logo Spazio70

Benvenuto sul nuovo sito di Spazio 70

Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
Il sito comprende sei aree tematiche e ben ventidue sottocategorie con centinaia di pezzi su anni di piombo, strategia della tensione, vicende e personaggi più o meno misconosciuti di un’epoca soltanto apparentemente lontana. Per rinfrescare la memoria di chi c’era e far capire a chi era troppo giovane o non era ancora nato.
Buona lettura e non dimenticare di iscriverti sulla «newsletter» posta alla base del sito. Lasciando un tuo recapito mail avrai la possibilità di essere costantemente informato sulle novità di questo sito e i progetti editoriali di Spazio 70.

Buona Navigazione!

Le manie «britanniche» di un ex sergente dei fucilieri. Ritratto di Idi Amin

Redazione Spazio70

Da un articolo di Alberto Baini per «Epoca» (1977)

Il film su Idi Amin del regista francese Barbet Schroeder

«Io sono stato un grande sportivo, lo sapete. Un campione di pugilato e anche di rugby. Come sportivo c’è una cosa che voglio dire ai boxeurs e anche a tutti gli altri: il sistema migliore per battere il vostro avversario e anche gli avversari del Paese è di vincere per k.o. Ve lo dico io, è l’unico sistema. Chiunque abbiate davanti, cercate di metterlo k.o. Io ho sempre fatto così». Questa norma di comportamento che il dittatore dell’Uganda, Idi Amin, dettò agli sportivi di Kampala in un discorso reso celebre dal film di un regista francese, qualcuno ha cercato di applicarla anche a lui. Colpi di bazzoka e raffiche di mitra hanno fatto a pezzi, verso la fine di giugno, in Uganda, l’automobile presidenziale. L’Africa sviluppa il senso della caccia, ma anche l’istinto di sopravvivenza e della difesa. Nell’auto sontuosa, presa di mira dai congiurati, il dittatore non c’era.

Due giorni dopo l’attentato, per far tacere le voci che lo volevano morto, Idi Amin è comparso alla televisione di Kampala. Sebbene abbia detto che non è successo nulla e che nessuno ha cercato di nuocere alla sua persona, i congiurati, i loro parenti e le loro tribù, sanno benissimo che cosa li aspetta: un nuovo massacro sta per abbattersi sopra l’Uganda. L’attentato era l’undicesimo, dei massacri si è perso il conto. In sei anni e mezzo di regno, Idi Amin ha trucidato con imparzialità ugandesi e stranieri, arcivescovi e mogli di cui si era stancato, ministri infedeli e agenti della Cia.

«IN UGANDA? QUI NON ESISTONO DISCRIMINAZIONI. NELLE CARCERI CI SONO PRIGIONIERI DI TUTTE LE CONFESSIONI»

«Nel mio Paese», dice, «la legge è sovrana. Chi può venire a darmi lezioni di democrazia? Gli inglesi hanno milioni di sudditi asiatici e africani e mai uno di loro è entrato nel governo. Gli americani ammazzano i loro presidenti. Se non siete bianco, anglosassone o protestante, non siete nessuno». In Uganda, invece, non esistono discriminazioni. «Io sono musulmano e ho ministri cristiani. Il trattamento è eguale per gente di qualsiasi fede: tant’è vero che nelle carceri ugandesi ci sono prigionieri di tutte le confessioni».

Nei suoi momenti migliori, Amin pratica spesso queste forme di umorismo nero. A Richard Nixon, ormai avviato alla fine, spedì un telegramma augurandogli di guarire «dalla brutta malattia dell’affare Watergate». Finse di commuoversi per le pessime condizioni economiche dell’Inghilterra e «per aiutarla» organizzò una colletta in cui si videro neri poveri e laceri arrivare con una capretta o con un casco di banane.

«Gli inglesi», disse Amin, «ci hanno trattato malissimo. Ma io sono un uomo di pace e voglio fare qualcosa per loro. Credo che presto saranno alla fame, così ho lanciato una raccolta nazionale di cibo e denaro. Ho dato anche 10 mila sterline dei miei risparmi. Ho spedito un telegramma al primo ministro Heath perché mandi qualcuno a prendere tutta questa roba».

I LAZZI E LE INVETTIVE AI DANNI DELL’INGHILTERRA

Idi Amin balla con Miriam Eshkol, moglie del primo ministro israeliano Levi Eshkol

Ha 57 anni, pesa più di un quintale. Il suo aspetto fisico è simile a quello degli enormi ex pugili che con il secchio e la spugna stanno ai bordi del ring nell’angolo di Cassius Clay. Prese il potere nel 1971 durante un incauto viaggio all’estero del presidente di allora Milton Obote. Viene da una tribù delle rive del Nilo, è analfabeta. A volte parla come il giullare dei drammi scespiriani, il solo che possa permettersi di dire la verità al re. Così gli dobbiamo alcuni giudizi, ruvidi ma non insensati, sulla intelligenza di Kissinger e sulla politica neo-coloniale delle grandi e medie potenze.

Sono giudizi non privi di fondamento se si pensa che il golpe di Amin ebbe i consigli di una missione militare israeliana e l’appoggio diplomatico della Gran Bretagna. Israele cercava un alleato sicuro ai confini meridionali del mondo arabo. Londra era inquieta per il socialismo di Obote e per la sua politica di nazionalizzazioni. Dall’avvento di Amin, Israele ha ricavato un elogio di Hitler; la Gran Bretagna ne ha avuto una serie di fastidi che continuano ancora. Il Grande Dadà – come lo chiamano in Uganda – continua a bersagliarla con lazzi e invettive.

Quando queste maschere buffonesche gli cadono dal viso, Amin appare come un tiranno dell’Africa pre-coloniale, più legato alle sanguinarie follie degli imperatori neri di Haiti, nei Caraibi, che non alla problematica Africa di oggi. Nei suoi sei anni di regno, Amin non ha badato ad altro che a rinforzare il suo potere personale, a rendersi padrone del Paese: e per fare questo si è appoggiato sulla sola forza esistente – l’esercito – che è diventato nelle sue mani una truppa di occupazione. Poiché la repubblica è nata dall’unione di quattro piccoli regni e la nazione è composta da quasi 40 etnie, gli scontri e le stragi si sono susseguiti. In casi come questi la regola vuole che il dittatore sfrutti gli odi tribali, massacri gli altri e si circondi dei suoi.

UN UOMO AL QUALE IL POTERE HA DATO ALLA TESTA

Questo arcaico sistema di governo, se così si può dire, è complicato non poco in Uganda dal tumultuoso e bizzarro carattere di Amin. Nei vari momenti della sua giornata si ritrovano l’uno accanto all’altro la predica ai medici e l’elogio della continenza («Non ubriacatevi: i malati non hanno fiducia nei medici ubriaconi»), la promozione a ministro di un qualsiasi sergente e la condanna a morte del ministro caduto in disgrazia. Lo scrittore inglese Denis Hills, che finì nelle carceri di Amin per averlo definito «un tiranno da villaggio», ha scritto sul New York Times che Amin è un uomo dai forti impulsi, accecato da furori improvvisi. «La sua condotta come leader nazionale è stata così singolare da giustificare qualsiasi domanda sul suo equilibrio mentale. Per rispondere occorrerebbe un esame medico e psichiatrico che ovviamente non è possibile».

Anche senza questi referti, decine di persone che in un modo o nell’altro hanno visto all’opera Amin, si trovano d’accordo nel giudicarlo un pazzo, un uomo al quale il potere ha dato alla testa. Avviato alla carriera delle armi negli anni coloniali da un reggimento di Sua Maestà (quello dei King’s African Rifles, i fucilieri africani), Amin sembra provare per l’Inghilterra un groppo di sentimenti confusi. I giornali popolari inglesi hanno lungamente dibattuto il problema se Amin voglia vendicare le umiliazioni del colonialismo o non desideri più semplicemente «prendere il tè con la regina».

La vecchia isola rimane al centro delle sue ossessioni. Dei vari rifiuti che gli hanno impedito finora di metterci piede come capo di Stato, Idi Amin si è rifatto in varie maniere: ha obbligato uomini d’affari britannici residenti in Uganda a portarlo in giro su un baldacchino, ha denunciato più di una volta la Bbc che lo diffama con «false and malicious information», ha offerto il suo aiuto ai nazionalisti scozzesi che giudica «un popolo oppresso e sfruttato dall’Inghilterra». I giornali di Londra sostengono che tutto questo non sarebbe successo se il Grande Dadà fosse stato accolto nell’isola da un reggimento di Highlanders con cornamuse in testa, come ha chiesto più volte attraverso le normali vie diplomatiche. Non c’era bisogno di uno psicanalista per capire a quali nodi si rifacciano certe ossessioni africane.

«AMIN? HA UNA LINEA DIRETTA CON DIO CHE A NOI PURTROPPO MANCA»

Amin, ex sergente dei fucilieri britannici, rivendica la sua parte personale nel Commonwealth come Bokassa, ex sergente della Legione straniera francese, si è fatto nominare imperatore della repubblica Centroafricana. Uno soffre delle eredità coloniali britanniche. L’altro ha manie napoleoniche e un trono ornato con zanne d’elefante. I retaggi imperiali (come si diceva una volta) sono ridotti a questo.

Rimane il fatto che Amin è un problema permanente e gravissimo per l’intera Africa. «Ha una linea diretta con Dio che purtroppo a noi manca», disse una volta il ministro degli Esteri dello Zambia, Vernon Mwaanga, per spiegare la rottura delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Aggiunse che i giornali dell’Occidente dovrebbero smetterla di trattare Amin «con divertito interesse» e vedere in lui quello che è realmente: «Una tragedia, non solo per l’Uganda, ma per l’Africa intera». I massacri, le bizzarrie, gli eccessi del potere e della vita privata fanno di lui una figura di «re nero» enorme e ingombrante, molto comoda per chi vuole dimostrare la congenita incapacità degli africani a governarsi da soli.

Su posizioni opposte c’è in compenso chi vede in Amin «una immagine deformata di noi stessi», una creatura mostruosa nata da un secolo di colonialismo. Forse si può pensare ragionevolmente che Amin rappresenti – con la eccessività di una maschera teatrale – i mali di cui soffrono molti giovani Stati africani: l’insufficienza dei processi nazionali, le lotte tribali che continuano con accanimento e ferocia appena nascoste dalle bandiere delle repubbliche, il fallimento dei programmi di aiuto dei Paesi ricchi che hanno assecondato soltanto le nuove borghesie africane e favorito – con il ricalco dei modelli europei – le più indicibili forme di autocolonialismo.

E’ comunque certo che ad Haiti, la prima repubblica nera indipendente del mondo, le spiegazioni sarebbero più semplici. Amin, laggiù, può apparire soltanto come «uno di quei neri che si prendono per bianchi e che pretendono di fare i bianchi sulle spalle dei neri».