Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
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Cherchez la femme. Cercate la donna. Quando la scrisse nei Moicani di Parigi, Dumas padre mai avrebbe immaginato che quella frase sarebbe uscita dalle pagine del suo libro per trovare posto nei commissariati di polizia e diventare una regola non scritta per scovare i latitanti. Come avvenne alla Sezione Omicidi della Squadra Mobile di Roma nel maggio del 1983. Quando l’allora commissario capo, Nicola Cavaliere, e i suoi uomini si misero sulle tracce di una donna della zona Portuense: Roberta. Vent’anni, estrazione popolare e senza un’occupazione stabile, si diceva fosse l’amante di un criminale poco meno che trentenne, fino a quel momento entrato e uscito dal carcere almeno tre volte in due anni: Maurizio Abbatino.
Contro di lui ad aprile l’allora giudice istruttore del Tribunale di Roma, Guido Catenacci, aveva spiccato tre mandati di cattura. Due per concorso in omicidio volontario – nei confronti di Nicolino Selis e Antonio Leccese (4 febbraio 1981) e di Enrico Proietti (16 marzo 1981) – e uno per concorso in associazione a delinquere finalizzata a reati contro la persona, il patrimonio e altro.
Però quando la polizia si era presentata a casa sua, nel residenziale quartiere dell’AXA, Abbatino, detto Crispino per i folti capelli ricci, non c’era già più. Al pari degli altri sodali con i quali in poco più di cinque anni aveva scalato la malavita capitolina a suon di omicidi, droga, usura e azzardo: Er Negro Franco Giuseppucci, Marcellone Colafigli, l’Operaietto Edoardo Toscano ed Enrico Renatino De Pedis. Esponenti di punta di quella «escrescenza cancerogena» nota come Banda della Magliana, secondo la definizione di un altro poliziotto, poi Questore della Capitale, che la combatté: Rino Monaco. E se Giuseppucci era stato ucciso dal clan dei Proietti a piazza S. Cosimato il 13 settembre 1980, innescando la vendetta della «Banda» che avrebbe portato all’agguato di via Donna Olimpia dove fu arrestato Marcellone, l’Operaietto e Renatino, in quella primavera dove la tecnologia era al neolitico e il terzo canale RAI ancora giovane e sperimentale, erano come Crispino: introvabili.
In un’epoca nella quale le scienze investigative non avevano ancora sacrificato la persona sull’altare della «prova scientifica», alla polizia, per catturare un latitante, non rimaneva che affidarsi a confidenti e segnalazioni per prendere più informazioni possibili sul suo conto. Come abitudini e, soprattutto, frequentazioni. Perché c’erano ottime probabilità che una o più persone a lui vicine lo avessero aiutato a soddisfare le esigenze del quotidiano. Abbatino non sfuggì a questo schema e la Sezione Omicidi venne a sapere che «si serviva di persone incensurate per organizzare la sua clandestinità», come si legge nel Rapporto del 7 maggio 1983.
Fra queste c’era anche la giovane Roberta, che gli procurava cibo e letture. Lo studio dei suoi movimenti iniziò il 2 maggio, quando il maresciallo Ramacciani insieme agli agenti Catania e Pennone la notarono acquistare dei giornali a piazza Fermi, salire su un taxi e dirigersi verso Ponte Marconi. Per non compromettere il pedinamento, i tre lo interruppero e lo ripresero la mattina successiva. Quando la donna ripeté il copione, ma con fare più guardingo. Un atteggiamento che indusse i tre a salire a bordo di un’auto-civetta per scoprire la sua meta. La risposta arrivò dopo circa otto chilometri, al quartiere Laurentino. Dove fu «vista entrare nell’appartamento contrassegnato dal civico **» di via Lampridio Cerva, situato all’interno del complesso residenziale denominato Prato Smeraldo. La scena andò in onda anche il 4 e il 5 maggio, nonostante lei si fosse fatta lasciare ad alcune decine di metri dall’abitazione.
Davanti a così evidenti e ripetuti indizi, che maturarono il forte convincimento che all’interno di quell’abitazione potesse nascondersi proprio il temuto Crispino, il blitz scattò immediato. Alle 5:30 di venerdì 6 maggio, agli ordini di Cavaliere, una nutrita pattuglia della Squadra Mobile coadiuvata dai colleghi della Squadra Volanti circondò l’intero complesso e, soprattutto, la «palazzina dei sospetti». Dove gli agenti fecero irruzione nell’appartamento al piano terra – dotato di porta blindata, ma privo di finestre e nominativo sul citofono – trovando all’interno chi cercavano da settimane: Maurizio Abbatino. Non era solo. E nemmeno in «dolce compagnia». Bensì con A.S., giovane odontotecnico affittuario dell’immobile. Anche per lui scattarono le manette con l’accusa di favoreggiamento.
Sembrava tutto finito, sennonché alla polizia venne «il sospetto che il residence fosse stato prescelto come nascondiglio da altri latitanti affiliati allo stesso clan dell’Abbatino», come scritto nel già citato rapporto. Così Cavaliere dette ordine di ispezionare anche «l’appartamento attiguo», visto che presentava le stesse caratteristiche. Intuito vincente. Perché al suo interno si nascondeva un’altra primula rossa della Banda, raggiunta dagli stessi mandati di cattura di Abbatino: Edoardo Toscano, che si consegnò senza opporre resistenza.
Da immediati accertamenti emerse che i due immobili erano di proprietà di un medico, G.S., che aveva affittato il primo ad A.S. mentre il secondo lo «aveva ceduto informalmente al Toscano […] conosciuto a causa della sua professione e di aver con lo stesso allacciato un rapporto di amicizia, credendolo “una brava persona”». La loro perquisizione fruttò il sequestro di: 4.440.000 di lire in contanti, piccole quantità di hashish, «alcuni contenitori metallici con evidenti tracce di cocaina», agende, appunti e documenti falsi. Estesi ai garage, i controlli portarono anche al fermo di due vetture: una «Volkswagen Golf modello Rabbit» e una «Audi 80».
In un colpo solo, grazie a una strategia investigativa tra le più elementari, la Squadra Mobile aveva quasi azzerato la formazione criminale più pericolosa della Capitale. Rimaneva soltanto un capo a piede libero, Renatino De Pedis, ma non ancora per molto. Lo snidarono con lo stesso modus operandi: pedinamento della sua amante, Sabrina, dal 24 novembre 1984 fino all’arresto di entrambi, due giorni dopo, all’ora di pranzo, a viale Elio Vittorini all’EUR.
Per Abbatino e Toscano la cattura segnò la fine della loro carriera criminale. Furono trasferiti a Regina Coeli, dove l’Operaietto rimase fino al primo processo alla Banda, iniziato nel 1984 e conclusosi due anni più tardi con la sentenza di primo grado del 23 giugno 1986, nella quale fu condannato a vent’anni di carcere nonostante l’accusa avesse chiesto l’ergastolo. Siccome la Corte di Cassazione nel giugno 1988 impose la celebrazione di un nuovo processo di appello alla Banda, a febbraio dell’anno successivo i suoi legali videro accolta l’istanza di scarcerazione. Ma la libertà di Toscano durò poco. Il 16 marzo fu ucciso a Lido di Ostia in un agguato sul quale molto si è romanzato, ma nulla accertato. Perché killer e movente non sono mai stati individuati.
Abbatino invece simulò una serie di problemi di salute per ottenere gli arresti sanitari. E ci riuscì con il trasferimento a Villa Gina, zona EUR, dalla quale evase con le proprie gambe il 16 dicembre 1986 per fuggire in Venezuela. Dove fu catturato nel 1992, quando si tradì con una telefonata a casa per gli auguri di Capodanno. Estradato in Italia, la sua collaborazione con i magistrati contribuì al decollo del definitivo processo alla «Banda» di metà anni Novanta.
E Roberta? Alle 4:45 del mattino di quel lontano 6 maggio, davanti ai suoi occhi e a quelli dei genitori, la Squadra Mobile perquisì anche la sua abitazione. Durò poco ed ebbe esito negativo. Temporaneamente tradotta dietro le sbarre per favoreggiamento, da allora di lei non si sono avute più notizie. Cherchez la femme è una massima senza tempo.