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La Sicilia violenta degli anni Settanta raccontata da un «falco» della polizia

Giacomo Di Stefano

«I metodi duri? Rifarei tutto quello che ho fatto, senza nessun ripensamento, anche se oggi non lo avremmo potuto più fare perché saremmo finiti tutti sotto processo»

Napoli, primi anni Ottanta. Agenti dei «Falchi» arrestano due scippatori (scatto di Francesco Cito)

Napoli, primi anni Ottanta. Agenti dei «Falchi» arrestano due scippatori (scatto di Francesco Cito)

Negli anni Settanta si iniziarono a vedere nelle città italiane – soprattutto del Sud – poliziotti molto particolari. Non avevano la divisa e spesso nemmeno l’impeccabile aplomb poliziesco di un Maurizio Merli. Vestiti in abiti civili, alcuni giovanissimi, erano sempre in moto e non di rado avevano le sembianze di quei criminali che andavano ad arrestare. Ma si trattava uomini al servizio dello Stato, destinati alla lotta contro i crimini di strada. Erano i ragazzi delle squadre antiscippo – anche chiamati «falchi» – uomini descritti dal cinema come coraggiosi al limite del brutale, dai metodi poco ortodossi e temuti dagli stessi criminali. Per sfatare i falsi miti e le caricature cinematografiche, Spazio 70 ha cercato di tratteggiare un ritratto del tipico falco che operava nel Sud degli anni Settanta attraverso chi – un falco – lo è stato davvero. Parliamo di Pino Vono, poliziotto calabrese classe ’53, dal 1973 al 1993 uno dei falchi più noti di Catania. È autore di un libro, «I Falchi nella Catania fuorilegge», purtroppo ormai introvabile, in cui racconta i fatti più significativi del proprio lavoro. A quel libro ne seguirà un altro, in uscita tra il 2021 e il 2022.

Chi era, dal punto di vista sociale e umano, il tipico «falco» degli anni Settanta? Un giovane del Sud in cerca di un riscatto sociale?

«Era un periodo in cui tanti giovani erano in cerca di una sistemazione. Il mio caso è un po’ differente, visto che i miei genitori si erano trasferiti dalla Calabria alla provincia di Varese e la mia prima occupazione, a 16 anni, fu quella di operaio in fabbrica. La scelta di arruolarmi non è stata economica, visto che in fabbrica guadagnavo 100mila lire in più» (ride, ndr)

Allora da cosa fu motivata quella scelta?

«Non una passione per la polizia in sé, ma per la maggiore libertà che avrei avuto con quel lavoro. Come tanti ragazzi, sono arrivato a fare il poliziotto intorno ai 18-19 anni e umanamente siamo cresciuti assieme alla nostra professione, dal reparto mobile, alla volante, alla squadra mobile, fino ai falchi. Quindi c’era l’adrenalina, la moto ed era un lavoro dinamico. Poi, progressivamente, ci siamo accorti delle difficoltà e dei rischi di questo lavoro, dove non avevamo a che fare solo con il ladruncolo, ma anche con omicidi e con criminali di grosso calibro. Pensi che in varie occasioni abbiamo salvato alcuni criminali dal colpo di grazia che stava per essergli inflitto dai suoi killer»

Com’era il tessuto sociale e criminale della Catania degli anni Settanta e Ottanta?

«Nel dopoguerra Catania era una città ricca, con un incremento industriale significativo e tanti posti di lavoro. Era considerata la Milano del Sud. Negli anni Settanta, gli omicidi e le faide fecero emigrare tanti cittadini e iniziò ad avere le sembianze di una Chicago del Sud. Dai piccoli accoltellamenti e dalle gambizzazioni si passò agli omicidi e alle rivolte in carcere. Contavamo tra i settanta ai cento omicidi all’anno»

Lei è calabrese ed era operativo a Catania. Quant’era importante, all’epoca, non far parte della gioventù catanese per fare meglio il proprio lavoro?

«Questa domanda mi fa tornare alla mente l’impostazione del nostro gruppo. All’epoca era guidata da una persona molto valida, il capitano Valerio Donnini, che aveva dato una regola chiara: nessun catanese in squadra. Non c’era nessuna discriminazione, ma solo la convinzione che coinvolgere persone senza un legame con il territorio fosse la cosa migliore. Dopo un po’ di anni sono iniziati a entrare un po’ di catanesi, e il qualche macello c’è stato» (ride)

Esisteva un problema di infiltrazione criminale all’interno dei falchi negli anni in cui lei è stato operativo?

«Le infiltrazioni ci sono state, inutile negarlo, Quella mia sui catanesi era solo una battuta, purtroppo diversi ragazzi si sono avvicinati alla criminalità e per noi è stato un colpo duro. Quello che all’inizio è sembrato un gioco, poi si è trasformato in un lavoro molto duro. Molti colleghi hanno pagato questo clima pesante subendo attentati da parte della malavita, altri hanno avuto problemi giudiziari per i propri metodi di lavoro»

Napoli, 1976. I «Falchi» della Polizia di Stato. Al centro si riconoscono il Capo della Mobile Dott. Giuseppe Vecchi, il Dott. Vincenzo Ippolito e il Maresciallo Andrea Mormile (con gli occhiali scuri). Lo stesso Mormile verrà ucciso dalla camorra il 3 settembre 1982 mentre, fuori servizio, si trovava in compagnia di alcuni amici in un bar di Frattaminore. Gli arresti portati a termine da Mormile avevano infatti creato molti problemi ad alcuni boss in ascesa legati alla cosiddetta «Nuova camorra organizzata» di Raffaele Cutolo. La foto è presente nel libro «Ragazzi con la pistola», scritto dal giornalista Giancarlo Maria Palombi (figlio di Luciano, il secondo in alto a destra nella foto). Grazie alla pagina Falchi Napoli Fans Club

Napoli, 1976. I «Falchi» della Polizia di Stato. Al centro si riconoscono il Capo della Mobile Dott. Giuseppe Vecchi, il Dott. Vincenzo Ippolito e il Maresciallo Andrea Mormile (con gli occhiali scuri). Lo stesso Mormile verrà ucciso dalla camorra il 3 settembre 1982 mentre, fuori servizio, si trovava in compagnia di alcuni amici in un bar di Frattaminore. Gli arresti portati a termine da Mormile avevano infatti creato molti problemi ad alcuni boss in ascesa legati alla cosiddetta «Nuova camorra organizzata» di Raffaele Cutolo. La foto è presente nel libro «Ragazzi con la pistola», scritto dal giornalista Giancarlo Maria Palombi (figlio di Luciano, il secondo in alto a destra nella foto). Grazie alla pagina Falchi Napoli Fans Club

Ci sono dei metodi, particolarmente duri, che lei ha disapprovato?

«Io rifarei tutto quello che ho fatto, senza nessun ripensamento, anche se oggi non lo avremmo potuto più fare perché saremmo finiti tutti sotto processo. Bisogna sempre capire quello che avevamo di fronte e come la malavita si comportava nei nostri riguardi. Pensi che quando arrivai a Catania, nel 1973, in zone come Picanello o San Cristoforo non si poteva entrare. Quando entrava una volante spesso veniva aggredita, si figuri cosa poteva accadere se due ragazzi, sbarbatelli e in motocicletta, fermavano un personaggio di un certo spessore. Nel tempo, con i metodi poco ortodossi, siamo riusciti a farci rispettare maggiormente»

Qualche episodio significativo?

«Entravi in un bar con l’intenzione di prendere un caffè e la gente tirava fuori il documento»

Quindi si era creata a Catania una sorta di psicosi da falco, chiamiamola così. Ovvero cittadini comuni scambiati per falchi?

«Lo scambio era costante ed erano considerati falchi anche poliziotti o carabinieri in borghese, che falchi non erano. Il vero pericolo era non riuscire a individuare un carabiniere in borghese ed è successo qualche malinteso al limite del dramma. Diciamo solo che qualche colpo di pistola è partito, per fortuna senza conseguenze tragiche»

Lei ha dichiarato che chi amministrava la polizia a Catania negli anni Settanta non raccontava ai sottoposti la reale presenza della mafia in città.

«Non ho mai fatto difficoltà ad ammetterlo, anche perché a parlare è la storia. Fino al 1982, quando il generale Dalla Chiesa iniziò a fare connessioni tra il mondo palermitano e quello catanese, nessuno parlava di mafia a Catania: né le istituzioni, né la politica o la magistratura. Di fronte a cento morti si continuava a parlare di criminalità comune. Noi falchi abbiamo dovuto apprendere alcune dinamiche per contrastare la mafia da soli, sulla strada e purtroppo in grave ritardo»

Come mai?

«Evidentemente era una situazione che faceva comodo a molti»

Voi non ve ne eravate accorti autonomamente, essendo operativi sul campo ogni giorno?

«Certo, ma non dimentichi quello che le ho detto. Solo crescendo, maturando, da soli, abbiamo avuto il polso della situazione. Il problema è che come crescevamo noi, aumentavano le proporzioni del nemico da combattere. A me non impedivano di richiedere un’intercettazione, il problema è che spesso la corruzione arrivava prima dell’ascolto telefonico. Sulla strada non ho avuto alcun impedimento, sul piano delle indagini, soprattutto su quelle di un certo livello, il discorso era differente»

Qual è l’operazione più rischiosa a cui ha partecipato?

«A una domanda del genere ho difficoltà a rispondere. Anche fermare un semplice rapinatore è stato complesso e rischioso. Una volta eravamo in quattro e ci siamo trovati davanti tredici rapinatori. Dopo una sparatoria ne abbiamo presi sei, per dire. Per non parlare degli inseguimenti in moto, in cui si rischiavano continuamente incidenti pericolosi, vista la velocità a cui si andava»

Ci sono dei miti da sfatare sui falchi? Per esempio, il cinema – penso a Tomas Milian – vi ha dato popolarità o ha finito per creare uno stereotipo che sul lungo periodo vi ha danneggiato?

«Non credo che il cinema ci abbia danneggiato. Certo, il personaggio di Tomas Milian era una macchietta, ma la rappresentazione cinematografica di per sé non ha creato un danno»

In base alla sua esperienza conferma che il vero boss mafioso è prudente e non si espone mentre il giovane criminale è più esuberante e si espone maggiormente a un eventuale arresto?

«Dipende. Ho conosciuto figure di spessore come Laudano, gente di un certo livello che si sapeva comportare, ma ogni situazione è a sé. Ho conosciuto criminali venticinquenni eleganti e a modo, mentre ho arrestato mafiosi anziani arroganti e poco intelligenti»

Un esempio?

«Il fratello di Nitto Santapaola. Aveva oltre sessant’anni e di fronte a suo figlio piccolo si atteggiava come se fosse un mafiosetto da quattro soldi, non un uomo d’onore»