Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
Il sito comprende sei aree tematiche e ben ventidue sottocategorie con centinaia di pezzi su anni di piombo, strategia della tensione, vicende e personaggi più o meno misconosciuti di un’epoca soltanto apparentemente lontana. Per rinfrescare la memoria di chi c’era e far capire a chi era troppo giovane o non era ancora nato.
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Sandalo, lei ha accennato a un numero elevato di rapine che Alunni le ha detto servivano per finanziare la rivista Rosso o Rosso in generale. Servivano solo a finanziare la rivista o anche le strutture?
«Eh… entrambe le cose. All’inizio ci furono dei tentativi di costruire degli immobili o aprire negozi per farli poi fruttare e con i proventi pagare… però era una cosa complicata che dava adito ad essere scoperti»
— E non era possibile finanziarli diversamente questi giornali?
«Prima Linea nel 1979 ebbe un bilancio di oltre un miliardo tra affitto di case e pagare lo stipendio ai ricercati, le spese varie… Ad esempio io e Bignami un giorno tirammo giù dei conti di otto, nove mesi. Abbiamo fatto il conto delle rapine fatte e di quanto avevano fruttato, quanto abbiamo speso. In otto, nove mesi, eravamo a giugno-luglio del ’79, erano entrati 860 milioni e 860 erano usciti»
— Lei è in grado di farci, seppur sommariamente, un bilancio di Rosso e Brigate Comuniste? Un bilancio proprio in termini economici.
«Eh no, non lo so, perché io non so quante basi avessero, quanti militanti illegali da stipendiare perché non potevano più lavorare e quanti ricercati. Non posso neanche immaginarlo»
— Alunni era stipendiato?
«Probabilmente sì. Come viveva sennò?»
— Lei ha mai conosciuto Marocco?
«No»
— Passiamo a un altro punto. A un certo punto lei parla di un convegno di Bologna, no?
«Del settembre del 1977»
— Ma prima di questo convegno a Bologna ci fu una sorta di, ha usato testualmente questa parola dinnanzi a noi, “summit” dall’aprile al primo maggio del 1977. Ci può parlare di questo?
«Mah, dunque. Premetto che tra la nostra organizzazione e le strutture illegali di Rosso, nel periodo, vi furono quasi sempre buoni rapporti. Specialmente all’inizio, quando non disponevamo di mezzi, né noi né le strutture illegali di Rosso, per praticare la lotta armata. Io ricordo che a Torino nel settembre del 1976 avevamo quattro o cinque pistole e un’arma lunga, doveva essere un mitra Sten. E questo fatto cambiò. Intorno a novembre, entrambe le organizzazioni, sia le strutture illegali di Rosso che Prima Linea, misero a segno due rapine in armeria che andarono bene. Quella che fece Prima Linea fruttò più di cinquanta pistole e lì abbiamo cominciato ad armarci meglio e di più, con pistole anche di una certa qualità. E vi furono anche scambi, ogni tanto, di armi. Cioè, si usava prestare le armi, specialmente di grosso calibro, dei 38 special, dei 357. Ogni tanto ho avuto notizia: “Ah, non ce l’hanno ridata, ce la devono ancora ridare…”, perché magari dovevano fare un’operazione, una rapina, particolarmente difficile e allora occorreva un armamento, un volume di fuoco, adeguato. Gli scambi non avvenivano mai con le BR. Non è mai capitato che Prima Linea prestasse simili armamenti alle BR, per dire, mai. Invece a Milano c’erano proprio rapporti di buon vicinato, diciamo, con queste strutture illegali»
— In quali prospettive c’erano questi rapporti di buon vicinato?
«Il fine era comune: scatenare in Italia la guerra civile. Che uno avesse un’ipotesi insurrezionale, che l’altra organizzazione privilegiasse la centralità operaia e costruire nelle grandi fabbriche dei vari poli industriali le organizzazioni, che Prima Linea credesse più o meno in una lotta di lunga durata, il fine era comune: portare lo Stato a una degenerazione, repressiva, istituzionale, giuridica, affinché le prime forme di consenso che noi stavamo raccogliendo si tramutassero in disponibilità. E qui nasce anche uno dei nostri errori madornali, che ci ha portato al dissolvimento del progetto politico complessivo della lotta armata, del terrorismo: noi abbiamo confuso il malcontento di alcuni settori di classe, della gente, con la disponibilità a prendere un mitra in mano. E noi avevamo vent’anni, un padre di famiglia non ci pensa una volta, ci pensa mille volte, presupponendo che sia d’accordo o meno. Ecco qui uno dei nostri errori che ci ha tagliato le gambe, che ci ha fatto poi rendere conto che stavamo combattendo per un’utopia, un assurdo»
— Quindi c’erano questi scambi soprattutto tra Rosso e PL, lei dice.
«Sì. L’ultimo di cui ho avuto notizia è del settembre del 1979 e riguardava una Smith & Wesson 38 special. Vennero comprate due Smith & Wesson in Svizzera con i tesserini rubati alla Mondialpol. Una di queste venne prestata e ricordo che Sergio Segio si stava lamentando che tardavano a riconsegnarla»
— A chi l’avevate consegnata?
«Alle strutture illegali che c’erano all’epoca: penso quelli di Milano, di Rosso. Gli ex di Rosso, ecco»
— Quindi fino al settembre del ’79…
«È l’ultima notizia che ho avuto io di uno scambio di armi. Comunque a riguardo dell’aprile del 1977, dato che in Italia stava sviluppandosi questo cosiddetto Movimento del ’77, c’erano le piazze che erano piene di giovani che andavano a scontrarsi direttamente con lo Stato, si pensò di costruire due momenti significativi: un momento militare e un momento di massa. Ci fu un incontro, penso a Milano, ai primi di aprile del ’77, in cui si cercò di concordare un’offensiva dal 15 aprile al 1° maggio, a livello armato, di organizzazione. Cioè attaccando tutto ciò che c’era sotto inchiesta: che so, dalle caserme dei carabinieri a fabbriche che praticavano lavoro nero, e poi sfociare in una manifestazione a Milano, il primo maggio, come momento collettivo di massa in cui far risuonare certi tipi di slogan, cosa che poi, almeno in piazza, venne fatta. Io però so che non vi fu un accordo, non vi fu una campagna comune. Io so che Prima Linea andò a fare delle operazioni ma non in comune. In quel periodo a Milano furono attaccate, con un volume di fuoco molto alto, molte caserme dei carabinieri tant’è che poi questa parola d’ordine risuonava nel corteo del primo maggio, dove noi andammo disarmati, a parte la struttura milanese del gruppo di fuoco che venne in piazza armata. C’erano due cordoni, c’era Rosso in testa, poi lo spezzone facente capo…»
— Rosso era armato pure?
«Non lo so. C’erano squadre di servizio d’ordine che giravano sui lati del corteo, ma non furono praticati obiettivi. A differenza di altre occasioni come il 18 marzo del 1977 a Milano, dove io devo rispondere di reati specifici. Prima Linea decise di portare il primo maggio una struttura armata, di copertura, nel caso in cui la polizia avesse caricato, perché da parte nostra non c’era volontà di provocare incidenti. Infatti la manifestazione partì da piazza della Repubblica e andò a finire in Largo Cairoli dove vi fu un breve comizio»
— E c’era Rosso il 18 marzo?
«Beh, il 18 marzo a Milano fu una giornata molto grossa, storica per la lotta armata e per il Movimento in Italia»
— Chi era presente?
«Eh…io devo rispondere in questi giorni di…»
— Sì ma chi c’era lì? c’era Rosso presente il 18 marzo?
«Guardi, tutto è cominciato… c’era una manifestazione sindacale con concentramento in piazza del Duomo e l’autonomia, i collettivi autonomi e i comitati operai vari dell’area milanese si concentrarono in piazza Fontana e poi nella piazzetta Santo Stefano, quella vicino alla statale. La piazzetta Santo Stefano fu il concentramento, poi c’è una via che va a finire all’Università statale. E specificatamente ci venne chiesto dal nostro comando di Milano un intervento armato da parte di alcuni militanti di Torino e andammo giù in sei o sette a Torino armati con le nostre pistole, con le nostre armi, solo armi corte, perché era già prevista il giorno prima una serie di obiettivi lungo il corteo, in comune questa volta. Tant’è vero che noi praticammo l’assalto, un assalto piuttosto pesante a livello di danni, alla direzione generale della Magneti Marelli in via Guastalla, proprio vicino al Palazzo di Giustizia a Milano. Comunque il corteo parti da piazzetta Santo Stefano, eravamo almeno duemila persone.
La testa del corteo la tenevano gli operai della Magneti Marelli, tutti coperti, mascherati, con uno striscione con un’indicazione che ora non ricordo. Abbiamo fatto alcuni giri lì intorno.
Io non conosco bene i nomi delle vie ma arrivammo in via Francesco Sforza e un nutrito gruppo di persone, anche in tuta, erano vestiti con la tuta da lavoro, imboccò via Guastalla di corsa e noi dietro tirando fuori le pistole come copertura»
«La strada ce la aprì una squadra del servizio d’ordine di Rosso, proprio sull’angolo, erano tutti coi caschi, chiavi inglesi, molotov, per bloccare, e il gruppo di persone, almeno in trenta entrarono negli uffici della Magneti Marelli perché si cercava un dirigente industriale e nel caso lo si fosse trovato qualcuno doveva sparargli alle gambe, in quell’occasione. E lì vi fu un errore perché chiesero i documenti alle persone presenti negli uffici e un operaio, o un nostro compagno, sbagliò persona e questo poté fuggire ed era un dirigente. Comunque noi rimanemmo in strada, noi di Torino e alcuni altri del gruppo di fuoco milanese armati e ci contrapponemmo a un drappello di carabinieri che stava davanti al palazzo di giustizia, proprio mostrando le pistole. Infatti non fummo attaccati dalle forze dell’ordine in quel momento. Poi il palazzo venne bruciato in tre piani, ci ritirammo in via Francesco Sforza dove il corteo ci stava aspettando e o poco prima o poco dopo un gruppo del servizio d’ordine di Rosso attaccò la sede della Bassani Ticino che è un’azienda che produce materiale elettrico avendo l’appalto in molti carceri per la costruzione di particolari elettrici, per cui era sfruttamento sui detenuti, venne operato quell’obiettivo. Poi il corteo andò a sciogliersi in Piazza Vetra.
Noi di Prima Linea e di Senza Tregua, tutte le varie squadre, almeno cinquanta o sessanta persone con mezzi diversi raggiungemmo una casa vicino al Casoretto perché volevamo fare irruzione in una sede della Roche, che era la ditta che aveva provocato il disastro di Seveso, e quindi volevamo ripetere, però in chiave più ristretta di organizzazione, l’episodio della Magneti Marelli: entrare dentro e bruciare tutti gli uffici. Arrivammo lì ma arrivammo tardi e c’erano degli impiegati, degli operai che mangiavano in mensa, erano rientrati dallo sciopero. Per non mettere a repentaglio la vita di questi non abbiamo fatto niente, ci siamo sciolti lì»