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Michele Di Censo, il vero «Miché» di Fabrizio De André

Matteo Picconi

Dietro la ballata provenzale del primo Faber non ci sarebbe né un delitto d’amore, né probabilmente un suicidio in carcere, bensì un triste caso di femminicidio. Ecco la storia del vero «Miché» e del delitto di Coldirodi

In quasi quarant’anni di carriera, costellata da numerosissimi capolavori, è veramente difficile scegliere una canzone che possa dirsi emblematica, che possa riassumere il valore artistico di Fabrizio De André. Se si prende in considerazione però il periodo che comunemente viene denominato il «primo De André», il lustro che va dal 1961 al 1966, La ballata del Miché riveste sicuramente un ruolo centrale nel suo percorso di artista. In più di un’intervista, è stato lo stesso Faber ad assegnare a questa ballata un’importanza cruciale:

«Questa canzone è del 1961», spiegò al Teatro Valli di Reggio Emilia il 18 febbraio 1993. «È la prima che ho scritto e mi ha salvato la pelle; se non l’avessi scritta, probabilmente, invece di diventare un discreto cantautore, sarei diventato un pessimo penalista».

Fabrizio De André 1961

Un giovane De André nei primi anni Sessanta

La ballata, un valzer squisitamente provenzale, per dirla con le parole di Luigi Viva il «più francese dei pezzi di De André», è un’autentica poesia; determinante è l’influenza del cantautore e poeta occitano Georges Brassens che l’artista genovese scopre proprio in quegli anni. Seppur incisa nel lontano 1961, quando Faber era solo un esordiente, in essa già si riscontrano alcune tematiche che diverranno centrali in molti dei suoi brani successivi, tra le quali la morte, la legge, il carcere e la crudeltà di una chiesa che di «un suicida non ha pietà».

Ma l’elemento cardine di questa sua canzone d’esordio risiede principalmente nel fatto che trae spunto da una storia vera. Un po’ come per la più celebre Canzone di Marinella – ispirata alla tragica morte di Maria Boccuzzi, una prostituta di soli sedici anni, uccisa e ritrovata sulle sponde del fiume Olona, a Milano, nel 1953 – anche la storia del Miché sarebbe stata «addolcita» e rielaborata abilmente da Faber.

Dal 1961 a oggi, tuttavia, è rimasto più di un dubbio circa la veridicità del reale fatto omicidiario dal quale l’artista genovese avrebbe tratto ispirazione. Questa è la spiegazione «ufficiale» fornita dallo stesso De André nel corso di un’intervista allegata alla raccolta postuma Dentro Faber (2011) e risalente ai primi anni Novanta:

«Mi pare che il protagonista si chiamasse, non mi vorrei sbagliare, Michele Aiello. Era un emigrato, proveniente dal sud, a Genova. Era un periodo in cui per rubare un tacchino si pigliavano cinque anni di galera… e di solito un tacchino lo si rubava per mangiare, non lo si rubava per rivenderlo. Questo Michele Aiello aveva fatto qualcosa di peggio: sentendosi emarginato, sentendosi al di fuori della società a cui era approdato, aveva un’unica cosa, aveva una donna a cui appigliarsi… e qualcuno, forse più ricco di lui, aveva tentato di portargliela via. Lui l’aveva ucciso e gli avevano dato vent’anni, da scontare in galera. Era un tipico esemplare di quella “non classe” che si chiamava, e credo tuttora si chiami, sottoproletariato (…). Così è nata questa canzone».

Nasce così la Ballata del Miché. La storia, quella vera, però è molto diversa e inevitabilmente assume altri significati. Di quel Michele Aiello, infatti, non vi è riscontro nelle cronache del tempo, ma il nome e cognome riportati da De André riconducono a un’altra vicenda di «nera», per certi versi molto simile, quella di Michele Di Censo e di sua moglie, Addolorata Aiello, detta Dolores. Questa è la storia dell’uxoricida di Coldirodi, risalente al gennaio del 1955.

L’UXORICIDA DI COLDIRODI

Michele Di Censo, il vero Miché di Fabrizio De André

Michele Di Censo tratto in arresto la sera del 4 gennaio 1955

La vicenda non ebbe luogo a Genova bensì a Coldirodi, un piccolo paese poco distante da Sanremo, in provincia di Imperia. Nell’autunno del 1954 Dolores Aiello, una giovane sartina appena maggiorenne, tornò a vivere nella casa della sua famiglia, di origini abruzzesi. Pochi mesi prima aveva sposato il trentaduenne Michele Di Censo, di professione «lucidatore di pavimenti», anche lui proveniente dalla provincia di Pescara, ma il loro rapporto era diventato fin da subito burrascoso, probabilmente violento, e la ragazza abbandonò il tetto coniugale dopo solo diciotto giorni di convivenza.

Il Di Censo tentò un accomodamento con gli Aiello, appellandosi anche alle autorità locali, ma i genitori della ragazza lo respinsero in più di un’occasione. Il suo risentimento si concentrò principalmente nei confronti della suocera, Bettina Aiello, figura dominante all’interno della famiglia, dapprima favorevole e poi contraria al matrimonio della figlia. Nel ruolo giocato dalla signora Aiello emerge un aspetto, tanto curioso quanto assurdo, che avrà particolare rilevanza in tutta la tragica vicenda. Questo è quanto si legge, cinque anni dopo il delitto, sull’edizione de La Stampa del 17 novembre 1960:

«La madre di Addolorata aveva fede cieca nelle chiromanti; prima di concedere l’assenso alle nozze, ne aveva interpellato una che aveva predetto un matrimonio felice. A nozze concluse si recò da una seconda chiromante e questa le disse che il matrimonio era stato uno sbaglio: “Ma non sapete che vostra figlia è destinata ad un uomo ricco?”. La donna pensò che forse non tutto era perso e cominciò ad insistere perché la figlia abbandonasse il marito. Dolores, di temperamento mite e suggestionabile, finì per accettare il suo consiglio».

Fino a qui le analogie con la ballata di Faber, tutto sommato, reggono: entrambi gli sposi sono emigrati (abruzzesi) e di umili origini; è presente anche quello che figurativamente possiamo definire il «movente», ossia la possibilità che un uomo più ricco si intrometta nella storia di Michele e Dolores. Tuttavia, è nel tragico epilogo che il cantautore genovese avrebbe stravolto la realtà e, quindi, tutto il significato della storia.

Sentendosi ormai abbandonato e «disonorato» dalla sua giovane consorte, il vero Miché si convinse a compiere il gesto estremo. Dopo essere tornato a vivere dalla madre a Sanremo, negli ultimi giorni del 1954 acquistò un coltello e un fucile da caccia; si recò addirittura a Milano per acquistare una parrucca e una barba finta, al fine di raggiungere Coldirodi senza essere riconosciuto. Travestito da cacciatore, il Di Censo si aggirò per giorni nei pressi della casa degli Aiello, sita in via Costa, senza mai passare all’azione, fino a che la notte del 2 gennaio 1955, poco prima della mezzanotte, riuscì a introdursi nella loro abitazione: trovò la porta aperta, in quanto il fratello maggiore di Dolores, Francesco, non era ancora rincasato. La tragedia si consumò nel giro di pochi minuti, rischiando di tramutarsi in strage.

Armato solo di coltello, il giovane abruzzese tentò dapprima di uccidere la suocera Bettina (rimasta incredibilmente illesa), poi ferì il marito Gioacchino e i figli Gabriele e Vincenzo. Ma la furia omicida scattò quando vide la moglie che, dopo una breve colluttazione, cadde a terra trafitta mortalmente da trentasei coltellate.

Dopo una fuga durata appena due giorni il Di Censo si costituì la sera del 4 gennaio. Una foto lo ritrae ammanettato, a bordo della volante dei carabinieri di Sanremo, con un elegante abito blu e l’aria sprezzante e sicura di chi non è pentito del delitto appena commesso:

«Ha confessato tutto con calma», si legge sul Corriere della Sera del 5 gennaio 1955, «e non c’è stato bisogno di sollecitarlo per indurlo a parlare, a spiegare il movente del delitto di domenica notte. “Volevo uccidere mia suocera – ha detto teatralmente – ma non sono pentito di aver fatto fuori mia moglie perché era stata istigata dalla madre a tradirmi” (…)».

Il processo dell’uxoricida di Coldirodi venne celebrato un anno dopo presso la Corte d’Assise di Imperia; per l’omicidio di Dolores Aiello, il tentato omicidio della suocera e il ferimento dei suoi congiunti, il Di Censo fu condannato a trent’anni di reclusione. Si salvò dall’ergastolo, in quanto la Corte gli riconobbe l’attenuante della provocazione (in riferimento alla condotta della suocera) e accettò la tesi che i reati commessi fossero il risultato di un unico disegno criminoso. La stessa attenuante gli valse una riduzione della pena in appello, celebrato a Genova il 28 gennaio 1957: ventitré anni. Il caso finì in Cassazione e, su rinvio della stessa, il 17 novembre 1960 la Corte d’Assise d’appello di Genova stabilì definitivamente la pena a diciassette anni di reclusione.

È l’ultima notizia relativa a Michele Di Censo; di un suo presunto suicidio in carcere non v’è traccia sulle cronache che seguirono.

UNA «VERITÀ STORICA», NON GIORNALISTICA

La Ballata del Miché 1960

La Ballata del Miché scritta da Faber nel 1960

Nel 1960, proprio quando la Corte genovese chiude definitivamente la vicenda giudiziaria del delitto di Coldirodi, Fabrizio De André scrive la sua ballata. Per l’esattezza non la scrive da solo. Nel singolo La Ballata del Miché / La Ballata dell’eroe, pubblicato dalla Karim nel 1961 (che lo ristampa nel 1963), il testo risulta scritto in collaborazione con Clelia Petracchi, mentre le musiche sono a cura del noto compositore genovese Gian Piero Reverberi.

Destino comune di molti parolieri, di Clelia Petracchi non sappiamo molto. A «parlare», fortunatamente, c’è la sua discografia: molto attiva per tutto il decennio dei Sessanta, la Petracchi ha scritto canzoni per Edda Ollari, Anna Identici, Maria Rosa e Wilma Goich. Con il già citato Reverberi, partecipa al progetto musicale beat «I Sagittari», nato a Genova nel 1962.

Del ruolo giocato da Clelia Petracchi nella stesura della Ballata di Miché si legge veramente poco nell’ampia bibliografia riguardante Fabrizio De André. Perfino in quella che viene considerata la biografia più autorevole del cantautore genovese, Non per un dio ma nemmeno per gioco (Feltrinelli, 2000), l’autore e amico di Faber, Luigi Viva, spende incredibilmente poche righe in merito alla collaborazione dei due in quel lontano 1960. De André, dal canto suo, ha sempre parlato della Petracchi come di una «amica» che lo aveva aiutato alla realizzazione del testo finale della ballata; altri, tra cui il giornalista Federico Pistone (nel suo Tutto De André, Lit Edizioni, 2018), la inquadrano come la sua «insegnante di francese».

A chi assegnare, dunque, non tanto la paternità del testo finale, quanto invece, l’intuizione – distorsione iniziale da cui nasce la Ballata del Miché? Nella già citata intervista dei primi anni Novanta, De André insiste nella storia del fantomatico Michele Aiello. Perché? Le risposte potrebbero essere due: Faber conosceva il reale fatto di cronaca, volutamente stravolto nel 1960, e a trent’anni di distanza avrebbe continuato a ometterlo per non «intaccare» il suo primo capolavoro; diversamente, il cantautore forse non era ben al corrente del delitto di Coldirodi, né all’epoca né, a quanto si evince dalle sue dichiarazioni, negli anni successivi. In questa seconda prospettiva, Clelia Petracchi assumerebbe un ruolo decisamente più rilevante rispetto all’allora ventenne De André nella «ideazione» della ballata.

Una possibile conferma, seppur indiretta (e probabilmente non voluta), la fornisce un altro studioso di Faber, lo scrittore Walter Pistarini. Nel suo Fabrizio De André, il libro del mondo (Giunti, 2018), Pistarini evidenzia quella che definisce una «curiosità discografica» che, in qualche modo, mette in dubbio la paternità del testo d’esordio dell’artista genovese:

«La canzone è registrata alla Siae come musica di Fabrizio De André e Clelia Petracchi. Nelle prime stampe del 45 giri però sotto il titolo c’è solo “De André/Petracchi” e non “De André/Petracchi/De André”, come se il testo fosse della sola Petracchi. Nella raccolta “Tutto Fabrizio De André” [1966, ristampato nel 1968, ndr] infatti la dicitura per esteso è: “Testo di Clelia Petracchi, musica di Fabrizio De André”. In alcune stampe successive (RRC, Philips) la Petracchi scompare (De André però non ha voce in capitolo), mentre è presente nelle edizioni Bluebell e nelle seguenti».

Che sia un’opera totalmente «ideata» da De André o, al contrario, che sia farina del sacco della Petracchi, probabilmente non si saprà mai con certezza. La Ballata del Miché resta comunque un capolavoro assoluto e poco importa se il Miché faberiano è molto distante da quel Michele Di Censo. La ballata rappresenta comunque una «verità storica», anche se non supportata da veridicità giornalistica: quanti Michele Aiello, ancora oggi, si tolgono la vita in carcere? Tra i temi centrali della ballata non vi è il presunto delitto d’amore (o d’onore), ma l’intransigenza della legge, la disumanità del carcere, il suicidio e la chiusura della chiesa cattolica. Insomma, c’è già tutto il De André degli anni successivi.

In conclusione, il prodotto finale, il Miché che ancora oggi riesce a commuovere chi ascolta il brano, è a tutti gli effetti una «creatura» di Faber, la prima di tante (e qui non ci sono dubbi) che hanno fatto la storia della canzone italiana d’autore.