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Rapine, droga, prostituzione, usura e case da gioco. La Milano «calibro 38» del 1973

Redazione Spazio70

Nei primi sei mesi del 1973 gli omicidi a Milano sono stati 11, 45 i tentati omicidi, 272 le rapine, 47700 i furti, 270 le truffe, 30 le estorsioni, 55 le denunce per favoreggiamento della prostituzione

Milano, 7 Dicembre 1973. In un bar-pizzeria nella zona Est della città, due uomini bevono silenziosamente al bancone girando le spalle alla porta. Sono da poco passate le 12, quando nel locale entrano altri cinque individui scesi da un paio di Mercedes. «E allora, che cosa beviamo?», fa appena in tempo a dire agli altri quattro uno dei nuovi arrivati, che i due al bancone si girano di scatto e fanno fuoco con dei revolver 38 special. La sparatoria si protrae fuori, in una lunga caccia all’uomo tra le auto in sosta e i passanti terrorizzati, e finisce sul pavimento di un vicino garage dove Salvatore Gambino, detto «il tunisino», boss della malavita corsa e marsigliese, già ferito da cinque proiettili, riceve il colpo di grazia in testa.

L’omicidio Gambino è soltanto l’ultimo di una serie fra gang rivali nella Milano del 1973. Quindici giorni prima, per un faccenda di contrabbando, era stato ucciso a pistolettate, davanti a un bar di Cinisello, il palermitano Onofrio Grasso; prima ancora a perdere la vita era stato Romolo Prati, direttore del night club «Ciao ciao» di via Larga, fuggito nelle Marche per la paura di essere eliminato e puntualmente raggiunto da due killer partiti da Milano.

«TUNISINI», CORSI, MARSIGLIESI E SICILIANI

Salvatore Gambino

Se la stampa evoca assai poco suggestivi paragoni con la Chicago degli anni Trenta, i cittadini meneghini si sentono profondamente inquietati da una ondata di violenza senza precedenti. La polizia, interrogata sul tema, non fa nessuno sforzo per ridimensionare l’allarme. Anzi, forse per stimolare la politica ad agire, parla chiaramente di una situazione sfuggita a ogni controllo. Al Nord, nei primi anni Settanta, oltre alla mala locale, operano bande di criminali capaci di agire con una mentalità imprenditoriale. Li chiamano «tunisini» — perché spesso sono nati a Tunisi da genitori italiani — ma non mancano corsi, marsigliesi e siciliani, mandati al confino proprio a Milano, capaci di avviare rapidamente attività proficue soprattutto nel contrabbando.

La nuova criminalità attiva nel Nord di «romantico» ha ormai ben poco. Si occupa non soltanto di sigarette, ma anche e soprattutto di rapine, droga, prostituzione, usura e case da gioco clandestine. Nei primi sei mesi del 1973 gli omicidi a Milano sono stati 11 (erano stati 10 nei primi sei mesi del 1972), 45 i tentati omicidi (27), 272 le rapine (203), 47700 i furti (41422), 270 le truffe (260), 30 le estorsioni (10), 55 le denunce per favoreggiamento della prostituzione (48). Col rapimento dell’industriale Aldo Cannavale si è inaugurata anche la pratica del sequestro di persona a scopo di ricatto, un reato prima sconosciuto nel Nord.

Gli inquirenti, interrogati sul punto, tendono a escludere l’esistenza di veri e propri racket capaci di spartirsi le varie attività criminali così come l’esistenza di «boss» riconosciuti nei vari settori. «Ognuno fa un po’ di tutto», dicono, anche se la base di partenza è quasi sempre la stessa: la prostituzione. È con questi soldi che i più abili sfruttatori organizzano la loro ascesa nella scala gerarchica del crimine. Prima le rapine e con i proventi delle rapine il contrabbando delle sigarette e infine il passaggio allo spaccio di droga.

LA PRATICA DEL «NOLEGGIO» DELLE ARMI

Tra le varie attività criminali, in voga nella «Capitale morale d’Italia» all’inizio degli anni Settanta, soltanto lo sfruttamento della prostituzione pare essere disciplinato. Un calcolo all’ingrosso fissa in circa 20 mila le «squillo» operanti sulla piazza di Milano per un «fatturato» di circa un miliardo di lire a notte. Se un tempo ogni macrò aveva un preciso pezzo di marciapiede da controllare, con l’inizio del nuovo decennio la gestione del territorio si è fatta più piramidale e capace di ragionare in termini di quartiere. Un aumento del giro d’affari al quale segue un incremento del numero e della gravità dei reati, con una malavita sempre più pronta a sparare sia nei regolamenti di conti interni che nella «dialettica» con le forze dell’ordine.

Su un punto — media, inquirenti e forse anche la stessa criminalità operante a Milano — sono tutti d’accordo: nel Nord, dopo la fine della guerra, non sono mai circolate tante armi come nei primi anni Settanta. Ad avere un certo successo è la pratica del noleggio dei «ferri». Le nuove leve — alimentate da una manovalanza che cerca di farsi largo con colpi sempre più arditi — prendono in affitto le armi per le proprie azioni: se 10 mila lire bastano per una pistola, per un mitra ne occorrono 50 mila. Il reato di detenzione abusiva di armi da fuoco, d’altronde, non fa più paura a nessuno a questi livelli. «Ormai per così poco non va più in galera nessuno, è prevista una semplice contravvenzione», rispondono sconsolati polizia e carabinieri.

«POLIZIA E CARABINIERI? DOVREBBERO TORNARE A INTERROGARE SEMPRE»

Media, inquirenti, semplici cittadini hanno insomma molto chiara una cosa: la situazione dell’ordine pubblico a Milano si è fatta più grave dal 1970. Le forze dell’ordine, poi, lamentano di non poter più interrogare gli indiziati di reato. «Se prima», dicono, «il delinquente parlava sotto lo choc dell’arresto, adesso l’interrogatorio avviene a freddo», molti giorni dopo, di fronte a un magistrato e alla presenza di un difensore. Una tensione, questa, che sembra essere condivisa dagli stessi giudici: «Nella lotta contro la delinquenza», dirà il procuratore generale di Milano Salvatore Paulesu nel discorso d’apertura dell’anno giudiziario 1973, «quest’ultima è stata troppo avvantaggiata».

Da qui il progetto del governo di restituire alla polizia la facoltà di interrogare gli indiziati, limitatamente al reato di sequestro di persona. «Sono perfettamente d’accordo», dichiarerà alla stampa il procuratore capo di Milano Giuseppe Micale. «Ma non ci si dovrebbe limitare ai casi di rapimento: polizia e carabinieri dovrebbero tornare a interrogare sempre». 

Un inasprimento delle norme sul fermo di polizia che verrà perseguito negli anni successivi soprattutto nel tentativo di contrastare l’ascesa della violenza politica