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Lo chiamavano «mal d’India». Gli italiani a Goa sulla via dell’eroina

Redazione Spazio70

Un «male» capace di colpire, a cavallo tra anni Settanta e Ottanta, molti ragazzi di poco più di vent'anni. Chi erano? Spesso ex rivoluzionari, ex cattolici, hippie fuori tempo massimo, emarginati, non garantiti, ma anche figli insofferenti della «buona» borghesia

In pieni anni Ottanta c’è una malattia nell’aria. Non è l’Aids che inizia a manifestarsi nella sua drammaticità anche in Italia, stimolando la creazione di inquietanti campagne pubblicitarie, in un contesto di irresponsabile «stigmatizzazione» dei sieropositivi. Quella che va ad aggiungersi alle nuove emergenze dell’ultimo scorcio di Novecento è più una «patologia dell’anima» capace di indurre decine di migliaia di giovani ad abbandonare l’Europa per raggiungere le spiagge assolate di Goa o cercare rifugio sulle pendici delle «montagne sacre» di Nepal, Tibet e Kashmir.

I media parlavano di «mal d’India». Colpiva molti ragazzi di poco più di vent’anni. Spesso si trattava di ex rivoluzionari, ex cattolici, hippie fuori tempo massimo, emarginati, non garantiti, anche se non mancavano i figli insofferenti dei ricchi borghesi. Alcuni racconti appaiono ancora oggi piuttosto raccapriccianti — quasi sempre in bilico tra abuso di droghe e deliri mistico-religiosi. Istintivamente portati a rifiutare ogni ideologia del mondo moderno — marxismo, capitalismo e soprattutto consumismo — questi ragazzi erano americani ed europei, tra i quali gli italiani rappresentavano una percentuale considerevole. Non pochi, durante la propria esperienza indiana, si sono ammalati e trascinati senza cure: epatite virale, tifo, infezioni di ogni genere contratte dopo l’arrivo in Oriente. Molti ci hanno lasciato la pelle; altri sono tornati indietro. Almeno fisicamente, se non proprio con la testa e con l’anima.

LE TRE «ONDATE» SULLA VIA DELLA DROGA

Un concerto rock a Anjuna Beach, Goa, 1977 (© isratrance/facebook)

Come iniziava questo viaggio lungo la «via della droga»? Per chi non aveva grandi disponibilità, c’era da pagare soltanto la tratta aerea più economica. Una volta giunti a destinazione, era quasi un gioco. Bastava infatti rivendersi pezzo per pezzo tutto quello che si aveva addosso, dai jeans all’orologio. A partire dal 1980, erano già state tre le «ondate» di giovani sulla via dell’India. Se la prima poteva essere considerata quasi come una «conseguenza» del fenomeno Beatles, la seconda — quella della fine degli anni Sessanta — era fatta soprattutto dai cosiddetti «orfani del Sessantotto». La terza era infine quella dei delusi dalla politica, giovani che, in piena crisi dei missili tra Usa e Urss, consideravano l’Oriente come una sorta di grande «rifugio antiatomico» capace di dare riparo a chi scappava dalle nevrosi tipiche del mondo occidentale.

A cavallo tra anni Settanta e Ottanta, soltanto dall’Italia, si conteranno almeno 100 partenze al mese alla volta dell’India. Un flusso costante che porterà il totale a 10 mila, con oltre 3 mila rimpatri soltanto nel 1979. È l’anno della rivoluzione islamica in Iran e dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, due eventi che hanno avuto tra i tanti effetti «collaterali» quello di far arrivare più occidentali a Goa. Nella «enclave» portoghese dell’India l’eccellente qualità della droga disponibile aveva alimentato già da anni un flusso «turistico» capace di allarmare, per le sue proporzioni, le autorità europee e americane — con i consolati presi letteralmente d’assalto dalle richieste di aiuto provenienti da famiglie che avevano perso ogni contatto con i figli.

I «DESAPARECISOS VOLONTARI»

Chi erano questi giovani che sceglievano l’Oriente? Molti di loro, interrogati sul punto, non tentano oggi giustificazioni di carattere ideologico. Nonostante questo, in genere, esisteva una differenza con chi andava in Thailandia per organizzare un traffico di sostanze stupefacenti; nella scelta dell’India, rispetto alla componente criminale, prevaleva quasi sempre una motivazione «ideale» che, a sua volta, si innestava sulla ricerca di una modalità di vita meno individualistica e più «collettiva». Quelle in India, formate da occidentali, magari organizzate attorno a più o meno credibili «guru» locali, erano comunità nella quali non era facile penetrare se non si veniva introdotti da qualcuno che stava già all’interno. I singoli, gli individui, in questi gruppi quasi simili a sette, si riconoscevano, esistevano, soltanto perché stavano insieme. Avevano tutto in comune e uno dipendeva dall’altro. Molti avevano rinunciato al proprio nome — nel quadro di un percorso di fuga dalla propria identità — nel tentativo di trovarne un altro. Chi sentiva la morte arrivare, si recava a piedi, spesso in carovana, ormai senza nome, senza alcun visto, nel Nepal, ai piedi dell’Himalaya in quella che veniva appunto definita «Valle della Morte».

Si trattava di «desaparecidos volontari». Nella sola zona di Goa, tra il 1981 e il 1984, sono scomparsi oltre duecento giovani europei. All’interno della ambasciata italiana di Nuova Delhi e nel consolato di Bombay, alcune pareti erano interamente coperte di foto, in formato tessera, di ragazzi e ragazze dei quali non si erano avute più notizie. In realtà non erano stati inghiottiti nel nulla e non c’erano misteri particolari. Molte di queste «sparizioni», più o meno volontarie, erano state infatti legate al consumo di sostanze stupefacenti.

«GLI ITALIANI IN INDIA? HANNO TUTTI LA MAMMA»

Anjuna Beach, Goa, 1977 (© isratrance/facebook)

Chi è tornato da questi viaggi, compiuti a cavallo tra anni Settanta e Ottanta, afferma di aver fatto i conti con due tipi di dipendenza: in primis, naturalmente, quella dalla droga e poi da un particolare tipo di vita «alla indiana» che molti di questi «sopravvissuti» definiscono «senza problemi, senza pensieri per il futuro, nella quale non è necessario comportarsi come robot». Una vita, insomma, priva di imposizioni e inibizioni, nella quale «è possibile ritrovare la propria storia, quella che in Italia viene negata» e dove «ognuno è libero, anche agli occhi degli altri, di essere quello che è: omosessuale o eterosessuale, drogato o non drogato». In India, dicono questi reduci, «non c’è l’obbligo di essere protagonisti in nessun istante della vita; si può essere al massimo dei coprotagonisti, con tutto il resto» secondo un percorso esistenziale nel quale «se anche si proveniva da una condizione di emarginazione, si poteva ritrovare il diritto a vivere ed esistere». 

Se molti ammettono oggi di essere stati attratti da un certo modus vivendi indiano, non c’è dubbio sul fatto che uno degli argomenti più forti sia stato quello della grande varietà e quantità di droghe secondo qualità e prezzi sostanzialmente sconosciuti in Occidente. La disponibilità di eroina purissima, in particolare, nell’India dei primi anni Ottanta è stata enorme. Sul tema dell’acquisto delle sostanze stupefacenti, le rappresentanze diplomatiche italiane presenti sul posto avevano definito sarcasticamente la situazione con un «hanno tutti la mamma», intendendo con questo i flussi ininterrotti di denaro che per lunghi mesi rappresentavano uno dei pochi canali di comunicazione attivi tra genitori sempre più in pena e figli alle prese con stili di vita «alternativi».

D’altronde dove non arrivavano le famiglie di origine era arrivato lo Stato italiano che, per una volta, mostrava una certa generosità concedendo assistenza legale ed economica ai non pochi che si erano messi nei guai. Alcuni di questi ragazzi erano stati alla fine convinti a tornare a casa. I biglietti di ritorno, graziosamente offerti dalla ambasciata e dai consolati, finivano però nelle mani dei beneficiari soltanto all’interno degli aeroporti, a pochi minuti dalle partenze, onde evitare prevedibili «vendite» a metà prezzo per l’acquisto delle dosi.

Tra coloro che negli anni Ottanta hanno scelto l’India per condurre uno stile di vita alternativo, non sono tanti quelli finiti in prigione per traffico di sostanze stupefacenti. Chi è stato sorpreso in flagranza di reato, se l’è solitamente cavata con un paio di biglietti da cento rupie. I più sfortunati, una volta arrivati davanti ai giudici, hanno avuto per la maggior parte pene miti. Una severità, quella del potere giudiziario indiano, che in quei tempi non tanto lontani ha riguardato altre tipologie di «reati», come per esempio la cessione di vietatissimi strumenti contraccettivi.

A una ragazza tedesca furono inflitte alcune settimane di prigione e una multa di ben 1400 dollari. La sua colpa? Aver ceduto le proprie pillole anticoncezionali a una indiana.