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Lo chiamavano «il Cocomero». La storia violenta di Cristiano Fioravanti

Redazione Spazio70

La burrascosa esistenza di un giovane estremista nero

Treviso, 9 ottobre 1981. Un ragazzo di ventun anni giace privo di sensi su una barella di ospedale. È in shock emorragico, ha perso molto sangue e le sue condizioni appaiono piuttosto preoccupanti. Gli agenti di custodia della casa circondariale lo hanno prelevato con urgenza da una cella di isolamento. Quel giovane finito al pronto soccorso con i polsi dilaniati da un rasoio è un noto estremista di destra, si chiama Cristiano Fioravanti. In sei mesi di detenzione è già la terza volta che prova a togliersi la vita. L’ultimo tentativo risale a settembre, nel carcere di Velletri ha tentato di suicidarsi ingerendo eptadone, tuttavia, le pulsioni autodistruttive del neofascista romano non hanno avuto inizio con la carcerazione. Gli ultimi giorni di libertà il fratello minore di Giusva li ha trascorsi pensando ossessivamente alla morte. «Io non ce la facevo più con quella vita — rivelerà diversi anni più tardi — feci l’ultima rapina con la speranza di uno scontro a fuoco e di rimanere ucciso. Pensavo anche di ammazzarmi, mi sentivo perso». Figlio di un annunciatore Rai e di una casalinga, il ragazzo è cresciuto all’ombra degli invidiabili successi del fratello maggiore. Il rapporto conflittuale con il padre, il pessimo rendimento scolastico, i continui litigi tra i genitori e il precocissimo interesse per la politica hanno spinto il piccolo Cristiano a cercare rifugio nelle turbolente sezioni romane del Movimento Sociale Italiano, divenute, con il passare degli anni, un’alternativa alla famiglia.

MANCA IL BEL FACCINO

Cristiano Fioravanti nasce a Roma il 19 febbraio 1960. I primi anni di vita li trascorre sui set fotografici, comparendo in diverse immagini pubblicitarie, come quelle per il detersivo OMO. A differenza di Valerio, di due anni più grande, Cristiano non ha le carte in regola per sfondare in quel settore: manca il visino perfetto, quel volto da bimbo adorabile e al tempo stesso sagace e impertinente, quel faccino vispo e intelligente che è riuscito a conquistare le famiglie italiane degli ultimi anni ’60. Nel 1968 anche il fratellino di Giusva prova a recitare in un film per la TV. Nel mese di maggio, durante la pausa tra la prima e la seconda stagione del celebre telefilm La famiglia Benvenuti, Cristiano interpreta il piccolo protagonista della commedia Un pony per Ricky, diretta da Italo Alfaro, in onda in prima serata sul secondo canale. Il ragazzino non sfonda, il fratello invece sì. Nel 1969, dopo aver già preso parte a numerosi film per il cinema e per la TV, l’undicenne Giuseppe Valerio Fioravanti esordisce anche come scrittore con il libro Questi benedetti genitori (Edizioni Paoline). In uno dei capitoli leggiamo: «Cristiano è in castigo. La maestra ha detto che è molto scarso in italiano». In un disegno il fratellino è raffigurato con le orecchie di asino. Poco più avanti, invece, possiamo leggere: «Cristiano ci dà sempre delle preoccupazioni. Ha poca voglia di studiare. Preferirebbe addirittura essere ammalato per non andare a scuola». La questione, affrontata con ingenua ironia dal piccolo scrittore in erba, diviene negli anni uno dei punti dolenti nelle discussioni in famiglia. Il fratello maggiore, invece, primeggia anche in ambito scolastico. Ma non è tutto.

«Mio padre era così pazzo — affermerà Valerio Fioravanti — da mettere in dubbio persino che Cristiano, pur essendo gemello di nostra sorella Cristina e per di più fisicamente uguale a lui, fosse davvero suo figlio. Non diceva tanto per dire: quello era il principale motivo dei continui litigi tra lui e mia madre. Magari non glielo andava a gridare in faccia, ma era inevitabile che Cristiano percepisse la cosa. Nostro padre era perennemente incazzato con lui, e io mi schieravo sempre dalla parte di Cristiano. Tra un fratello kamikaze e un padre opportunista, la cui filosofia era stare sempre dalla parte del più forte, non esporsi mai, preferivo Cristiano»¹.

Le continue tensioni in famiglia, ma soprattutto la sensazione di essere costantemente additato come “il fratello incapace” porteranno il giovane Cristiano Fioravanti ad allontanarsi il più possibile dalle mura domestiche e in particolare dalla figura paterna. Il ragazzo diventa un attivissimo militante del MSI proprio nel periodo in cui lo scontro politico italiano si fa incandescente, specialmente nelle grandi città. Spesso Cristiano rientra a casa soltanto per dormire e in alcuni casi è malconcio per le tante botte prese.

«La mia attività politica ha un inizio che io scherzosamente ho definito materno — spiegherà Giusva davanti alla Corte di Bologna —. Io ho cominciato a far politica solo perché la faceva mio fratello minore, Cristiano […] A me accadeva di tornare a casa la sera, dopo che ero stato a giocare a tennis, dopo che ero stato in palestra, dopo che ero uscito col motorino a fare i giretti miei e di trovare mia madre preoccupata perché Cristiano non era ancora rientrato. “Vai a cercare tuo fratello! Vai a cercare tuo fratello! Prendi il motorino e vai a cercare tuo fratello! Saliamo in macchina e andiamo a cercare tuo fratello!”. A forza di essere mandato a cercare mio fratello, quando poi la macchina di mia madre è stata bruciata dai compagni come rappresaglia per questo ragazzino di dodici anni che girava per il quartiere ad attaccare manifesti, che era stato visto salire su questa macchina, quando mio fratello ha iniziato a prendere le prime botte, le prime bastonate, in me è scattato diciamo quell’istinto protettivo del fratello maggiore […]. Io ho semplicemente restituito le botte che prendeva mio fratello e ho restituito la macchina bruciata di mia madre, non c’è niente di politico in questo, in realtà. La cosa è andata avanti così per diversi anni, crescendo man mano, senza tappe particolari, senza punti di svolta particolari, siamo arrivati, nel corso degli anni, con una crescita graduale, dalla scazzottata alla bastonata, dalla bastonata alla coltellata, dalla coltellata alla pistolettata, dalla pistolettata alla raffica di mitra, siamo arrivati alla cosiddetta lotta armata. Senza momenti particolari di tensione, è stata una cosa molto graduale, molto semplice […] Per cercare di bloccare sul nascere questo sviluppo un po’ preoccupante per i miei genitori nel ’74 sono stato mandato a studiare negli Stati Uniti nella convinzione, in seguito rilevatasi errata, che fosse il fratello maggiore quello più pericoloso a casa, per cui l’anno scolastico 1974/75 l’ho fatto all’estero».

ANNI ’70: È GUERRA TRA BANDE

Il fratello maggiore parte per gli Stati Uniti, ospite di una famiglia nell’Oregon, non distante da Portland, parla un ottimo inglese e a scuola risulta addirittura tra i migliori studenti dell’intero istituto. L’esperienza americana appare come l’ennesimo successo nella vita dell’ex attore bambino che adesso sogna un futuro da avvocato nel nuovo continente, rifiutando le proposte cinematografiche che continuano ad arrivare. Mentre Giusva si trova negli Stati Uniti, la situazione del fratello peggiora. Gli scontri tra «rossi» e «neri» a Roma si fanno sempre più violenti e nel febbraio del 1975 Cristiano Fioravanti assiste all‘omicidio dello studente greco Mikis Mantakas.

Riportiamo di seguito la cronaca di quei drammatici istanti redatta dal quotidiano romano Il Messaggero del 1° marzo 1975:

«Gruppi di “ultras” di sinistra si radunano attorno alla sede del Msi. Alcuni gruppi sono giunti da piazza Risorgimento, altri da via Ottaviano. Primo scontro con i missini, durante il quale vengono lanciate due molotov contro la sede. Lo scontro continua per alcuni minuti, poi dalla sede neofascista escono in forze. E’ la guerriglia. Volano “molotov” e vibrano nell’aria le spranghe di ferro da ambo le parti. La polizia, riunita in piazzale Clodio, viene spostata d’urgenza verso via Ottaviano. Quando la polizia giunge in forze — un’intera colonna di automezzi — il peggio è accaduto: lo studente greco Mikis Mantakas è stato colpito alla testa da un proiettile. Si è accasciato al suolo proprio sotto l’orologio situato all’angolo fra piazza Risorgimento e via Ottaviano. Fabio Rolli è stato raggiunto da un proiettile sull’ingresso della sede del Msi. Il tipografo Antonio Picariello racconta: “Mentre passavo in motoscooter ho visto un gruppo di giovani che si picchiavano fra loro all’angolo fra piazza Risorgimento e via Ottaviano. Improvvisamente uno ha estratto una pistola e ha sparato all’impazzata. Uno è caduto sotto l’orologio, un altro davanti alla sede del Msi. Io ho sentito una fitta ad un braccio e sono caduto dalla motoretta”. Il Picariello era stato raggiunto da due proiettili: alla sesta vertebra lombare e al braccio sinistro».

Costretto dal padre a rientrare a Roma per girare «Grazie… nonna», commedia erotica con Edwige Fenech diretta da Marino Girolami, dopo aver terminato l’anno scolastico in America Giusva deve dire addio al suo sogno americano, poiché gli viene imposto di badare da vicino al fratello minore, sempre più impelagato in faccende pericolose. Entrato in contatto con la violenza di piazza, Valerio Fioravanti ne resta sedotto e invece di dissuadere il fratello inizia ad affiancarlo, dandogli man forte negli scontri e scavalcandolo anche in questo campo, soprattutto dopo aver fatto la conoscenza di Franco Anselmi, fervente militante missino dal passato burrascoso, al quale Valerio si legherà in modo particolare.

«Facevo parte di un gruppo composto principalmente da me, mio fratello e Alessandro Alibrandi — racconterà Cristiano Fioravanti ai giudici — poi sono passate anche altre persone che ne sono uscite. C’era Francesco Bianco, c’era Massimo Rodolfo, c’era Stefano Tiraboschi […], eravamo un gruppo unito perché eravamo uniti da un rapporto affettivo molto profondo. Non esistevano capi, eravamo contrari ad ogni forma di autorità e disciplina. Tutto ciò che facevamo lo decidevamo insieme, di comune accordo […]. Io vivevo in un mondo, un mondo che era il mio gruppo. Vivevo per loro e vivevo all’interno di questo gruppo. Tutto il resto, che era fuori da questo gruppo, non era da distruggere però non aveva importanza, era irrilevante. Poi cominciarono le prime carcerazioni […]. Ovviamente non posso dire di essere contento di essere andato contro gli schemi della destra tradizionale perché oggi come oggi abiuro tutto il mio passato, tutto quello che ho fatto, però a me sinceramente dava molto fastidio il fatto di non poter fare scontri con la polizia perché la polizia era dalla parte nostra, oppure perché la magistratura ci copriva. Ero stanco, perché ormai era risaputo che i giovani di destra erano i figli di papà che rispettavano la legge. Io volevo uscire da quegli schemi, non mi ci trovavo, non mi sentivo a mio agio, mi dava veramente fastidio».

Questa rottura degli “schemi tradizionali” avviene già nel 1977, con i fatti di Borgo Pio:

Da Il Messaggero del 31 marzo 1977: «Undici estremisti di destra — fra cui il figlio di un magistrato — sono stati arrestati dopo la drammatica sparatoria che l’altra sera ha portato lo scompiglio a Borgo Pio ed in via della Conciliazione. Sono tutti militanti del Msi e fanno capo alla sezione di via Ottaviano, quella davanti alla quale due anni fa è stato ucciso lo studente greco Mikis Mantakas. I capi di imputazione sono pesanti (violenza privata, resistenza e violenza a pubblico ufficiale, sparo in luogo pubblico e pubblica intimidazione), ma forse serviranno a scoraggiare definitivamente le spedizioni punitive fasciste che da qualche tempo terrorizzano gli abitanti del popolo del rione».

IL PRIMO OMICIDIO DEL GRUPPO (1977)

Per approfondire il tema dei fratelli Fioravanti, rinviamo al nostro «Borghesia violenta» (Gog edizioni, 2021)

È infatti assieme ad Alessandro Alibrandi, figlio di uno dei più noti magistrati di Roma, che il più piccolo dei fratelli Fioravanti inizia a sparare. A Borgo Pio, dopo un agguato a un’osteria frequentata da militanti di sinistra, si verifica un insolito conflitto a fuoco tra neofascisti e agenti di polizia. Al termine della sparatoria non si registrano conseguenze particolarmente gravi ma tra i numerosi missini arrestati, provenienti da diverse sezioni della capitale, figurano anche i due minorenni, le cui responsabilità, tuttavia, non sono dimostrabili. Gli elementi dell’accusa contro i due ragazzi appaiono piuttosto deboli e se la cavano con poco. Le azioni armate proseguiranno senza sosta, del resto, attorno alle sezioni romane, l’uso delle armi da fuoco non rappresenta più un tabù, né a destra né a sinistra, ma è parte integrante della vita quotidiana di chi ogni giorno fa politica in strada, con tutti i pericoli che ne derivano. Da alcuni anni le rivoltelle girano con estrema facilità anche tra i giovanissimi e qualcuno le porta con sé fin sotto i banchi di scuola, nella cinghia dei pantaloni. Il “ferro” è uno strumento che aiuta a stare più tranquilli, a sentirsi al riparo quando ci si ritrova uno contro dieci, quando la possibilità di perire sotto i colpi delle spranghe e delle Hazet 36 diventa una minaccia concreta e inevitabile. Il più delle volte basta solo impugnarla, la pistola: un gesto efficacissimo per far dileguare i potenziali aggressori. Altre volte, invece, non è questione di autodifesa. Non sempre si cerca di scampare alla morte. In determinate circostanze si ha proprio la crudele volontà di premere il grilletto, di farne fuori uno, di placare con il sangue l’impellente bisogno di nutrire il proprio odio. La pianta velenosa della violenza ha generato così i suoi frutti malati, ormai non si può più tornare indietro.

«Roma, 30 settembre. Un giovane militante di Lotta Continua, Walter Rossi, vent’anni, è stato ucciso stasera da un neofascista, uscito dalla sezione del Msi di via delle Medaglie d’Oro, uno dei famosi “covi” dello squadrismo romano più volte indicato come punto di partenza per le aggressioni degli aderenti di estrema destra nel quartiere contro scuole, partiti politici e singole persone. Il neofascista che ha sparato, e che è stato visto poi fuggire insieme ad altri giovani, ha anche ferito il gestore di una pompa di benzina, Giuseppe Marcelli, sessantotto anni, ricoverato con un’ambulanza al Policlinico Gemelli. La ricostruzione di come sia avvenuto l’episodio è al vaglio degli investigatori. È esclusa la prima notizia che parlava di un attacco con molotov alla sezione missina. Pare accertato invece che, contro una trentina di giovani di Lotta Continua che si erano diretti contro la sede di viale Medaglie d’Oro, si sarebbero immediatamente lanciati i neofascisti della zona. Dice il gestore della pompa di benzina, ferito di striscio al petto: “Ho sentito gridare – prosegue Giuseppe Marcelli – ‘scappate che sono armati’. Poi ho udito dei colpi e sono stato anch’io ferito”. Il colpo che ha ucciso Walter Rossi è stato sparato mentre i giovani di Lotta Continua fuggivano per via Duccio Galimberti. Rossi è caduto di schianto, battendo anche la testa sull’asfalto».

A uccidere Walter Rossi sono stati proprio loro: i due amici inseparabili, ancora minorenni e già assassini. Hanno sparato entrambi, per l’ennesima volta. La pistola di Cristiano Fioravanti era un regalo del suo “padre adottivo”. Già, perché il ragazzo ha iniziato da un po’ di tempo a frequentare un’altra famiglia, molto diversa dalla sua. In casa Sparti si respira quell’armonia familiare che nella residenza dei Fioravanti appare invece totalmente assente, è questa la motivazione principale che spinge il ragazzo a trascorrere sempre più tempo nell’abitazione di uno strano personaggio. «Mi attaccai molto a queste persone – ricorderà Cristiano Fioravanti – in questa casa c’era Massimo Sparti, c’era la moglie Maria Teresa, c’era Luciana la governante e poi i bambini. Anche loro mi consideravano come un figlio adottivo. Io mi trovavo molto bene da loro perché era una famiglia molto unita. C’era questa mia ricerca della famiglia che io trovavo in loro. Erano molto uniti, molto affiatati, facevano tutto insieme». Massimo Sparti è un delinquente comune, uno scassinatore quarantatreenne con idee politiche più vicine al nazionalsocialismo che al fascismo vero e proprio. Razzista, antisemita e fervente anticristiano, l’uomo riesce addirittura a convincere il suo nuovo figlioccio a partecipare a un bizzarro rituale di abiura del cattolicesimo, facendogli bruciare simbolicamente un crocifisso. Sparti si offre come guida del crimine, mettendo a disposizione la propria esperienza fin dal suo primo incontro con il diciassettenne Fioravanti, avvenuto in circostanze del tutto casuali, a seguito di un violento scontro di piazza. «Cosa fate lì, ragazzi? tra un po’ arriverà la polizia. Venite da me, vi nascondo in casa mia!». È con questo protettivo invito nell’androne del palazzo di casa Sparti che ha inizio l’intenso rapporto di Cristiano Fioravanti con la sua nuova famiglia. Del resto, anche le risse con gli avversari politici rientrano nelle materie d’insegnamento di questo “maestro criminale”².

«CRISTIANO ERA IL PIÙ CATTIVO»

Dopo la strage di Acca Larentia Cristiano Fioravanti è in prima linea con il fratello sul fronte della vendetta. Il 28 febbraio del 1978 spara contro i fratelli Scialabba e pochi giorni dopo è presente anche alla rapina all’armeria Centofanti (che costa la vita a Franco Anselmi). Con il passare del tempo la crescita dei NAR prosegue a ritmi vertiginosi. Armi, soldi e nuovi contatti giungono con incredibile facilità e di conseguenza aumenta anche il numero di simpatizzanti e potenziali fiancheggiatori. La vicinanza con gli ambienti della criminalità comune si rivela molto utile e Cristiano con il tempo diviene un esperto rapinatore, finendo in più occasioni in carcere e partecipando a numerosi colpi, tra i più eclatanti, la rapina in casa di Fred Bongusto (che frutta quasi mezzo miliardo di lire) messa a segno nel 1979 in compagnia dell’inseparabile Alibrandi. Travestiti da fattorini i due ragazzi si infrufolano nell’abitazione del cantante Fred Bongusto, al momento a Milano per lavoro. In casa sono presenti la moglie, Gaby Palazzolo, e una cameriera che ingenuamente apre la porta ai ragazzi. Una volta entrati, i due militanti dei NAR sfoderano le pistole intimando alla padrona di casa di aprire immediatamente la cassaforte. Per essere più convincente Cristiano colpisce la donna al viso, assestando un pugno molto forte all’altezza del labbro inferiore. Lo stesso trattamento non viene negato alla cameriera: calci, insulti, minacce di morte.

«Sembrava un commando — ricorderà la signora Palazzolo in un’intervista — si muovevano decisi. Portavano armi da guerra. Il più cattivo era il più piccolo [Cristiano, n.d.A.]. Con una mano impugnava la pistola, un pistolone enorme. Con l’altra mi sferrò un pugno in faccia. M’è rimasta la cicatrice sotto il labbro. Il cazzotto me lo diede al mento. Non svenni neanche per la paura. Ero terrorizzata. Mi curarono alla clinica Paideia. Uno dei due mi disse: “Tu sei una brava donna”. E ci credo, pensai, con tutto quello che si portarono via. Una borsa di gioielli, persino il disco d’oro di Fred che stava esposto all’ingresso. Cristiano, durante il processo, disse che con quei soldi si comprarono un peschereccio per andare non so dove. Era un giro di ragazzi che conosceva mia figlia. Sembravano tutti per bene. Prima hanno fatto il baciamano e poi… E poi ho lasciato la casa per un periodo. Ero spaventata, e ancora oggi non ho smaltito quell’esperienza. Riparlarne mi fa rivivere tutto come se fosse successo ieri. La polizia stava giorno e notte fuori dalla porta. Mica è tanto che sono tornata in quella casa. Pensai, prima che Fred la comprasse, vi abitava una coppia di americani in affitto. Fu il consolato USA a consigliare loro di lasciarla: li aveva messi in guardia perché il Fleming era un quartiere pieno di fascisti»³.

I due agiscono sempre in coppia ma la signora Palazzolo non è l’unica a notare in Cristiano una vena più sadica. Anche Roberto Nistri, ex militante del Fronte della Gioventù, passato poi a Terza Posizione e ai NAR, ricorda nel fratello minore di Giusva, rispetto agli altri camerati, una maggiore predisposizione alla violenza gratuita:

«Era una persona cattiva e violenta. Poi era un ragazzino, ci parlavi e risultava simpatico a tutti. Cicciottello, come il fratello con questi occhi a mandorla, era uno che si accaniva sulla gente, sempre più degli altri. Non so, il calcio a quello per terra, la revolverata in testa alla persona […]. Una volta stavamo attaccando dei manifesti, arrivarono in tre o quattro e ci fermarono in mezzo alla strada, forse non erano neanche di sinistra, solo coatti di quartiere. Uno di loro scese col cric per “menare ai fascisti”. Cristiano glielo strappò di mano e gli sfondò il cranio lasciandolo per terra».

Su ordine del giudice Mario Amato, nella primavera del 1980, finisce in carcere dopo la scoperta di un covo dei Nar tra Ostia e Acilia. Uscito ad agosto, nel mese di settembre è lui a sparare per primo alla testa di Ciccio Mangiameli, presso la pineta di Castel Fusano. Nel febbraio del 1981 prende parte alla sparatoria di Padova uccidendo, assieme al fratello, i carabinieri Enea Codotto e Luigi Maronese. Quando la Digos lo ferma a Roma, nei pressi di un ufficio postale, deve dare conto di qualche omicidio e di un elenco sconfinato di reati. In breve tempo decide di pentirsi e di collaborare con la giustizia. «Fu la fine di un incubo — racconterà anni dopo — ma non avrei parlato, lo dicevo anche a tutti quelli che incontravo nei corridoi della Questura. Poi mi contestarono alcune rivelazioni fatte da Sparti e mi crollò il mondo addosso. Cominciai a parlare anch’io e fu un atto di liberazione: mi sentii risollevato, leggero. La mia speranza era che parlasse anche Valerio e invece…». A Paliano, nel carcere dei pentiti, Cristiano farà la conoscenza di Angelo Izzo, autore del massacro del Circeo. «Izzo cominciò a tormentarmi, instillandomi giorno dopo giorno i dubbi su mio fratello. Diceva che era coinvolto nella strage di Bologna e in altri affari sporchi e io ho finito per credergli. Mi ha convinto ed è stato per questo che ho fatto delle dichiarazioni un po’ forzate: volevo mettere Valerio con le spalle al muro, farlo uscire allo scoperto. Ma era il modo più sbagliato e poco dopo capii che a Izzo non interessava niente di noi: lui parlava solo per fare i suoi interessi e per farsi benvolere dai giudici di Bologna. Una volte mi disse: “Devo sentire prima Mancuso” (il pm dell’inchiesta sulla strage, ndr) perché è lui che deve togliermi l’ergastolo”. Ero sotto una pressione tremenda. Se collaboravo e non confermavo gli altri pentiti, rischiavo di perdere credibilità. Una volta arrivai a dire ai giudici: “Io firmo un verbale in bianco e voi scriveteci sopra quello che volete”. Per fortuna non l’hanno fatto».

Note

¹ Andrea Colombo, «Storia Nera», Cairo editore. Milano 2007, p.36

² Nicola Ventura, David Barra, «Borghesia violenta», GOG edizioni. Roma, 2021, pp. 113-114

³ Mario Caprara, Gianluca Semprini, «Destra estrema e criminale», Newton Compton, Roma, 2009, pp. 196-197.

Ibidem

Giovanni Bianconi, «Così ho tradito mio fratello Giusva» – La Stampa, 5 gennaio 1995, p.13