso lavoro, col ricorso alle più avanzate tecnologie investigative, si è giunti al riconoscimento del motivo politico dell’attentato. «Gundolf Köhler», così recita la relazione conclusiva della Procura generale di Karlsruhe, «agì spinto da una motivazione estremista di destra. Ciò risulta dai suoi contatti negli ambienti della destra radicale, dalle affermazioni da lui fatte poco prima del delitto su come sarebbe stato possibile condizionare il risultato delle elezioni del 1980 e dal suo auspicio, manifestato in questo stesso contesto, di vedere instaurato un regime autoritario sul modello del Führerstaat nazionalsocialista.»

Che si sia finalmente lasciato cadere l’assurda forzatura della motivazione apolitica è una buona notizia, tuttavia, pur richiamandosi alla memoria la particolare asprezza della campagna elettorale del 1980 (in alcune città l’agguerrita campagna anti-Strauß era degenerata in disordini e tafferugli), riesce difficile immaginare che vi fosse nell’estrema destra chi attribuisse a Strauß la disponibilità a una qualche progettualità eversiva. Strauß era senza dubbio un personaggio eccentrico nel panorama politico della Germania Ovest, e sicuramente un uomo di destra, un politico fortemente polarizzante per il suo viscerale anticomunismo, il cinismo di talune sue uscite e certe discutibili posizioni assunte in politica estera (fu notoriamente in buoni rapporti col regime di Pinochet e quello razzista sudafricano, ma anche con Mao e Honecker).

Parliamo però di un esponente dell’establishment democratico, il cui merito più grande che gli viene riconosciuto fu proprio quello di modernizzare l’ultraconservatorismo tedesco, integrandolo saldamente nella democrazia liberale. Karl-Heinz Hoffmann, che secondo la Procura generale sarebbe stato uno dei cattivi maestri di Köhler, non fece mai segreto della sua avversione per Strauß, che considerava una «marionetta» dell’occupante americano non meno di altri esponenti politici dell’odiato sistema democratico, di cui auspicava la demolizione. Che qualcuno, nella frammentata galassia dell’estrema destra neonazista nella Germania Ovest di fine anni Settanta, fosse disposto ad assumersi il rischio e l’onere di un attacco terroristico del calibro di quello di Monaco per agevolare il successo elettorale di Strauß non è circostanza illogica né impossibile, ma certamente discutibile e bisognosa se non di prove più sostanziose, quantomeno di un più preciso inquadramento storico nonché di una disamina approfondita della geografia e delle strategie dei gruppi della destra estrema militante dell’epoca.

GLI ENIGMI SONO ANCORA TUTTI IRRISOLTI

Strage all'Oktoberfest 1980. Raccolta dei reperti (s.) e ricostruzione dei periti esplosivisti (d.): tutte le prove raccolte sono state eliminate in silenzio su disposizione della Procura generale nel 1997

Raccolta dei reperti (s.) e ricostruzione dei periti esplosivisti (d.): tutte le prove raccolte sono state eliminate in silenzio su disposizione della Procura generale nel 1997

L’idea attribuita al giovanissimo Gundolf Köhler, secondo la Procura manifestata in maniera sufficientemente esplicita a due suoi amici pochi giorni prima della strage, di destabilizzare il sistema democratico con un atto terroristico da attribuire ai «rossi», un attacco volto a generare nella popolazione uno stato di insicurezza tale da stimolare l’invocazione dell’uomo forte al comando (Strauß?), appare come una perfetta proiezione sulla realtà tedesca dello schema della strategia della tensione italiana. E tale proiezione, senza nulla togliere alla professionalità degli inquirenti che hanno condotto la nuova inchiesta, è evidentemente figlia del clima che nel 2014 ha spinto le istituzioni tedesche a favorire la ripresa delle indagini.

Per anni, la magistratura era rimasta sorda alle insistenti e sempre meglio argomentate contestazioni della tesi dell’attentatore solitario, a sbloccare la situazione ovvero a fare finalmente cambiare idea e atteggiamento a politici e magistrati non sono state però tanto i risultati delle approfondite investigazioni indipendenti pervicacemente portate avanti dal legale delle vittime Werner Dietrich e dal giornalista Ulrich Chaussy, bensì in misura determinante lo scandalo, scoppiato nel 2011, della trafila di omicidi commessi dalla banda neonazista denominata NSU (Nationalsozialistischer Untergrund) e dell’ambiguo ruolo dei servizi segreti nella vicenda. Sotto forte pressione dell’opinione pubblica, la giustizia tedesca e soprattutto il governo Merkel hanno sentito il bisogno di lanciare un segnale che l’atteggiamento delle istituzioni verso il terrorismo neonazista era mutato, che vi era ora consapevolezza della pericolosità del fenomeno e la disposizione ad affrontarlo con maggiore determinazione rispetto al passato.

Quel segnale è stato (anche) il riconoscimento del motivo politico della strage di Monaco, che ha finalmente consentito alle vittime — molte delle quali, ancora in vita, continuano a patire le conseguenze di lungo termine dei traumi e delle mutilazioni subite — di beneficiare del risarcimento che il governo corrisponde alle vittime di attentati terroristici a sfondo politico (con uno specifico fondo per le vittime del terrorismo di destra). Al di là di questo però gli enigmi sono rimasti tutti aperti e la nuova inchiesta è stata tutt’altro che risolutiva, in primo luogo perché non si è voluto indagare sulle cause dell’irrimediabile disastro compiuto nel 1980-82, facendo chiarezza sulla condotta di chi allora ignorò o condizionò i testimoni, occultò e infine distrusse le prove, compromise l’efficacia e il corso delle indagini.

D’altronde, come stupirsi: poteva andare altrimenti, avendo deciso di assegnare le investigazioni alla medesima istituzione (LKA Monaco) che aveva condotto la precedente e avrebbe dovuto fare il processo a sé stessa? Meglio sarebbe stato, per diradare le nebbie e fare luce sulla portata, le cause, gli effetti e i responsabili del guasto provocato, affidare la nuova indagine a un’autorità indipendente. Invece: è rimasta così irrisolta non solo la ricerca di complici e mandanti, la cui esistenza è stata dichiarata non provata pur non potendola escludere. Al netto di pochi fatti accertati già nei primi giorni dopo il misfatto, le certezze su aspetti fondamentali non sono molte: per esempio, non sappiamo se l’attentato sia stato concepito come avvenne o qualcosa andò storto (poco lontano dal luogo dell’esplosione si trovava il capannone coi tavoli dove si riunivano politici e celebrità della vita pubblica, erano forse loro l’obiettivo dell’attentato?), così come non conosciamo la provenienza della dinamite né dove fu assemblato l’ordigno, dotato di un complesso innesco a due fasi, e come fu portato a detonazione (per errore? a distanza?).

CASO CHIUSO?

Sul fronte delle carte dei servizi segreti, le agenzie del Verfassungsschutz e il BND hanno risposto alla richiesta della Procura generale di fornire tutta la documentazione in loro possesso relativa all’attentato, mettendo a disposizione circa 200.000 pagine di documenti sul monitoraggio dell’estremismo di destra negli anni Settanta. I dossier sulla strage di Monaco sono risultati però evidentemente incompleti, esperti autorevoli come Erich Schmidt-Eenboom ritengono probabile l’eliminazione, negli anni scorsi, di almeno una parte della documentazione archiviata. Resta oscura la questione delle fonti dentro e intorno alla WSG Hoffmann nonché in prossimità di Gundolf Köhler o addirittura presenti sul posto al momento della strage. Al chiarimento di questo aspetto conferisce particolare urgenza il sospetto che il teste chiave Frank Lauterjung non fosse come dichiarò un omosessuale in cerca di sesso che aveva adocchiato il giovane Köhler, bensì un confidente del Verfassungsschutz incaricato di tenere d’occhio l’attentatore.

Per la cronaca: Lauterjung si trovava a poca distanza da Köhler al momento dell’esplosione, ma sopravvisse quasi indenne dall’attentato gettandosi a terra pochi istanti prima della detonazione (dichiarò di avere avuto «un brutto presentimento»). Più di ogni altro testimone fornì dettagli estremamente precisi e circostanziati sulla dinamica dei fatti, per questo fu interrogato ben cinque volte nell’autunno 1980, l’ultima venendo praticamente costretto a rivedere la sua versione e infine giudicato non credibile, perché la sua testimonianza era incompatibile con la tesi dell’attentatore solitario. L’uomo fu trovato morto nel suo appartamento nel 1982, a soli 38 anni, per insufficienza cardiaca e solo nel 2010 si scoprì che aveva un passato di militante in una formazione dell’estrema destra, dalla quale era stato cacciato, pare perché sospettato di essere un infiltrato.

Anche la documentazione della Stasi, acquisita dalla Procura, conferma che la sera dell’attentato c’era nell’area di Monaco una particolare concentrazione di uomini e confidenti del Verfassungsschutz. Tuttavia, il governo Merkel si è categoricamente rifiutato di fornire maggiori delucidazioni circa le fonti dei servizi, con la motivazione che queste verrebbero altrimenti facilmente scoperti e ne andrebbe della loro incolumità. Nemmeno la sentenza della Corte costituzionale, che nel luglio 2017 ha dato ragione alla causa intentata dai Verdi e dalla Sinistra, dichiarando illegittimo perché immotivato il rifiuto del governo, è riuscita a fare breccia nel muro opposto dal Bundeskanzleramt, il quale ha però dovuto indirettamente ammettere di non potere escludere che, attraverso quelle fonti, gli organi di sicurezza siano venuti in possesso di informazioni, che sono state tenute nascoste agli investigatori. Quindi: caso chiuso? Forse non ancora. Ma adesso tocca agli storici.