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Nastro con le sevizie, atto secondo. Non previsto e nemmeno gradito, ma doveroso. Perché esercizio di tutela nei confronti del pubblico a essere correttamente informato. Mentre ci si avvicina al quarantennale della scomparsa di Emanuela Orlandi, le notizie infondate o confusionarie sul suo conto rifioriscono come la mimosa durante l’inverno. E così, tra codici da lettino dello psichiatra più che da “Settimana Enigmistica”, e memoriali turchi di nome e di fatto, ritorna un evergreen di questo caos informativo: l’audio con le sevizie. A giugno 2022 vi avevamo rivelato l’esistenza della sua versione con le voci maschili, peraltro già anticipata nella nostra diretta streaming del luglio 2020, ponendo fine ad anni di fantasie che la volevano occultata in favore di una copia priva di esse. Tutto ciò in nome di un presunto complotto capace di impedire l’identificazione di quegli individui e l’accertamento delle loro responsabilità nella sorte della povera Emanuela. Acclarata invece la presenza dell’audiocassetta nelle sue sedi naturali – Archivio della Procura e Tribunale di Roma – dove invece non risulta presente la versione con le voci cancellate (di cui nessuno finora ha spiegato la provenienza), sembrava finalmente sopraggiunta la pace sul reperto.
E invece no. Perché sempre dal mainstream televisivo, stavolta “Quarto Grado” (l’altra volta fu “Chi l’ha visto?”), è arrivata una nuova ipotesi: il nastro a noi noto sarebbe la versione ridotta di uno più lungo, nel quale le voci maschili si sentono nitidamente e non in maniera impercettibile, che però è stato fatto sparire e a sua volta sarebbe la replica di un’altra ipotetica audiocassetta, annunciata il 14 luglio 1983 e mai recuperata perché sottratta da due funzionari del Vaticano.
La teoria, di per sé molto contorta e adombrante grandi regie occulte, è nata dalle parole dell’ex agente della Digos, Antonio Asciore, che in un servizio del programma di Rete4 ha raccontato come il 17 luglio 1983 fu chiamato «per andare all’Ansa a ritirare un plico». Era l’ormai famigerato nastro, al quale attribuisce una durata di «otto-dieci minuti», nei quali ricorda che «qualcuno diceva cose, che la (Emanuela, ndg) doveva finire di lamentarsi e poi si sentiva come qualcun altro che la torturasse. Dall’inizio alla fine, si sentivano spesso, non una volta e poi basta». E dopo aver ascoltato l’audio — da noi pubblicato inedito nel giugno 2022 — ha rincarato la dose: «Non è la stessa cosa, perché era molto più chiara e poi si sentiva questa voce maschile che urlava. Ma qui non ce sta niente, qua ci sta solo il lamento della ragazza». Quindi spazio alla grande accusa — «Questi rumori probabilmente sono stati messi da qualcuno per nascondere forse le voci riconoscibili degli uomini. […] Non è rovinato dall’età, dagli anni, ma volutamente da qualcuno, è stata tagliata qualche cosa, sicuramente…» — ma senza nomi e ragione: «Mo’, chi è stato e perché…». Una versione ribadita anche negli studi della trasmissione dove, rispondendo alle domande, ha aggiunto che: le voci maschili «urlavano contro la ragazza con delle minacce più che parolacce»; la voce della ragazza era di Emanuela perché «confermata dal fratello Pietro. E anche dal papà pochi giorni dopo»; all’epoca la cassetta andò «la mattina dopo nelle mani del funzionario addetto alle indagini» perché quella sera lui era a casa, tanto che lo raggiunsero al telefono e disse: «Sì, potete ascoltarla. Domani mattina me la vedo io, la mando in procura».
Il verbale Digos del 17 luglio 1983 sul ritrovamento del nastro in via della Dataria. L’atto reca anche le sommarie informazioni testimoniali del redattore Ansa Giovanni De Paolis
Un racconto suggestivo e inquietante, come altri degli ultimi anni della vicenda Orlandi. E come essi, privo di riscontri e contaminato da numerosi e pesanti errori. Premessa la stagionatura delle dichiarazioni dell’ex agente, da lui già esternate nel documentario “Emanuela Orlandi: il caso è aperto” andato in onda nel 2019, la sua ricostruzione non trova nessuna corrispondenza nella documentazione giudiziaria sulla scomparsa della cittadina vaticana. Anzi, proprio da essa si comprende come il nastro recuperato in quell’afosa domenica di luglio di quarant’anni fa sia l’originale.
La Squadra Mobile lo acquisì nella sede dell’Ansa alle 23 del 17 luglio 1983 dal cronista Giovanni De Paolis, che nel verbale di sequestro, qui pubblicato inedito, affermò: «Verso le ore 22:35 arrivava una telefonata sul filo diretto della cronaca, ed una voce di uomo giovane, senza inflessioni dialettali e in perfetto italiano, mi riferiva che una cassetta avvolta in un manifesto era stata da lui lasciata sulla scala di via della Dataria, sul lato sinistro». Cioè a due passi dall’agenzia. Dove le forze dell’ordine procedettero «al sequestro del nastro con relativa custodia». E a questo punto colpisce l’assenza di Asciore tra i firmatari di quel documento. Perché, oltre a De Paolis, per la P.G. c’è il nome dell’allora brigadiere Pasquale Viglione. Che significa? Che Asciore non era solo quando andò a ritirare quel nastro? Per saperne di più su questo e sui punti che seguiranno, lo abbiamo contattato venerdì 10 febbraio. Ma non ci ha mai risposto.
Il verbale, datato 18 luglio 1983, di Mario Meneguzzi, zio di Emanuela Orlandi, redatto dalla Sezione Omicidi della Squadra Mobile e firmato da Nicola Cavaliere
Ritorniamo al nastro. Che cosa conteneva? Una prima risposta arriva dal verbale (anche questo pubblicato da noi per la prima volta) di Mario Meneguzzi, zio di Emanuela, redatto dalla Sezione Omicidi della Squadra Mobile e firmato dal suo dirigente, Nicola Cavaliere, alle 2 del mattino del 18 luglio. Cioè tre ore dopo l’acquisizione di quella cassetta da sessanta minuti, «su cui sono registrate due voci, una maschile e una femminile». Già queste poche informazioni fanno crollare il castello verbale di Asciore. Perché dimostrano che:
1) Fu lo zio, e non il fratello di Emanuela, a effettuare il riconoscimento della voce femminile;
2) La cassetta finì nelle mani del dirigente delle indagini (il dottor Cavaliere) la sera stessa del ritrovamento e non la mattina dopo, al punto che l’ascoltò subito insieme allo zio della giovane;
3) Se insieme alla voce femminile vi fossero state anche voci maschili che urlavano minacce, sarebbero state udite e menzionate nell’atto. Dove invece Meneguzzi fu certo che la voce maschile del lato A, lettrice di un comunicato rivendicante il presunto sequestro della nipote e la sua liberazione soltanto in cambio di quella di Alì Agca, non fosse «la stessa persona che solitamente ha mantenuto i contatti con la nostra famiglia» (l’Amerikano, ndg). Ma soprattutto fu sicuro sulla voce femminile incisa sul lato B: «Si tratta della mia nipote Emanuela Orlandi. Infatti, nella frase “BASTA MI LASCI DORMIRE” credo di riconoscerla almeno al 90%».
Per cui, se ipotizzassimo anche per un attimo l’esistenza del nastro «lungo» e applicassimo la logica indispensabile per comprendere la realtà, che significherebbero le dichiarazioni dello zio? Che avrebbe omesso le voci maschili? Se così fosse, avrebbe quindi ricevuto la collaborazione di chi le ascoltò con lui? Aberrazioni sulle quali meglio soprassedere. Ma non solo. Sempre secondo questa prospettiva, Meneguzzi avrebbe mentito anche ai giornali. «”Mi lasci dormire, per favore…” è sicuramente pronunciata da Emanuela. Queste sono le uniche parole chiare che ho potuto ascoltare e non ho dubbi in proposito, è proprio la sua voce. […]» dichiarò a “Il Tempo” in un articolo del collega Gianni Sarrocco uscito il 19 luglio 1983. Nel quale aggiunse come «le implorazioni potrebbero essere state inserite ad arte per intimorire noi parenti e per indurre persone esterne al nostro nucleo familiare a sottostare alle richieste dei rapitori» e come la polizia non escludesse che la registrazione fosse «il risultato di un collage di incisioni». Un’ipotesi in linea con le osservazioni attribuite dal SISDe al dottor Cavaliere per quanto riguarda le voci maschili avvertite durante quei lamenti: «Non esclude possano essere delle sovraincisioni avvenute durante la trascrizione delle copie magnetofoniche». Valutazioni che incontrerebbero quelle formulate dal perito Marco Perino sempre a “Quarto Grado”, in relazione a possibili tagli al nastro. Ma se questo fosse un collage di suoni differenti, tipo un film a luci rosse (come si disse all’epoca), e considerando la rudimentale tecnologia di quegli anni, ci sarebbe da stupirsi?
L’assenza di riscontri per tabulas alla versione dell’ex uomo Digos è confermata anche dal rapporto della Sezione Omicidi della Squadra Mobile del 18 luglio 1983, che sintetizzò quanto fin qui esposto: «Su una parte del detto nastro è inciso un lungo delirante (da notare l’aggettivo, ndg) messaggio, letto da persona di sesso maschile, con forte accento straniero, nel quale si rinnova la richiesta di liberazione dell’attentatore del Papa […] Dall’altra parte della cassetta risultano incisi lamenti femminili ed alcune parole. In queste, Meneguzzi Mario, a cui è stato fatto ascoltare il nastro, ha creduto di riconoscere effettivamente la voce della nipote». Il documento fu classificato come “N. 500/Sq. Mob. – Sez. Omic. – Cat. Q.1/1”. Lo stesso numero al quale rimandano la custodia del nastro con le voci maschili della Procura, che vi abbiamo mostrato lo scorso giugno, e il rapporto con l’analisi della Polizia Scientifica su quei lamenti, riportata come “registrazione del 17/7/83, ore 22:35”. Cioè quella rinvenuta dall’Ansa, la cui disamina terminò con un nastro fermo a «giri 43». Sulla custodia invece c’è scritto «55». Non sappiamo se la differenza dipendesse dal tipo di registratore col quale erano ascoltati, quel che è certo è che si tratta di numeri bassi per minutaggi altrettanto minimi. A proposito di tempi: né sulle cronache dell’epoca, tanto più nella documentazione giudiziaria, si trova scritto che quel nastro duri tra gli otto e i dieci minuti. Dunque, come si fa a sostenerlo?
Alla luce anche di quest’ennesima mancanza di fondamenta alla versione dell’agente Asciore, sorge la domanda: su quali basi poggia? Lui si è affidato ai suoi ricordi. Che però, dopo quaranta anni (trentasei nel documentario), possono essere inevitabilmente confusi. Anche perché qualora quel nastro fosse esistito, a questo punto che cosa si dovrebbe supporre? Che tra le 23:00 del 17 luglio 1983 e le 01:00 del 18 luglio (ultimo orario possibile per l’inizio del suo ascolto, visto che la durata del comunicato è di venti minuti – seguono dieci di silenzio – e che il verbale fu chiuso alle 02:00), uno spirito maligno si infiltrò nelle stanze della Mobile e lo sostituì con la versione agli atti? O che invece l’artificioso avvicendamento fu opera delle leste “manine” di qualche anima nera (ovviamente appartenente ai Servizi)? Il tutto, tra l’altro, senza che nessun elemento della Mobile se ne accorgesse e obiettasse qualcosa? Al di là della natura calunniante di simili insinuazioni, soltanto immaginarle meriterebbe un approfondimento medico. Anche per gli stessi depistatori, che si sarebbero spesi in una fatica stupida e inutile. Perché quando si vuole nascondere un indizio o una prova, si occultano in toto. Fino a eliminarli, se necessario. Di certo, non si mantengono disponibili e in versione ridotta. Una soluzione buona giusto per correre un rischio ben preciso: essere scoperti.
Passiamo ora al nastro occultato dai funzionari del Vaticano. Nella telefonata all’Ansa l’anonimo parlatore disse che il nastro a via della Dataria era la riproduzione di quello lasciato tre giorni prima sotto al colonnato del Bernini, in direzione della finestra da dove il Papa si affacciava per l’Angelus, ma che due funzionari del Vaticano avrebbero prelevato prima del ritiro. La notizia di questo ipotetico reperto era arrivata con una telefonata a casa di un’amica di Emanuela, Carla De Blasio, verso le 19:15 del 14 luglio. La ragazza non c’era, rispose la mamma, la signora Maria Antonia Sgrò, che riferì il contenuto della conversazione all’Ansa, come richiesto dal telefonista (voce italiana, giovanile e senza inflessioni dialettali), e alla famiglia di Emanuela per sua iniziativa. Un discreto numero di persone marciò sotto il colonnato, ma non trovò niente. Sennonché: quel nastro ci fu davvero? E fu davvero arpionato in anticipo da uomini del Vaticano? Secondo Mario Meneguzzi, niente affatto. Al punto da metterlo a verbale la notte stessa nella quale aveva riconosciuto la voce della nipote nell’audio dei lamenti: “Non mi risulta che funzionari del Vaticano si siano appropriati di un nastro rinvenuto in mezzo alle colonne di S. Pietro, a seguito di telefonata della signora Sgrò, vedova De Blasio”. A questo punto, tre i casi per lo zio di Emanuela: o non vedeva quello che gli succedeva sotto gli occhi; o mentì al dottor Cavaliere; oppure raccontò la verità e i funzionari del Vaticano non presero mai nulla.
Eventualità, quest’ultima, che fa da prologo per un’altra considerazione, mai fatta in tutti questi anni. Siamo certi che il nastro annunciato alla mamma di Carla De Blasio sia mai esistito? Visto che le telefonate di quei giorni altro non furono che tasselli del grande depistaggio sulla scomparsa di Emanuela incominciato il precedente 25 giugno con l’entrata in scena del telefonista “Pierluigi”, mancando la prova di quell’elemento all’ombra del colonnato, chi esclude che quella telefonata non fosse stata una simulazione per vedere la reazione di inquirenti e famigliari davanti a un oggetto lasciato in un posto così sensibile per posizione e significato? Nel 1983 erano trascorsi appena cinque anni dal “caso Moro”, contaminato dal falso comunicato 7 delle Brigate Rosse, annunciante il ritrovamento del corpo del Presidente della DC nel lago della Duchessa. Un depistaggio per verificare la reazione dell’opinione pubblica davanti alla notizia della fine del politico più importante dell’Italia di allora. Per il caso Orlandi invece uno stratagemma simile alzò ancor di più la tensione in previsione dell’imminente ultimatum del 20 luglio 1983, fissato dai sedicenti rapitori come scadenza per la liberazione di Alì Agca in cambio di quella di Emanuela. Il turco rimase in prigione, ma il corpo della giovane non fu restituito. Né quel giorno, né mai. A ulteriore riprova di come quella trattativa non fosse altro che macabra teatralità.
Quarant’anni dopo, ai depistaggi bisogna però smettere di dare credito. Come alle suggestioni e ai complotti d’argilla. Soprattutto in diretta tv, mossa per niente lungimirante. Perché se davvero il nastro del colonnato fosse nascosto da qualche parte, parlarne in pubblico è stato un assist a porta vuota per i suoi eventuali possessori. Che non aspetteranno certo l’eventuale costituzione di una commissione parlamentare di inchiesta per consegnarlo, ma lo faranno sparire prima. Sempre che non l’abbiano già fatto.