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Luciano Luberti, il boia in doppiopetto

Matteo Picconi

Pochi personaggi sono stati contemporaneamente torturatori, stupratori, pervertiti e assassini. Luberti è uno di questi

È il 2 aprile 1970 quando presso gli uffici della Procura della Repubblica di Roma giunge una lettera dal contenuto raccapricciante: «La mia adorata diletta si trova morta in via Francesco Pallavicini 52. Nell’interno troverete un’arma da guerra con la quale non me la sono sentita di vendicare e di colpire il responsabile del suicidio della mia donna. Fate attenzione e prendete le vostre precauzioni perché il corpo si trova in stato di avanzata putrefazione. Qualche ora dopo che avrete ricevuto questa lettera sarò espatriato».

La lettera è firmata Luciano Luberti, un nome che, probabilmente, non mette subito in allarme i destinatari, mentre Polizia e Vigili del Fuoco si precipitano al Portuense. All’interno dell’abitazione viene ritrovato il corpo di una giovane donna di trentadue anni, Carla Gruber, in avanzato stato di decomposizione; il suo letto è circondato da decine di fiori, deodoranti e lisoformio. Sulla porta della cameretta, sigillata con il nastro adesivo per non far uscire il fetido odore di morte, le forze dell’ordine trovano un altro scritto: «Chiudo la porta il 20 gennaio alle ore 16. Che potevo fare di meglio se non amarti sino alla fine dei tuoi giorni, mia diletta Regina? Dammi il tempo di compiere tutto il resto come mi hai ordinato». L’autore di quel messaggio è il medesimo della lettera indirizzata alla Procura. Nel giro di poche ore il nome di quel Luberti è sulla bocca di tutti. Perché quell’anonimo editore romano di quarantanove anni non è un uomo qualunque: è un criminale di guerra, è il boia di Albenga.

IL BOIA DI ALBENGA

Pochi personaggi sono stati contemporaneamente torturatori, stupratori, pervertiti e assassini. Luciano Luberti è uno di questi. Nato a Roma il 25 aprile del 1921, Luberti si diploma in ragioneria e si iscrive alla facoltà di Economia e Commercio. All’alba del secondo conflitto mondiale non riesce ad avanzare nelle file dell’esercito regio, ma l’occasione arriva con l’armistizio dell’8 settembre 1943 quando diviene un accanito collaborazionista al servizio delle SS. Luberti è un convinto sostenitore della causa nazista piuttosto che fascista: «Fascista mai. I fascisti non mi piacciono, erano spacconi – ha dichiarato in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera nel 1995 – ma non li disprezzo, ne sono stati uccisi tanti».

Arruolatosi come interprete nella Feldgendarmerie, la polizia militare tedesca, viene spedito prima in Corsica poi ad Albenga a seguito della liberazione della Capitale. Ed è tra l’autunno del 1944 e la primavera del ’45 che si guadagna l’appellativo di «boia». Alla fine del conflitto gli verranno addebitati cinquantanove esecuzioni, quasi tutti familiari e conoscenti di partigiani, ricordati come i Martiri della Foce, in quanto trucidati in prossimità del fiume Centa. Secondo varie ricostruzioni, le vittime sono molte di più: si conta che il boia (anche per sua stessa ammissione) abbia fatto uccidere oltre duecento partigiani.

Ma è soprattutto la fama di sadico torturatore che fa di Luberti un personaggio inquietante. «Uno dei suoi divertimenti preferiti consisteva nel recarsi in un piccolo centro abitato, di raggruppare un bel numero di uomini e donne e di sottoporli a sevizie» scriveva Vincenzo Cerami in «Amare fino alla morte» nel 1980, nel quale riporta alcune incredibili testimonianze, tra cui quella di Bruno Mantero («a mio fratello, davanti ai miei occhi, strappò le orecchie, le unghie, i denti e infine gli cavò gli occhi») e di Ernesta Spalla («un giorno si presentò a casa mia alla testa di un gruppetto di nazisti. Fecero una perquisizione e in una camera trovarono mio figlio Angelo di quindici mesi che dormiva. Il Luberti afferrò il bambino per i piedi e, tenendolo sospeso nel vuoto, minacciò di lasciarlo cadere dalla finestra se non avessi smesso di piangere. Benché anziani, i miei genitori furono brutalmente percossi»).

Nonostante la disfatta dell’esercito nazifascista, il boia riesce a sfuggire alle ritorsioni partigiane. Viene addirittura arrestato a Torino e confuso per un soldato tedesco. «Dalla mattanza del 25 aprile», scrive Mario Michele Merlino che riporta un dialogo avuto con Luberti durante un comune periodo di detenzione negli anni Settanta, «mi salvo, così, per strano caso del destino o chissà per quale altra diavoleria, mentre ragazzini arruolatisi magari il giorno prima (…) venivano scannati come capretti. Io che in fondo me lo meritavo, me la cavo».

Riconosciuto e catturato al confine con la Francia il 17 maggio del 1946 proprio dal già citato Mantero, Luberti viene processato e condannato a morte. La pena capitale viene commutata in ergastolo nel 1948 con l’entrata in vigore della Costituzione, poi amnistiato a sette anni di carcere militare, in quanto gli viene riconosciuta (e non sarà la prima volta) la seminfermità mentale. Nel 1953 il torturatore e sterminatore nazista torna ad essere un uomo libero.

DA CRIMINALE DI GUERRA A «BORGHESE IDEOLOGO»

Si potrebbe comunemente pensare che il reintegro nella società civile per un criminale di guerra non sia una cosa facile. Tuttavia un ambizioso e scaltro ex collaborazionista come Luberti ha le spalle ben coperte e vanta amicizie influenti. Tornato nella Capitale, trova subito un impiego nelle Pubbliaci, importante agenzia pubblicitaria dell’Azione Cattolica, dove si ritaglia nel giro di pochi anni un ruolo di responsabile. Posizione che ricopre fino al 1964, quando lascia l’agenzia e fonda una piccola casa editrice, l’Organizzazione Editoriale Luberti, dove si firma inizialmente come Max Trevisant.

Sono stati sollevati molti sospetti circa le possibilità economiche di Luberti. Tra i finanziatori della sua attività editoriale vi sono molto probabilmente le stesse ombre nere che negli anni Sessanta tessevano trame per sovvertire l’ordine democratico. Non è un caso che, dal 1968, svolga l’attività di cassiere per il Fronte Nazionale, movimento politico di estrema destra fondato da Junio Valerio Borghese. Un legame, quello con il gruppo dell’ex comandante della X Mas, sul quale non è mai stata fatta sufficientemente chiarezza ma che avrà un certo peso sulle successive vicende giudiziarie di Luberti.

Una nuova vita, si potrebbe dedurre. Eppure il boia non è cambiato per niente: rimane fedele alle teorie naziste e le sue pubblicazioni ne costituiscono la prova lampante. Nell’opuscolo «I camerati», pubblicato nel 1969, definisce l’omicidio come «la più eccitante delle attività umane»; si dichiara sostenitore dell’eutanasia per quanto riguarda gli infermi di mente, malati psichici e tubercolotici, in quanto non meritevoli di vivere. Riprendendo Cerami: «La malattia di mente era sicuramente per Luberti un’ossessione che trovava nell’ideologia razzista del nazifascismo una via d’uscita, uno sbocco in qualche modo filosofico. Egli sapeva dentro di sé che tutto quel castello di idee aberranti serviva soprattutto a difenderlo da una fobia intima e reale, quella della demenza». Sarà proprio la sua marginale attività editoriale a portarlo ad incrociare fatalmente la strada di Carla Gruber.

L’INCONTRO CON LA GRUBER, UN AMORE MALATO

Carla Gruber

La sede della casa editrice di Luberti si trovava vicino via Colle di Mezzo (periferia a sud di Roma) a pochi passi dal quartiere Giuliano Dalmata, fatto costruire proprio per i profughi provenienti dal confine del Nord-Est italiano. Ed è proprio lì che abita una giovanissima Carla Gruber, originaria di Zara, che si presenta dal boia per un colloquio di lavoro, un posto da segretaria. I due, nonostante il divario d’età, divengono ben presto amanti. Entrambi sono sposati: Luberti, con già un matrimonio alle spalle (costrinse la sorella di un partigiano, da lui ucciso ad Albenga, a sposarlo dopo averla messa incinta), è coniugato con una romana, Toscana Zanelli, ed ha tre figli; la stessa Carla vive una vita tranquilla, coniugata dal 1959 con un barista originario di Pola, Mario Bazzarini. Il rapporto morboso tra i due amanti getta scompiglio nelle rispettive famiglie. Lo stesso Bazzarini, di fronte al tradimento della moglie, viene dichiarato pazzo e rinchiuso in manicomio per diversi mesi. La Zanelli si separa dal boia nel 1965.

«Luciano Luberti», scrive sempre Cerami in un altro suo libro, «I fattacci», uscito nel 1997, «era stato capace di infilare lentamente le mani nelle buie e rimosse aspirazioni della Signora (la chiamava così) andando a toccare la parte torbida e morbosa della sua anima. Come un malefico santone, una volta con blandizie, un’altra con umiliazioni, premiandola ma subito punendola, aveva fatto emergere in lei una personalità inaspettata, inquietante».

Sesso violento, ricatti, ma anche viaggi, gioielli. Il boia esercita sulla bella e malata Carla (fin da giovanissima è affetta da tubercolosi) una sorta di dominio e sottomissione, ma anche un amore patologico. Una volta andati a convivere nella zona di Ostia, Luberti tollera anche che lei viva altre storie: la tiene sempre in pugno. Nel 1969, su consiglio dell’amante, la Gruber si reca al nosocomio di Montefiascone per curare la tubercolosi. Dopo una degenza durata un paio di mesi, Carla intraprende una relazione con il dottore della clinica, il professor Mario Muzzolini, dal quale nasce una bambina, Melissa. Qualche mese dopo sarà proprio il dottore ad essere accusato dal boia di non aver riconosciuto quella bambina; di fatto, non aveva ceduto ai ricatti (di natura economica) da parte del Luberti e forse della stessa Gruber.

LA CACCIA AL BOIA

«Una storia alla Polanski. Stanze sigillate, scritte allucinanti sotto le foto inchiodate alle porte. Un mitra, vari caricatori, dappertutto bacinelle colme di deodorante», si legge su L’Unità del 4 aprile 1970, «Sul letto una giovane donna in baby doll, morta da circa tre mesi, sfigurata, irriconoscibile. Sotto al cuscino una chiazza di sangue e una pallottola 7.65».

Per quanto l’attenzione si rivolga da subito sul boia di Albenga in fuga, si tratta di un giallo che il Luberti si era studiato bene. Nelle continue missive che invia da latitante alla stampa nei mesi successivi, l’amante della Gruber parla di suicidio, istigato dalla delusione amorosa di lei con il professore di Montefiascone, il quale peraltro ha incontrato la vittima la sera prima. Gli inquirenti concluderanno che le congetture del Luberti non hanno fondamento: il colpo al cuore, Carla, non poteva esserselo inflitto da sola, in quanto completamente narcotizzata da una grande dose di Luminal, un barbiturico. Anche la latitanza del boia, durata all’incirca due anni, resta avvolta nel mistero. Un mese dopo il rinvenimento del cadavere della Gruber, la sua auto viene ritrovata parcheggiata a due passi dalla stazione Termini. Mentre Luberti continua imperterrito a scrivere ai giornali, facendosi ritrarre a volto coperto e armato di mitra, gli inquirenti brancolano nel buio. Qualcuno lo copre, è la stessa stampa ad affermarlo.

La svolta arriva nell’estate del 1972 grazie all’intuito di un diciottenne napoletano. Mario Carbone, futuro carabiniere, frequenta una ragazza di sedici anni che vive nella zona di Portici e che da due anni ospita in casa una persona sospetta, un presunto zio, che si fa chiamare il professore. «Avevo incontrato quell’uomo in alcune occasioni mentre passeggiava per Portici. Aveva un non so che di diabolico che incuteva timore e spavento», così lo descrive Carbone nel suo libro «Lupo Sette», uscito nel 2016, «Una lunga barba che gli arrivava al petto, una capigliatura altrettanto lunga ed un aspetto a metà tra Rasputin e Barbablù».

Che il boia si trovi a Portici non è un caso. La zona è un avamposto del Fronte Nazionale che gode dell’appoggio e della copertura della nascente Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Ad affittargli la stanza è un panettiere napoletano, ex compagno d’armi, che lo conosce come Massimo Trevisant, il suo pseudonimo da editore. Grazie alla segnalazione di Carbone la Mobile si mette sulle tracce del boia e la mattina del 10 luglio scatta il blitz. Quando le forze dell’ordine bussano alla porta del latitante, racconta ancora Carbone che fu testimone dell’arresto «Luberti subito iniziò a sparare con due pistole, mentre ad alta voce cantava una canzone nazista e gridando diceva “Amore per la morte! Amore per la morte!”». Una volta arresosi, dopo due ore di resistenze, gli agenti trovano nell’appartamento una bomba a mano SRCM, una pistola calibro 6,35, materiale pornografico e alcune lattine colme di benzina. Luberti viene tradotto nel carcere di Poggioreale.

IL GIALLO SI TINGE DI NERO

Luciano Luberti

Il mostro viene sbattuto in prima pagina, come recita il film, uscito proprio in quel 1972, di Marco Bellocchio, con un sontuoso Gian Maria Volontè. L’immagine del Luberti, una sorta di Rasputin nazista, con la sua folta barba e gli occhi cattivi e diabolici, scatena l’immaginario dell’opinione pubblica. Accusato di aver premuto il grilletto sul cuore della sua amata, l’attenzione degli inquirenti e dei media si concentra tutta sui possibili moventi. Cosa ha spinto il Luberti a uccidere la sua «regina»? Per quanto logicamente plausibile, viene esclusa dapprima l’ipotesi della gelosia: il professor Muzzolini non era l’unica storia della Gruber al di fuori del rapporto col boia. Per quanto all’epoca non si parlasse ancora di femminicidio, è possibile che l’intenzione di Carla di liberarsi definitivamente del Luberti abbia spinto quest’ultimo al gesto estremo in via Pallavicini. Viene ipotizzata anche la possibilità che le idee naziste del suo amante abbiano preso il sopravvento, e che la morte della Gruber sia da tradurre in una sorta di eutanasia in quanto gravemente malata di tubercolosi. Ma gli inquirenti battono anche un’altra pista, più clamorosa, in cui l’amore tra i due (per quanto malato e perverso) c’entra poco o nulla.

Il 28 gennaio del 1970, in fondo a un pozzo situato nelle campagne di Forte Bravetta (periferia ovest di Roma) viene ritrovato il cadavere di un uomo insieme al suo cane. È Armando «Dino» Calzolari, militante fascista del Fronte Nazionale, scomparso poco più di un mese prima, la mattina di Natale. Come Luberti, svolge il ruolo di cassiere per l’organizzazione del «Principe Nero» e i due si conoscono benissimo. Calzolari, nel corso di un paio di riunioni in cui partecipò anche Borghese, aveva minacciato di svelare i retroscena della strage di Piazza Fontana del 12 dicembre, pochi giorni prima della sua sparizione. Rimasto un omicidio perpetrato da ignoti, la madre del cassiere dichiara in più occasioni che potrebbe esserci proprio quel Luberti dietro la morte del figlio. Un delitto similarmente collegato a quello della Gruber: quest’ultima, venuta a conoscenza del delitto Calzolari, e della pista nera che conduce alla strage di Milano, sarebbe stata eliminata dal Luberti perché disposta a parlare. Ipotesi che non trovano conferma in nessuno dei due processi. Nel gennaio del 1976 Luberti viene riconosciuto come l’esecutore materiale dell’omicidio della sua amante e condannato in primo grado a ventidue anni di reclusione.

Il mistero intorno al movente dell’omicidio del Portuense lascia un margine prezioso ai legali del boia di Albenga. In appello, nel 1979, una perizia psichiatrica ne dimostra la sua seminfermità mentale e, proprio come trent’anni prima, Luberti riesce a farla franca con la giustizia. Tra gli autori di quella perizia c’è (guarda caso) il professor Aldo Semerari, criminologo di acclarate idee naziste, per due decenni molto vicino alle formazioni della destra eversiva e agli ambienti della criminalità organizzata. La pena viene incredibilmente ridotta a dieci anni che, al netto di quelli già trascorsi in attesa di giudizio, si riducono a poco meno di due, da scontare nel manicomio giudiziario di Aversa.

«AL SUO CAPEZZALE C’ERO SOLO IO»

Nel 1981 Luberti è di nuovo un uomo libero. Lascia la Capitale e si trasferisce a Padova, dove risiede una delle sue figlie. Nella città veneta, già all’epoca meta preferita di nostalgici fascisti, il boia intraprende una nuova carriera universitaria. Si laurea in giurisprudenza, con una tesi sui manicomi giudiziari. Come tra le vie di Portici anni prima, si atteggia a professore e si aggira con la sua lunga barba tra i giovani universitari di Padova. Vive con un sussidio del comune e mantiene saldi i rapporti con alcuni membri dell’ormai dissolto Fronte Nazionale. Alla fine degli anni ottanta torna protagonista di un altro fatto di cronaca: «Quando i poliziotti hanno fatto irruzione in un appartamento di piazza Napoli, in uno dei più popolosi quartieri padovani, in cucina hanno trovato una ragazza che, con una cannuccia in mano, stava sniffando eroina» si legge in un articolo pubblicato su Repubblica il 19 febbraio 1989 «Sul campanello c’era scritto Luberti e in effetti nella casa risiede proprio colui che un tempo tutti conoscevano come il boia di Albenga, ma che ormai per la gente che vive attorno è un vecchio come tanti altri». Luberti, che all’epoca dava lezioni private di diritto commerciale, viene comunque prosciolto dal reato di detenzione e spaccio di stupefacenti.

«È stato un padre strano, diverso, anaffettivo. Opportunista, egoista», racconta la figlia Luciana Corinna Luberti in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, «mio padre era capace di fare cose spiacevoli. Sì, anche a noi figlie. Non me l’ha mai confidato, ma ci scommetterei che mia sorella maggiore sia scappata a gambe levate e non l’abbia mai più voluto vedere perché in casa era successo qualcosa di brutto». Una vita di fantasmi che Luberti non ha mai scacciato e che, al contrario, lo hanno reso sempre fiero del suo passato. Verso la fine degli anni Novanta, in occasione di più interviste, si definisce ironicamente «colpevole senza rimorsi». Si ammala di tumore alla prostata e muore il 10 dicembre del 2002. «Se ne andò quasi per consunzione» ricorda la figlia Luciana «e quando morì, al suo capezzale, c’ero solo io».