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Kabul e l’eroina. Alla ricerca di «Paolo», disperso in Afghanistan

Redazione Spazio70

Il viaggio dell'inviato Giovanni Belingardi nella Kabul splendida e inquietante di metà anni Settanta

Milano, settembre 1974. Nella redazione del Corriere d’Informazione – la versione «popolare», dedicata alla cronaca, del Corriere della Sera – c’è grande movimento. La storia di due studenti diciottenni, reduci da un viaggio di «piacere» a Kabul, capitale dell’Afghanistan, ha scioccato e messo in allarme diverse centinaia di mamme e papà del capoluogo lombardo. I ragazzi, avvicinati da Giovanni Belingardi, reporter del quotidiano meneghino, dicono di chiamarsi «Gigi» e «Luca», ma si tratta ovviamente di identità fittizie: la loro unica preoccupazione sembra infatti quella di non essere riconosciuti dai propri genitori all’indomani di un periodo di permanenza in Afghanistan, ufficialmente motivato con ragioni di tipo «culturale».

«Finita la scuola», dicono, «siamo partiti con il solo desiderio di conoscere mondi diversi e città lontane che fino a quel momento avevamo visto soltanto sui libri di geografia». A sentire loro, nessuna ricerca di paradisi artificiali o di pseudo-avventure spirituali: una scelta, quella dell’Oriente, dettata esclusivamente dal fascino di una meta lontana dalla chiassosa e caotica Milano di metà anni Settanta. «Insomma», dicono, «abbiamo scelto Kabul perché l’Oriente ha un certo fascino, ha qualcosa di misterioso che cattura l’immaginazione di un giovane, senza contare che la vita in quei posti costa poco e consente soggiorni prolungati».

GIGI, LUCA E PAOLO

«Gigi» e «Luca» sembrano due giovani senza tanti grilli per la testa. Vestono sobriamente: un paio di jeans, una maglietta da poche lire, una catenina d’oro al collo e i capelli né lunghi né corti pettinati alla moda. Sì, forse è vero che non sono due «drogati». Ci tengono particolarmente a far presente questo aspetto: «Non siamo due tossicomani», dicono all’unisono quasi in torno supplichevole, «la droga non ci ha mai interessato, eppure in quello sporco Paese ci stavano per rovinare la vita così come l’hanno rovinata a molti altri ragazzi italiani».

Che cosa intendono? Di fronte al reporter che, a questo punto, pretende di saperne di più, non si fanno pregare. «No, non siamo stati costretti a drogarci: nessuno ci ha costretto. Oddio, forse sarebbe anche stato meglio, almeno avremmo potuto ribellarci. Il fatto è che ti convincono, ti parlano a lungo. Ti dicono che la droga non fa male, ma al contrario libera da inibizioni, false paure, da tutti quegli scrupoli che falsano la personalità dell’individuo. Noi possiamo dire di essere stati perseguitati dagli spacciatori fin dal primo giorno del nostro arrivo a Kabul. Ci offrivano droga, a bassissimo costo, in ogni angolo: persino all’interno delle moschee cercano di vendertela. I locali, poi, sono infrequentabili: la mischiano ai pasticci che poi ti fanno bere».

«Una sera», continuano Gigi e Luca, «ci siamo trovati drogati senza saperlo, praticamente contro la nostra volontà. Eravamo a una festa ed è stato terribile. Ci siamo sentiti male e quando abbiamo ripreso conoscenza ci siamo ritrovati all’alba sbattuti fuori dal locale nel quale avevamo passato la serata. Stesi per terra, senza ricordare nulla di quanto successo. Un po’ come quel ragazzo che abbiamo visto una volta, poco dopo la mezzanotte: si trascinava per terra, cercando di raggiungere chissà che cosa. Lo guardavamo e quando ci ha chiesto di aiutarlo, abbiamo avuto paura e siamo fuggiti. Abbiamo visto tanti drogati, laggiù. Speriamo proprio di non tornare a prendere più nessuna sostanza, non vogliamo diventare come loro. Quel viaggio in Asia Centrale è stata una esperienza terribile che non auguriamo a nessuno».

Una brutta esperienza da diciottenni apparentemente facile da dimenticare, con il ritorno a Milano in un futuro fatto di amicizie e studio. I due annuiscono, ma sembrano turbati: c’è un pensiero, qualcosa che non è ancora stato detto. Probabilmente la vera ragione dell’incontro con un giornalista. «Certo, forse dimenticheremo, però c’è Paolo», dice uno dei due. Chi è? «Si tratta di un nostro amico, anche lui di Milano. Era con noi, ma è rimasto lì. Lo hanno ricoverato in un ospedale nel quale ci sono molti altri ragazzi italiani. Ha fatto certamente uso di droghe pesanti e a Kabul non c’è nessuno che può salvarlo. E’ molto probabile che non lo vedremo più». E i suoi genitori? «Viveva solo, i suoi sono divorziati. Chissà, magari non se ne accorgeranno nemmeno. Sì, cercheremo di dimenticare. Come si fa quando si esce da un inferno? Mi raccomando, non dica chi siamo».

MIGLIAIA DI TURISTI DELLA DROGA IN ORIENTE

L’intervista a «Gigi» e «Luca» apre una sorta di vaso di Pandora. Si scopre che il ministero dell’Interno ha aperto da tempo una vera e propria indagine sul fenomeno dei giovani italiani vittime della droga in Oriente. La testimonianza dei due ragazzi milanesi ha poi turbato i sonni di molti genitori meneghini. La redazione del «Corriere d’Informazione» diventa un vero e proprio centralino nel quale vengono filtrate e analizzate segnalazioni, richieste di informazioni, e sfoghi da parte di tanti cittadini molti dei quali fino a quel momento avevano tenuto per sé il sospetto che i propri figli potessero aver avuto a che fare con la droga.

E poi, c’è quel nome: «Paolo». Chi è? In molti vorrebbero conoscere l’identità del ragazzo, abbandonato tra la vita e la morte in un ospedale di Kabul dopo una festa a base di droga. Per saperne di più, viene scomodato il dottor Alberto Sabatino, direttore della Divisione stupefacenti del ministero dell’Interno. Ha recentemente visitato l’Afghanistan, l’India e la Persia. E’ pessimista e non lo nasconde: «La situazione è grave», dice, «e l’indagine del ministero è attenta. Le famiglie devono fare affidamento sulle nostre ambasciate, sempre tempestive nel comunicare eventuali notizie».

Già, le famiglie. «Ho un figlio che si chiama Paolo», dice un signore grigio e preoccupatissimo, «ed è in vacanza proprio a Kabul. Mi è arrivata pochi giorni fa una sua lettera: solo poche righe, scritte di fretta, per dire che gli servivano soldi. Non vorrei che sia lui. Come faccio a sapere qualcosa di più? Non posso più attendere». Una madre preferisce invece chiamare in redazione: «Sono disperata», piange al telefono, «non so proprio come rintracciare mio figlio. Si chiama Paolo ed è in Afghanistan. Qual è il cognome del ragazzo di cui parlavate nell’articolo? Com’è fisicamente? Tramite l’ambasciata non si riesce a sapere nulla». Purtroppo per tutti questi genitori la risposta è la stessa: da «Gigi» e «Luca» non arrivano altre indicazioni. Dicono semplicemente di non voler «aggiungere altro». Il dottor Alberto Sabatino, direttore della sezione stupefacenti della Criminalpol, interpellato sull’identità di Paolo, dice di non saperne nulla.

Di sicuro vien fuori che a metà anni Settanta sono migliaia i turisti italiani, giovani «hippies», vittime della droga in Oriente. Alcuni finiscono negli ospedali locali, nei quali manca ogni elementare forma di assistenza sanitaria e igienica, mentre altri diventano a loro volta spacciatori-consumatori. Il loro destino è spesso quello di finire in carcere dove subiscono pene molto severe. «L’indagine promossa dal ministero», dice Sabatino, «dovrà risolvere almeno in parte la situazione, anche se purtroppo non sempre si arriva in tempo. E’ di questi giorni la notizia di un giovane milanese morto a Bombay, in India. I medici sostengono abbia assunto una dose eccessiva di droga, ma il ragazzo era ricoverato da tempo e abbiamo il sospetto che non abbia in realtà ricevuto l’assistenza necessaria».

L’INVIATO GIOVANNI BELINGARDI IN AFGHANISTAN. UNA AVVENTURA PERICOLOSA

Insomma, nonostante qualche rassicurazione è subito chiaro come affidarsi ai canali diplomatici non serva a molto soprattutto nel caso di un Paese come l’Afghanistan dove l’oppio costa poco e gli arrivi di «turisti» occidentali sono in realtà motivati dalla volontà di rifornirsi di stupefacenti. Anche l’India è molto frequentata da chi spaccia o consuma droga: nel 1973 su 14 mila italiani che hanno visitato il Paese, tremila sono stati coinvolti in traffici di stupefacenti. Nel solo Maharashtra ventisei italiani sono stati arrestati e una sessantina denunciati. Le pene sono severissime. Nonostante questo la richiesta di viaggi in Oriente è sempre alta e a metà anni Settanta le agenzie turistiche non si fanno cogliere impreparate: sembra incredibile, ma raggiungere Kabul diventa estremamente facile.

In un contesto come questo, nel quale i canali diplomatici sembrano fare ben poco, il Corriere d’Informazione decide di mandare il proprio inviato Giovanni Belingardi in Oriente. E’ lo stesso che ha tirato fuori la storia di «Gigi e Luca» e soprattutto di Paolo, il ragazzo milanese ormai vittima di una tossicomania conclamata. Il viaggio di Belingardi è praticamente al «buio» e si basa sulle sole testimonianze dei due ragazzi tornati di corsa da Kabul. Nessuno, dall’Italia, sembra infatti avere notizie di Paolo, ma le continue richieste di informazioni da parte di tanti genitori angosciati, con un omonimo figlio tossicomane, spingono Belingardi a imbarcarsi in una avventura potenzialmente pericolosa.

E’ il 26 settembre 1974 quando il giornalista atterra all’aeroporto di Kabul. Cinque aeroplani in tutto, di cui due della «Ariana» – la compagnia nazionale afgana – e i restanti tre iraniani. Mentre l’italiano sbriga le solite lunghe e noiose formalità dello sbarco, si avvicina un ragazzo francese che aveva viaggiato da Roma nello stesso aereo diretto alla capitale dell’Afghanistan: «Se sei in cerca della roba, cerca la “via delle galline”», gli spiffera in un attimo. Belingardi non afferra subito e in un primo momento si limita a sorridere quasi con indifferenza. Il francese lo guarda, raccoglie l’unico sacco che si è portato dietro dall’Europa, e lo saluta con un cenno.

Il passo successivo è trovare un tassì: l’unico disponibile sembra essere un vecchio Ford, decorato di rosso e azzurro, che ha passato tempi migliori. Al volante c’è un uomo dall’apparenza fragile: ha il viso scarno e olivastro, vestito di bianco. Sul capo porta un berretto grottescamente occidentale. «I am Masaiher», dice in inglese, e per ribadire meglio il concetto scrive il suo nome su un pezzo di carta. L’afgano si dimostra inaspettatamente un buon cicerone: tra una chiacchiera e l’altra chiede chiaro e tondo se il suo cliente sia venuto in Afghanistan per drogarsi. Belingardi vorrebbe dire di no, ma dice sì. «Masaiher» fa giusto in tempo a schivare un grosso carro a trazione umana: accosta, si volta e offre al giornalista un po’ di roba. Belingardi non ha evidentemente mai visto nulla di simile e appare sorpreso, ma per non destare sospetti decide di assecondare l’intraprendenza del tassista e accetta il regalo.

«CHICKEN STREET». LA VIA DELL’EROINA A KABUL

Mentre tutto questo accade, scorre davanti agli occhi una Kabul splendida. A metà anni Settanta è ancora così, anche se i contrasti sono fortissimi. Da un lato gli esuberanti giardini e i ricchi palazzi governativi, le palazzine degli ambasciatori, dall’altra l’aridità dei campi pieni di polvere e le case di mattoni cotti al sole. Tutto attorno, inesauribile, un brulichio di persone che si affannano nelle attività più varie. Un bambino si avvicina all’italiano e gli offre un grappolo d’uva: l’aspetto è ottimo, ma Belingardi decide di non assaggiare. Qualche attimo prima aveva visto il bimbo lavare l’uva con l’acqua di scolo di casa sua. Un episodio paradigmatico delle insidie che caratterizzeranno questo viaggio.

«Chicken street», la via della droga, si trova al centro di Kabul. Si riconosce facilmente dalle galline chiuse nelle loro gabbie a lato strada. E’ una via ampia e luminosa, ma non di notte perché tutto l’Afghanistan quando cala il sole rimane al buio. Un tempo era conosciuta soprattutto per il commercio: i nomadi scendevano dalle montagne per vendere la propria merce, adesso si vedono soprattutto ragazzi e ragazze. Non tutti coi capelli lunghi, non tutti vestiti malamente. In comune hanno lo sguardo assente, il viso scarno, gli occhi rossi e incavati. Si drogano continuamente, seduti al tavolo dell’alberghetto dove hanno scelto di soggiornare oppure sdraiati sul letto di paglia di una camera affittata per trenta afgani (quattrocento lire circa). Quando muore qualcuno di questi giovani, nessuno se ne spaventa: è una sorta di rito quotidiano.

Il tassista Masaiher segue pedissequamente Belingardi, ma quando capisce che l’italiano non ha intenzione di comprare la droga se ne va subito. Parlare con qualche tossicomane non è difficile, anche se si viene percepiti come estranei. Una ragazza, in particolare, attira l’attenzione di Belingardi: è una italiana di Novara, a Kabul da tre mesi. Dice di chiamarsi Tata e ha il braccio sinistro dilaniato dai buchi. Appare serena. «Mi drogo perché mi piace», dice, «e ormai non potrei farne a meno. Se ho paura di morire? Ogni tanto ci penso, ma non ho paura perché in fondo ho fatto una scelta. I ragazzi muoiono di droga non solo a Kabul, ma anche a Roma, Milano, in tutto il mondo. Qui, almeno, è più bello: ci sono gli splendidi laghi di Band-I-Amir e il vecchio villaggio buddista di Bayman, dove ci si rifugia quando si sta male. Oppure c’è Goa, in India. Se uno di noi capisce che sta morendo, abbandona i suoi compagni, il suo letto, e si allontana. E noi lo lasciamo andare».

L’ULTIMO VIAGGIO VERSO L’INDIA

Quando a Kabul si è messi davvero male, si finisce nell’unico ospedale della città. Non ha un nome: lo si nota facilmente perché è tutto bianco, in mezzo al verde, a due passi dall’università. Belingardi è qui che cerca Paolo, il ragazzo milanese per il quale è partito dall’Italia. Paolo, in ospedale, non si trova. L’ospedale è sporco, l’assistenza pochissima: gli ammalati sono dappertutto, seduti su vecchie sedie, su poltrone sfondate. Alcuni sono perfino abbandonati sulle scale. E sul libro dei ricoverati non c’è nessun «Paolo». L’unica persona che si ferma qualche minuto ad ascoltare Belingardi è una suora. «Sì, c’è stato qui un ragazzo italiano di nome Paolo», dice, «ma è stato dimesso qualche giorno fa. Ovviamente non è guarito. I drogati entrano spesso qua dentro, ma non escono mai guariti. Probabilmente lo troverà in uno degli alberghetti di Kabul». E in effetti Paolo si trova all’Holiday-Inn, nel quartiere di Shar-I-Nau, lo stesso della famosa «Chicken street». E’ seduto su un giaciglio di paglia. Intontito com’è dalla droga è totalmente incapace di capire cosa gli si sta dicendo. Ha un pessimo aspetto: è malato, pallido, con lo sguardo assente. A Belingardi viene raccomandato di non disturbarlo. Segue il consiglio: tornerà il giorno dopo, ma non lo troverà. Paolo è partito alla volta di Goa, in India. «Sì, stava molto male», dice un ragazzo inglese, «e ha detto che voleva morire laggiù». Valdino Franceschinis, il viceconsole italiano in Afghanistan, afferma di conoscere il ragazzo: «E’ stato in ospedale», dice, «e sopravviverà difficilmente. E’ venuto qui per chiedere un visto per l’India. Voleva appunto andare a Goa. E ormai è partito. Di drogati qui ne muoiono tanti. Questa notte è morto un tedesco di 25 anni. Hanno trovato un cadavere sulla strada che porta ai laghi Band-I-Amir».

A Kabul lo chiamano «mullah». E’ una delle poche figure di riferimento per gli italiani e non solo. E’ padre Angelo Panigati: barnabita, 49 anni, originario di Locate Triulzi, da due lustri in Afghanistan. E’ probabile che gli vogliano bene anche i locali, nonostante la rigorosa fede in Maometto. Di sicuro è l’unico prete cattolico in tutto il Paese. E soprattutto è diventato il prete dei drogati. Sa praticamente tutto di loro: cosa fanno, dove acquistano l’eroina, dove vanno a dormire. Sa tutto di loro, ma non può fare nulla per loro. «Vengono da me quando ormai non c’è più nulla da fare», dice, «e parlare con loro, provare a convincerli che la droga uccide, non è possibile. Ci parli, ma non ti capiscono». E ai genitori che cosa viene detto? «A loro nascondiamo la verità. La maggior parte crede che i propri figli siano morti in un incidente stradale». Insomma, non si può proprio far niente per questi ragazzi? «Fino allo scorso anno a Kabul c’era una clinica rieducativa per drogati», dice padre Panigati, «e si chiamava Delaram House. Sa, l’hanno chiusa perché non serviva».