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Caetano Veloso, Clarice Lispector e «gli altri» negli anni della dittatura militare in Brasile

Michele Riccardi Dal Soglio

Nonostante la censura, il caso brasiliano sorprende per la sua unicità se lo si compara con le realtà dei Paesi confinanti dove ogni espressione culturale e artistica non perfettamente allineata viene considerata semplicemente impossibile

Quando nell’immaginario collettivo europeo e italiano si affronta il discorso delle dittature latinoamericane del secolo scorso, il pensiero inevitabilmente corre alle dittature sorte con i colpi di Stato del Cile del 1973 e dell’Argentina del 1976, con il loro terribile costo in termini di vite umane e violazioni dei diritti civili e umani. Si tende spesso invece a dimenticare che uno dei regimi militari più duraturi è stato quello del Brasile, instaurato con il colpo di Stato che il 1 aprile del 1964 rovescia il presidente Joao Goulart, terminato solamente nel 1985. Quella brasiliana diventerà di fatto una delle dittature più longeve in quest’area, subito dopo quella di Fidel Castro a Cuba e quella di Alfredo Stroessner in Paraguay.

Da alcuni quello del Brasile è considerato il primo golpe “moderno” del Sudamerica, intendendo in tal senso il primo rovesciamento maturato all’interno dell’allargamento della lotta al “pericolo socialista” all’interno dello scenario della Guerra Fredda. Tuttavia, diversamente dai casi di Cile e Argentina, il Brasile, nel ventennio della dittatura, conosce il periodo più irripetibilmente fertile e creativo della propria cultura nazionale, in particolar modo nell’ambito di musica, poesia e narrativa. Nonostante la censura e le restrizioni in vigore, il caso brasiliano sorprende ancor di più per la sua unicità se lo si compara con le realtà dei Paesi confinanti, dove ogni espressione culturale e artistica non perfettamente allineata con la visione imposta dal regime viene considerata semplicemente impossibile e ogni spazio di critica soffocato.

UN APPROCCIO AUTORITARIO PIÙ CHE TOTALITARIO

La prima pagina dell’AI-5 (Ato Institucional no. 5)

La specificità del caso brasiliano dipende sicuramente da alcuni precisi fattori. In primo luogo le limitazioni dei diritti politici e civili seguono diverse fasi, ora di irrigidimento, ora di apertura, attraverso una serie di “atti istituzionali” che costellano i diversi governi militari. Se infatti i primi due governi Castello Branco e Da Costa e Silva si propongono inizialmente come tesi a normalizzare il Paese per restituirlo presto a una democrazia – magari un po’ meno diretta – anche già a partire dal dicembre 1968, con il famigerato AI-5 (Ato Institucional no. 5) e il governo Médici, la repressione delle libertà civili si fa sempre più dura. In questo senso taluni fanno distinzioni tra “governi militari” e “dittature” propriamente dette che si alternano durante questo ventennio. Oltre a questo, nel proporsi come una realtà formalmente istituzionale, il regime brasiliano salvaguarda entro certi limiti le attività partitiche e soprattutto le autonomie dei diversi Stati nazionali: capita spesso dunque che dischi e opere che passano il filtro della censura federale vengano poi ritirati alcuni Stati e consentiti in altri.

In ogni caso, l’approccio nei confronti dell’espressione culturale appare di stampo più autoritario che totalitario, come invece accade in Argentina e Cile negli anni Settanta, dove la repressione e il controllo sono capillari e durissimi a ogni livello. Per capirci, nell’Argentina di Videla non solo è sufficiente che un insegnante delle elementari reagisca terrorizzato alla domanda di un suo alunno che osa chiedere il significato dell’espressione tabù “terzo mondo”, ma anche quello spassosissimo classico della letteratura peruviana che è “La zia Julia e lo scribacchino” di Mario Vargas Llosa (decisamente non un’icona del pensiero di sinistra) viene proibito perché nelle sconclusionate radionovelas narrate nel romanzo gli argentini vengono dileggiati e additati come marioli, a causa dell’infelice matrimonio dello sceneggiatore con una prostituta argentina.

AUTORI TUTT’ALTRO CHE DISIMPEGNATI

Tom Jobim e Clarice Lispector alla presentazione del romanzo “A Maça No Escuro”

È il caso di dire che in Brasile è tutta un’altra musica. Per la precisione, quella popolare brasiliana conosce la propria età dell’oro e si diffonde a livello mondiale. Nel caso della bossa nova, se molti brani passano le maglie della censura, è perché forse questa viene – a torto – considerata tanto dai censori come dagli intellettuali di sinistra un’espressione musicale folcloristica e disimpegnata, così vicina a quella sensibilità “tropicalista” tanto cara ai precedenti regimi brasiliani. Tuttavia i suoi autori non sono affatto disimpegnati: i testi dei samba di Tom Jobim fanno spesso e volentieri riferimento a quella parte della società povera ed esclusa, ai “favelados”, la cui unica gioia nella vita è l’effimero carnevale carioca. Pittoresco sì, ma brani come “O Morro Nao Tem Vez”, pubblicato nel 1963, ricordano che “il morro” (la collina che ospita le favelas di Rio) “non ha alcuna possibilità”, “chiede permesso, vuole mostrarsi” e che “il giorno che si darà un possibilità agli abitanti del morro, tutta la città canterà”, affermazioni che ricordano da vicino quei propositi sociali tanto cari a Joao Goulart e che ne hanno decretato il rovesciamento.

Ma Tom Jobim sa anche essere più esplicito nei confronti della repressione in corso nel suo Paese e per questo nel 1971 viene arrestato assieme ad altri musicisti, sottoposto a un lungo interrogatorio e rilasciato senza accuse formali. In ogni caso resta oggetto dell’attenzione dei servizi segreti che gli mettono sotto controllo telefono, corrispondenza e ne seguono contatti e spostamenti. Anche il suo caro amico e coautore, il poeta Vinicius de Moraes (1913-1980), è percepito come personaggio scomodo; le sue poesie celebrano gli operai, gli emarginati, gli ultimi della società brasiliana: per questo nel 1968, mentre è in tournée con Baden Powell in Portogallo, viene rimosso dal suo incarico presso l’Itamaraty (l’equivalente della nostra Farnesina) senza preavviso, giustificazione né indennizzo (questo verrà riconosciuto ai suoi eredi solo nel 2021).

POLIZIOTTI CHE SI DICHIARANO «FAN» DEI LORO ARRESTATI

Caetano Veloso

Chi se la vede peggio è sicuramente Caetano Veloso che nel 1969 viene arrestato, interrogato, rapato e detenuto per alcune settimane con le accuse di vilipendio all’inno nazionale e per aver pubblicato un brano (che risulta non essere mai esistito) dedicato al Che Guevara. Il tutto viene riportato nei fascicoli del procedimento di polizia relativi al suo arresto, secondo un’altra peculiarità del regime brasiliano che desiderava dimostrare una “trasparenza” istituzionale nei procedimenti repressivi benché puramente formale. Non mancano gli aspetti grotteschi, come accade ripetutamente a Chico Buarque de Hollanda, quando i poliziotti o i funzionari si dichiarano fan dei loro arrestati o chiedono loro un autografo per le figlie che sono grandi ammiratrici. La più famosa di esse è forse proprio Lucy Amalia Geisel, la figlia del presidente Ernesto Geisel in carica tra il 1974 e il 1979, che si dichiara pubblicamente una grande fan del fascinoso Chico, mentre in privato piange la politica repressiva del padre nei confronti del Paese e anche della sua vita privata. A causa di questo in Brasile si diffonde la voce che il brano “Jorge Maravilha” sia dedicato al presidente Geisel nei versi in cui dice “Vocè nao gosta de mim, mais sua filha gosta” (“Io a lei non piaccio, ma sua figlia sì”), voce smentita dallo stesso cantante.

Il fascino di Chico tuttavia non gli impedisce di subire continue vessazioni che lo portano già nel 1969 a esiliarsi per un oltre un anno in Italia e, al suo rientro, a essere costantemente bersaglio della censura. È il caso del suo brano “A Pesar di Vocé”, in cui si rivolge a una “donna autoritaria” che “comanda”“tutto è detto, non si può parlare”; ha “inventato l’oscurità e il peccato”, impedendo ogni allegria, ma tanto, “domani sarà un altro giorno/ e ti chiedo come farai a nasconderti da tanta euforia”. Ma c’è anche “Càlice” (che si legge come “cale-se”, “stai zitto”), in cui chiede al padre di allontanare “da me questo calice di vino rosso di sangue/ come bere questa bevanda amara/ingoiare la fatica/ messa a tacere la bocca, resta il petto/ silenzio nella città non si ascolta”.

CLARICE LISPECTOR SOTTO LA LENTE DELL’INTELLIGENCE BRASILIANA

Clarice Lispector

Certamente Chico paga in questi anni la colpa di aver espresso pubblicamente il proprio dissenso in occasione della storica “Marcia dei Centomila”, che ha luogo nel giugno 1968 quando, a seguito dell’uccisione da parte della polizia dello studente Edson Luìs de Lima Souto, durante una manifestazione per il refettorio universitario, una moltitudine di comuni cittadini, casalinghe, operai, studenti, insegnanti e tantissimi nomi della cultura e dello spettacolo, si riversano per le strade di Rio de Janeiro protestando pacificamente contro la politica sempre più violenta e repressiva del governo militare.

In questa stessa marcia partecipa inaspettatamente anche uno dei più grandi nomi della letteratura brasiliana, Clarice Lispector, considerata oggi uno dei più grandi autori della narrativa del XX secolo assieme a Joyce, Borges e Mansfield. Signora borghese, ma di umilissime origini, donna bellissima quanto enigmatica, Clarice viene per lunghi anni disprezzata dalla intellighenzia di sinistra che le rinfaccia di non essere sufficientemente “brasiliana” nelle sue opere, di non affrontare temi “sociali” e “impegnati”, per dedicarsi alla dimensione del vissuto interiore e alla sensibilità metafisica. A insaputa di costoro e della stessa interessata, invece, durante il governo Médici, Clarice viene schedata e attenzionata dai servizi di intelligence brasiliani per via delle sue conoscenze e dei suoi scritti, come le cronache settimanali che pubblica tra le colonne del “Jornal do Brasil”, uno dei più importanti quotidiani nazionali.

È qui che nel febbraio 1968 Clarice si rivolge con una lettera aperta al Ministro dell’Istruzione, criticando la nuova riforma universitaria che di fatto impedisce definitivamente l’accesso agli atenei a una moltitudine di giovani precludendo il loro futuro. Più tardi, nel maggio dello stesso anno, denuncia lo sterminio degli indigeni dell’Amazzonia “sacrificati nella costruzione delle grandi fazendas” e ammazzati per rubare loro “la terra, alla quale sono telluricamente legati”. Nelle sue cronache non manca di menzionare il dramma dei Viet Cong (!) o descrivere con delicatezza la propria vergogna dinanzi ai bambini affamati e alle madri mendicanti per le strade di Rio. Successivamente, quando ricorderà prima in un racconto e poi in un’intervista televisiva la figura di “Mineirinho”, ucciso anni prima con tredici colpi di pistola dalla polizia, denuncerà la brutalità delle autorità dicendo che il bandito era stato  deliberatamente massacrato dagli agenti: “Qualsiasi fosse il suo crimine, un solo proiettile bastava. Il resto era solo voglia di ammazzare”.

LA VICENDA DI ZULEIKA «ZUZU» ANGEL

Zuzu Angel e la scena dell’incidente

È forse nel suo ultimo capolavoro, “L’Ora della Stella”, che Clarice racconta la miseria più straziante narrando la storia di Macabéa, una ragazza immigrata a Rio per lavorare come dattilografa e che da sempre vive immersa in una miseria materiale e morale così totali da non possedere la coscienza di sé, né della sua condizione, ignorando la dignità che le spetta in quanto essere umano. Macabéa muore inconsapevole di sé all’apice della felicità perché una chiromante le predice erroneamente un futuro di gioia, ma viene investita da una Mercedes Benz nel centro di Rio, simbolo di quella società emarginata ed esclusa dal “boom economico brasiliano”, da poco finito tra super inflazione e denunce di torture.

Se tali espressioni di critica e dissenso erano impensabili sotto i regimi confinanti, non bisogna però pensare che gli artisti brasiliani si sentissero intoccabili o non fossero consapevoli dei pericoli che il solo fatto di esporsi comportava. Lo sanno bene Vinicius de Moraes e Toquinho che vedono scomparire nel nulla il loro collega e amico Francisco Tenòrio Jr, con cui sono in tournée a Buenos Aires, il 18 marzo 1976, pochi giorni prima del colpo di Stato che rovescerà Isabelita Peròn. Testimonianze successive confermeranno il sequestro, la tortura e l’uccisione di “Tenorinho” presso un centro di detenzione illegale di La Plata nel quadro di quello che verrà conosciuto come Piano Còndor.

Forse la personalità che più ha lottato e pagato personalmente il proprio dissenso è stata Zuleika “Zuzu” Angel, la iconica stilista brasiliana, popolarissima e amica delle celebrità hollywoodiane, ricordata per aver innovato la haute-couture brasiliana introducendo elementi squisitamente etnici e nazionali nelle sue creazioni, quando ciò era ancora impensabile nell’ambiente. Da quando nel 1971 il figlio Stuart, entrato a far parte della guerriglia armata marxista del MR-8, viene sequestrato, torturato e ucciso nelle dipendenze dell’aeroporto Galeao, Zuzu inizia una battaglia personale e pubblica per conoscere la verità ufficiale e ottenere la restituzione del corpo del figlio. Nella sua lotta per la verità scomoda ogni sua conoscenza in ambito politico e militare in Brasile, riceve il sostegno pubblico di amiche celebri come Kim Novak, Liza Minnelli e Joan Crawford, e presenta ai media una collezione di abiti decorati con macchie di sangue e angeli in gabbia denunciando la violenza repressiva del governo militare durante un defilé che si tiene presso il consolato brasiliano a New York, aggirando così la legge che vieta ai cittadini brasiliani di criticare il loro Paese in suolo straniero.

In un’altra occasione, a bordo del Boeing della Varig che la riporta in Brasile, Zuzu afferra l’interfono e annuncia a tutti i passeggeri che stanno per atterrare all’aeroporto Galeao, dove il governo militare tortura e uccide i suoi cittadini. La battaglia di Zuzu si ferma solo con la sua morte, avvenuta nel 1976 quando al ritorno da una serata di gala, all’uscita da un tunnel della superstrada che oggi porta il suo nome, perde il controllo della sua Karmann Ghia e precipita lungo il terrapieno, morendo all’istante: testimonianze dell’epoca, evidenze fotografiche e indagini più recenti, collocano rappresentanti della intelligence militare di allora sul luogo dell’incidente in quegli stessi minuti.

Nonostante diversi degli artisti menzionati siano scomparsi, chi per morte violenta, chi per morte naturale, la voce del loro dissenso resta oggi ancora viva attraverso il prezioso lascito delle loro opere.