Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
Il sito comprende sei aree tematiche e ben ventidue sottocategorie con centinaia di pezzi su anni di piombo, strategia della tensione, vicende e personaggi più o meno misconosciuti di un’epoca soltanto apparentemente lontana. Per rinfrescare la memoria di chi c’era e far capire a chi era troppo giovane o non era ancora nato.
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Dicembre 1969: alla vigilia del «Decennio per il disarmo» (1970-80) proclamato dall’ONU, le esportazioni di sistemi d’arma italiani registrano un valore globale di 80 miliardi di lire. Dicembre 1976: a decennio avanzato, le stesse esportazioni raggiungono la vetta di 750 miliardi. L’Italia è il quarto dei grandi «mercanti d’armi» mondiali, dopo Stati Uniti, URSS, e Francia. Ma il boom dei trafficanti, parallelo alla crisi economica degli anni ’70, non esaurisce ancora la sua carica. Nel ’78 il volume delle nostre esportazioni di massimi sistemi d’arma, soltanto nei paesi del Terzo Mondo, arriva a 621 milioni di dollari, contro i 17 del 1939, quando l’industria bellica italiana muoveva i suoi primi passi.
E proprio il Terzo Mondo è il cliente privilegiato per l’Italia: in testa c’è la Libia, tradizionale partner commerciale che bilancia le sue entrate petrolifere con il massiccio aumento delle importazioni belliche, seguono l’Iran (quello del «Trono del pavone»), Marocco, Sudafrica, Arabia Saudita, Siria, Dubai, Zaire, Venezuela e altri ancora.
Il flusso continuo di materiale bellico (navi, elicotteri, armi leggere, sistemi elettronici) attraversa senza troppa fatica il filtro dei vari embarghi decretati dall’ONU nei confronti di paesi fascisti, razzisti o coinvolti in tensioni internazionali. Grazie ad un sistema di autorizzazioni ampiamente inquinato dalla presenza di «controllori» direttamente impegnati nella gestione delle industrie della guerra. Nel Comitato interministeriale composto da rappresentanti del ministero degli Esteri, Difesa, Industria, Commercio, Finanza e Interni, più un rappresentante dei servizi segreti, che rilascia il «nulla osta» per le esportazioni, sono ammessi infatti generali in pensione e amministratori di società a produzione bellica, come l’ing. De Martino e l’ex generale Michele Correra, entrambi dirigenti della ditta Selenia di Roma.
Ma la strategia italiana di esportazione verso i paesi del Terzo Mondo risponde a un preciso disegno. Le sue tappe non sono casuali. Nel giugno ’76 gli Stati Uniti varano una legge che istituisce un tetto per le esportazioni di armi e rigidi controlli da parte del Congresso. Due anni più tardi, nel settembre ’78, il ministro della Difesa Ruffini firma insieme al collega statunitense Brown un «Memorandum d’intesa» che sancisce una maggiore integrazione fra l’industria bellica americana e quella italiana, «delegando» in larga misura all’Italia le esportazioni difficili nell’area del Terzo Mondo.
La mossa di Washington (giocata anche su altri fronti europei) permette in altre parole di «legare» le industrie dei paesi della Comunità assicurandosi nello stesso tempo il controllo delle forniture di armi nelle zone calde. Una strategia che non tarda a decollare: il primo febbraio del ’79, per fare un esempio, il Dipartimento di Stato americano spedisce una lettera alla Italian Aircraft Corporation di Arlington (Virginia) che autorizza le «Costruzioni Aeronautiche Giovanni Agusta» di Milano a fornire elicotteri al Marocco, costruiti su licenza della Boeing. Si tratta di «armi difensive» contro gli attacchi del fronte Polisario.
Il piano USA, inoltre, prevede forniture di armamenti sofisticati, ma non troppo. Non a caso nel 1975 è venuto alla luce che undici aerei C119 radiati dall’Aeronautica militare italiana sono stati messi a nuovo dalla ditta Siai-Marchetti e rivenduti al Marocco.
Ma come controllare, nei limiti del possibile, le industrie europee? Un caso esemplare è costituito proprio dall’Agusta. L’industria aeronautica, che ha goduto di rapporti privilegiati con il regime di Rheza Palhevi, attraverso esportazioni regolari, un probabile accordo di produzione su licenza e il possesso (secondo l’Istituto Affari Internazionali) del 49 % della società iraniana per la revisione degli elicotteri, e ha notevoli interessi anche in Marocco, dove ha venduto tra il ’74 e il 76 oltre trenta esemplari di elicotteri medi del tipo AB 205, AB 206 e AB 212, si è messa al riparo da qualsiasi controllo del Parlamento e dello stesso governo italiano, benché il principale proprietario delle azioni sia proprio lo Stato.
E lo ha fatto servendosi della costituzione di organizzazioni terze, a carattere internazionale e con sedi all’estero, alle quali delega le attività più redditizie (o compromettenti?) e quelle di assistenza nei confronti di paesi come il Marocco e l’Iran di Palhevi.
Questo è lo schema della partita: nell’aprile del ’77 la ditta di Varese fonda, con lo scopo di eludere un futuro (ipotetico) controllo del Parlamento, la «Agusta International», con sede a Bruxelles. La proprietà dell’International è per il 51% del gruppo statale EFIM, e par il 49% dell’Agusta. L’impresa di Bruxelles delega a sua volta alla E.H.E. (European Helycopter Establishment, ditta controllata da Corrado Agusta, con amministrazione a Lugano e il 95% del personale americano) il compito,
redditizio perché continua nel tempo, della manutenzione dei velivoli venduti, attraverso specialisti — probabilmente della Bell americana, ormai integrata con l’Agusta — inviati nei principali paesi committenti, in particolare Iran, Libia e Arabia Saudita.
Questa tecnica, oltre a sottrarre l’attività complessiva dell’Agusta dalla possibilità di un controllo reale, mette anche un’industria a partecipazione statale nelle condizioni di servirsi (attraverso l’E.H.E.) soltanto di personale americano, per giunta con retribuzioni altissime (2.500/3.000 dollari mensili).
Il che non ai può dire che favorisca l’occupazione nel nostro paese.