Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
Il sito comprende sei aree tematiche e ben ventidue sottocategorie con centinaia di pezzi su anni di piombo, strategia della tensione, vicende e personaggi più o meno misconosciuti di un’epoca soltanto apparentemente lontana. Per rinfrescare la memoria di chi c’era e far capire a chi era troppo giovane o non era ancora nato.
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«In America», scriveva con toni molto aspri Enzo Passanisi sul Corriere della Sera il 13 novembre 1965, «li chiamano beatnik. In Italia si sono guadagnati il titolo di “capelloni”, come li hanno sbrigativamente definiti i romani in omaggio alla loro più appariscente caratteristica esteriore: i capelli lunghi, appunto, la zazzera folta e incolta che ricade sopra la camiciola sporca e lacera o sopra il giubbotto di pelle. Scarpe di pezza e pantaloni che non hanno mai conosciuto la riga, blue-jeans in genere, completano solitamente il loro abbigliamento».
È il 1965 e i tumulti sessantottini sono ancora lontani. Tuttavia anche in Italia, già negli anni immediatamente successivi al cosiddetto boom economico, una parte delle nuove generazioni iniziò a manifestare una certa insofferenza verso la società dei consumi, a mettere in discussione i valori tradizionali della famiglia, a rifiutare le proverbiali «Tre M» (Mestiere, Moglie, Macchina). Anche i giovani italiani, dunque, cominciarono a sentirsi una generazione abbattuta, incompresa, in misura non troppo dissimile da quella americana di dieci anni prima.
Intorno alla metà del decennio, periodo in cui cominciano ad affacciarsi sul panorama editoriale italiano le opere della Beat Generation, fanno la loro comparsa dei giovani mai visti prima: vengono dal nord Europa, vivono alla giornata, dormono dove capita, portano i capelli lunghi e vestono in modo inconsueto; parlano di pacifismo e antimilitarismo ed entrano in contatto con i loro coetanei italiani. Vengono chiamati beatnik, non fanno nulla di male, raramente delinquono, eppure vengono messi sotto pressione dalla stampa e dalla polizia, divenendo in breve tempo una minaccia sociale da reprimere a tutti i costi. Quei ragazzi appena ventenni furono probabilmente i primi, almeno in Italia, a manifestare vistosamente una prima rottura generazionale. Come sostiene lo storico Luca Gorgolini in Identikit del Novecento (Donzelli, 2004): «non si limitano ad attuare nei confronti dei valori e degli ideali della società adulta una rivolta estetica, ma danno vita a una vera rivolta esistenziale».
Occorre fare prima un paio di precisazioni in merito al concetto di beatnik. Come conferma il critico e saggista newyorkese Louis Menand in un articolo pubblicato sul portale The New Yorker nel 2007, a coniare il termine, nel lontano 1958, fu l’umorista Herb Caen, editorialista di lunga data del San Francisco Chronicle. Caen faceva il verso al satellite sovietico Sputnik, lanciato nello spazio un mese dopo la pubblicazione di On the Road di Jack Kerouac («Perché un beatnik è come Sputnik? Sono entrambi lontani…» ironizzò l’umorista statunitense).
In secondo luogo, il termine beatnik è stato largamente, e spesso impropriamente, usato dalla stampa italiana degli anni Sessanta per indicare una tendenza culturale molto più ampia — già stimolata dal grande successo dei Beatles — e per inquadrare in sostanza una moda, sia estetica che (in parte) musicale, seguita con molta curiosità dalle nuove generazioni di italiani. Nella Capitale, per fare un esempio, non di rado la stampa romana chiamava senza distinzioni «beatnik», «yè yè» o «capelloni» alcuni tra i primi avventori del Piper Club, che aprì i battenti proprio nel febbraio del ’65. Ma i veri beatnik, quelli che — come ebbe a descriverli Giangiacomo Feltrinelli — praticavano lo «sciopero dei consumatori», erano invece molto distanti dalle mode e dai divertimenti di via Tagliamento.
«Nella percezione comune», scrive lo storico Gianni Silei in I fantasmi della golden age (FrancoAngeli, 2019), «il fenomeno Beat fu però associato tanto ai frequentatori del Piper, il locale notturno della gioventù alla moda romana fondato da un ex membro della X Mas Alberico Crocetta, quanto soprattutto ai “capelloni” stranieri, spesso senza documenti e fissa dimora, che insieme ad un numero crescente di coetanei italiani avevano iniziato a popolare i centri storici delle principali città italiane, finendo spesso con l’esserne allontanati per motivi di ordine pubblico (…)».
Nel triennio 1965-67 la presenza dei beatnik si registrò grosso modo in tutto il centro-nord della Penisola, ma furono soprattutto Roma e Milano i principali teatri di quella che si può definire a tutti gli effetti come la repressione di un movimento culturale stroncato sul nascere.
Da dove vengono quindi questi beatnik? Prima di trattare della loro improvvisa comparsa sulla scalinata di piazza di Spagna, bisogna fare un piccolo passo indietro. Nel corso del 1963 uno sparuto gruppo di giovani appena ventenni, provenienti dalla Scandinavia, dall’Olanda e dalla Repubblica Federale Tedesca, raggiunsero Parigi e i luoghi che nel decennio precedente erano stati attraversati da Allen Ginsberg, William Burroughs e Gregory Corso. In particolare cominciarono a frequentare il Cafè Popoff di rue de la Huchette, nel cuore del Quartiere Latino, un bar aperto anni prima da una vecchia coppia di esuli russi. Tra ozio, un boccale di birra e qualche strimpellata di chitarra, divennero ben presto una curiosità, una sorta di attrazione per il turismo parigino.
«I beatnik del Cafè Popoff», scriveva il giornalista Sandro Viola su L’Espresso il 14 novembre 1965, «sarebbero stati vent’anni fa degli esistenzialisti, dei ragazzi cioè altrettanto sbrindellati, decisi a non integrarsi e quindi a non lavorare, metà pigri e metà traumatizzati (…). Passata la moda esistenzialista, e acuitisi i problemi del disorientamento dei giovani nella società del benessere, i beatnik americani diventarono il modello di tutti i disadattati, i ribelli, i vagabondi delle nazioni europee a più alto livello economico».
In meno di due anni il Cafè Popof iniziò a essere più esclusivo, ad alzare i prezzi del listino, e i beatnik nordeuropei capirono che era arrivato il momento di cambiare aria. Tra di loro c’era già il mito (ereditato dai beat americani) del viaggio verso Oriente, che divenne quasi consuetudine tra le generazioni immediatamente successive, e in un clima di piena Guerra Fredda le città italiane rappresentavano dunque una tappa obbligatoria. Di questa ristrettissima carovana di capelloni on the road, qualcuno transitò a Torino o a Milano mentre la maggior parte proseguì per Roma.
«Nella primavera del ’65», scrivono la giornalista Marisa Rusconi e il sociologo Guido Blumir in La droga e il sistema, (Feltrinelli, 1972), «sulla scalinata di Trinità dei Monti, i romani e i “turisti-macchina-fotografica” trovarono con sorpresa mista ad orrore che alla solita fioritura di azalee si mescolava una flora di una specie mai vista finora al naturale. Erano i “beatnik”, calati dal nord, i nomadi internazionali, forse “sulla strada” anche se in ritardo di Kerouac. Per molti di loro Roma avrebbe dovuto rappresentare solo una tappa verso l’India (…) Ma una volta deposti zaini e sacco a pelo sui gradini della famosa scalinata, qualcuno non si mosse più di lì per tutta l’estate, soddisfatto-estatico del sole, della pizzetta stantia comprata a via della Croce e da rosicchiare metà a pranzo e metà a cena, del vino cattivo, dello spettacolo-vita. L’Oriente non pareva tanto lontano».
Per dirla con le parole dello scrittore e attivista Angelo Quattrocchi, la cosmopolita Roma di quegli anni era un po’ «l’ombelico del mondo, a metà strada tra San Francisco e Katmandu». Nella Capitale i primi beatnik compaiono precisamente nel febbraio del 1965. Sono in pochi, arrivano a piccoli gruppi, qualcuno è solo di passaggio, a giugno se ne contano appena una ventina nei pressi della Barcaccia del Bernini. Dopo il soggiorno parigino si erano aggiunti giovani provenienti dall’Inghilterra, dall’Olanda e dal Belgio, qualche francese, perfino una ragazza canadese. Non scelgono le zone tradizionalmente più calde della città, come i vicoli di Trastevere o piazza Campo de’ Fiori: frequentano lo storico Baretto di via del Babuino, gravitano intorno all’Antico Caffè Greco di via dei Condotti, dormono accampati in qualche stanza o nella vicina Villa Borghese, passano gran parte delle loro giornate sulla settecentesca scalinata di piazza di Spagna.
Riprendendo l’articolo di Sandro Viola:
«Una colletta davanti a un caffè mentre uno di loro suona la chitarra, un piccolo vaglia, ogni tanto, da casa, una richiesta al passante, il quadro coi gessetti sul marciapiede. Credevano di durare a lungo, l’idea d’essere messi al bando non li sfiorava. La verità è che avevano fatto male i loro calcoli. Roma non è Parigi, Trinità dei Monti non è Notre-Dame».
Inizialmente tollerati dalla popolazione del centro e dalle forze dell’ordine, la presenza dei beatnik cominciò a farsi sentire con l’inoltrarsi dell’estate. A luglio, infatti, l’inconsueto raggruppamento di capelloni si era allargato a un centinaio di giovani. Erano quasi tutti romani, venivano dalle borgate, molti appartenevano al sottoproletariato urbano. Qualcuno aveva raggiunto la Capitale da altre parti d’Italia. Come puntualizza Valerio Mattioli in Superonda (Baldini+Castoldi, 2016): «erano minorenni scappati di casa, sottoproletari “aspiranti bohemien”, adolescenti di periferia in fuga dalle prepotenze subìte in famiglia, una mandria cangiante di capelloni che preoccupavano la buona borghesia e facevano la gioia della stampa scandalistica».
La crescente diffidenza nei confronti di questi «nomadi internazionali» si intrecciò con un altro allarme sociale, molto dibattuto nel corso di tutti gli anni Sessanta, ossia le fughe da casa dei giovani, non di rado ragazze o minorenni. Capitava spesso che questi «scappati di casa» si avvicinassero ai piccoli gruppi di capelloni sparsi nella Penisola: un mix esplosivo per un’Italia ancora molto chiusa, bacchettona, restìa al cambiamento. Prima ancora di diventare un problema di ordine pubblico, intorno ai beatnik fu costruito un grosso «caso mediatico» e i capelloni stranieri di piazza di Spagna furono i primi a pagarne le conseguenze.
Se si vuole comprendere quel generale senso di rifiuto e paura che la società italiana provava verso tutto ciò che di lì a pochi anni sarebbe diventato prassi comune, come farsi crescere i capelli, portare i blue-jeans o sedersi per terra, è sufficiente leggere i quotidiani del tempo. Ad accendere i riflettori sui beatnik di Trinità dei Monti fu un episodio di piccola cronaca. Alla fine dell’agosto 1965 due ragazzi stranieri sostano nei pressi dell’Antico Caffè Greco di via dei Condotti: chiedono sigarette ai passanti, qualcuno si infastidisce e ne nasce una discussione, poi sfociata in rissa. Scrivono i già citati Blumir e Rusconi:
«Il Caffè Greco è un tempio: troppe glorie politiche-letterarie sono passate di qui. La dissacrazione, anche se involontaria, merita bene un’operazione di polizia (e di “pulizia”): arriva un cellulare e carica tutti i capelloni che incontra. In questura verranno rilasciati perché i documenti risulteranno in regola. Ma ormai è incominciata l’operazione “sfumatura” (…) che ben presto si allargherà ad altri luoghi, ad altre stanze, coprendo quasi tutta Italia».
Con l’avviarsi della stagione autunnale, la stampa si scatena. Sul piano estetico, i beatnik vengono definiti dai cronisti come «zazzeruti», «sporchi e maleodoranti», addirittura «matusa» o più comunemente «barboni». Sul quotidiano romano Il Messaggero vengono bollati come «nullafacenti», «intellettualmente e moralmente vuoti». Perfino L’Unità, che negli anni precedenti aveva guardato con interesse all’esperienza beat d’oltreoceano, sembra prendersi gioco di questi stravaganti ragazzi nordeuropei; in un’inserzione dedicata ai bambini dell’aprile del 1966, il quotidiano comunista propone la costruzione di un simpatico uovo di Pasqua: «(…) appoggiate la parrucca di lana sull’uovo ed ecco pronto “l’uovo capellone”, o “beatnik”, che dir si voglia».
La crescente attenzione della stampa andò di pari passo all’aumento dei controlli da parte delle forze dell’ordine davanti alla Barcaccia del Bernini. La situazione precipita in seguito a un altro piccolo episodio di cronaca. Il 2 novembre 1965, dopo l’ennesimo alterco con qualche passante irritato, due ventenni (un olandese e un tedesco) arrivano alle mani con un vigile urbano. Ne consegue una nuova maxi retata ai danni di tutti i capelloni di piazza di Spagna.
«Via i beatnik cenciosi e violenti», titolò il Corriere della Sera il giorno seguente, riportando la notizia che i due giovani erano stati rimpatriati. Sarà proprio il giornale di via Solferino ad ingaggiare un’insistente campagna mediatica contro i beatnik stranieri. Tristemente famosi sono rimasti gli articoli di Paolo Bugialli, in particolar modo quello pubblicato sul Corriere il 6 novembre 1965 («Tempi duri per i capelloni che bivaccano a Trinità dei Monti»). Di seguito alcuni passaggi significativi:
«I “capelloni”, come li chiamano qui a Roma, sono quei tipi di apparente sesso maschile, che portano capelli lunghi quasi come le donne, fluenti sulle spalle, talvolta con vezzosi riccioletti sul davanti…». Poi passa a descrivere le loro compagne: «sono provvisti di inverosimili ragazze, le quali, al contrario di loro, i capelli li hanno cortissimi, ma cui li accomuna un evidente disprezzo per l’acqua e il sapone». Dopo tali accurate descrizioni, il Bugialli commenta i provvedimenti di rimpatrio disposti dalle autorità: «Come non si entra in India senza farsi l’iniezione contro il colera, come non si va in Congo senza la vaccinazione contro la febbre gialla, non si entra in Italia con i capelli lunghi: siamo in casa nostra, abbiamo il diritto di ricevere gli ospiti che vogliamo, e questi non li vogliamo».
Dopo i fatti del 2 novembre, la polizia stringe ulteriormente il cerchio intorno ai capelloni di piazza di Spagna. Per le testate più conservatrici, come il già citato Corriere della Sera e Il Tempo, le contromisure prese dalla Questura di Roma non bastano. Fu proprio il quotidiano romano di piazza Colonna a esacerbare la già battente campagna mediatica contro i beatnik, invitando gli stessi cittadini a «sbarazzarsi, con le buone o con le cattive, di questi “sgorbi” che di giovanile hanno solo il pelo». Ma è il Corriere a fare la voce più grossa. Nel succitato articolo del 6 novembre, Bugialli è addirittura profetico: non solo si augura che su questa generazione della bomba ne venga sganciata una «carica di insetticida» (avverrà a Milano, a via Ripamonti, due anni dopo), ma conclude che «non resta che andare lì e provocare anche quelli che rimangono, armati di civismo, di insetticida e di forbici. O si lasciano disinfestare e tagliare i capelli, e allora il problema è risolto, oppure reagiscono, ingaggiano rissa, arrivano le guardie, ed è risolto lo stesso».
Neanche il tempo di spedire l’articolo da Roma alla redazione milanese che la profezia di Paolo Bugialli si avvera sugli scalini di Trinità dei Monti, con tanto di rasoi, forbici e spranghe.
Venerdì 6 novembre 1965, sulla scalinata di piazza di Spagna stazionano i soliti beatnik; sono pochi, i cronisti parlano di appena cinque capelloni stranieri. Alle 17 e 30 da via Due Macelli un corteo di cinque automobili irrompe nella piazza a suon di clacson. Dalle autovetture scendono circa una trentina di giovani: per la stampa sono tutti studenti universitari, appartenenti all’estrema destra romana, alcuni portano il cappello goliardico, la feluca. Il loro obiettivo è chiaro, vogliono ripulire la piazza. Riprendendo l’articolo di Sandro Viola su L’Espresso:
«Giunti a piazza di Spagna, i fascisti si precipitarono fuori dalle macchine e salirono i primi gradini di Trinità dei Monti. Brandivano rasoi, alcune grosse forbici, qualche manganello; erano una trentina. Sui gradini della scalinata c’erano cinque “capelloni” e i fascisti li attaccarono. Sei contro uno, dodici braccia contro ogni due, senza che i primi dieci minuti la polizia intervenisse: la spedizione punitiva riuscì pienamente».
A terra restarono due giovani inglesi che furono tratti in arresto e fatti rimpatriare nei giorni seguenti insieme ad altri due ventenni, un tedesco e una ragazza olandese. In ospedale finirono anche due romani, lo studente ventiseienne Carlo Albertazzi e tale Umberto Orlandini, un operaio del Prenestino, amico dei capelloni. Le cronache riportarono anche del fermo di dieci individui tra il gruppo dei goliardi, ma nei giorni seguenti non se ne seppe più nulla.
Nonostante la violenta aggressione, infatti, la stampa nazionale continuò a mantenere toni ostili nei confronti dei capelloni, provando a ridimensionare l’accaduto alla solita «indegna gazzarra», addebitabile principalmente ai giovani stranieri. A tal riguardo, basta leggere i titoli del giorno seguente: «Violenta rissa tra goliardi e zazzeruti» (Il Messaggero); «Spedizione punitiva di studenti contro i “barboni” stranieri a Roma» (La Stampa); «Spedizione punitiva a Roma contro i “beatnik” zazzeruti» (Corriere della Sera). Fatta eccezione per il già citato Sandro Viola (che li chiama apertamente «fascisti»), per la maggior parte dei cronisti gli aggressori sono semplici studenti-goliardi. Già a una prima ricostruzione dei fatti fu evidente che non si trattò di una lite occasionale, ma di una spedizione punitiva in piena regola. Questo è quanto riportò l’inviato de Il Messaggero il 7 novembre 1965:
«Gli studenti avrebbero formato un coro e si sarebbero messi a cantare una canzone contro i capelloni, insistendo sul ritornello “Non vogliamo i capelloni”. Al termine della canzone, i “coristi” si sarebbero rivolti con parolacce contro i “nemici pubblici” dei barbieri».
Perfino il riottoso Corriere della Sera dovette ammettere la natura premeditata dell’agguato. Nei momenti immediatamente successivi al raid in piazza di Spagna, il quotidiano riportò quanto emerso dal programma Rai Voci dal mondo, in cui uno degli aggressori, Giovanni Maria Russo, intervistato dal giornalista Franco Bucarelli, si era vantato di aver partecipato «alla rissa» e di averle attribuito «un significato di spedizione punitiva». Il tutto venne pubblicato dal Corriere il 7 novembre 1965.
Nonostante un clima da linciaggio mediatico, vi fu una parte della stampa che prese le parti dei malcapitati beatnik. Il settimanale musicale BIG, fondato nel giugno del 1965 da Iginio Lazzari, in un articolo intitolato La violenza no!, pubblicato il 19 novembre, riprende criticamente i fatti di piazza di Spagna:
«Era nell’aria. Già da alcuni giorni i soliti giornali soffiavano sul fuoco con tutte le trombe della loro indignazione. Pareva quasi che la Patria fosse in pericolo: per salvarla i capelloni a piazza di Spagna no, ohibò, non ci dovevano più stare. (…) Almeno fino a quando la Costituzione resta in vigore, ognuno in Italia, deve essere libero di tenere i capelli tagliati alla lunghezza che preferisce. E non ci piacciono, per di più, le squadre di teppisti che, sotto la falsa etichetta di una “goliardia” della quale ignorano i requisiti più essenziali, attaccano briga».
La spedizione punitiva fu denunciata anche da alcuni esponenti del mondo intellettuale. Mentre la redazione romana de L’Unità scelse in sostanza di non coprire la notizia dell’aggressione, il quotidiano socialista L’Avanti ospitò nell’edizione del 7 novembre 1965 una riflessione dello scrittore e giornalista Pietro Antonino Buttitta. Il titolo, Teppisti per bene, è già abbastanza esplicativo.
Eccone alcuni passaggi:
«Sappiamo da sempre che perbenismo all’italiana e teppismo vanno insieme (…) Dobbiamo prendere atto del comportamento degli organi d’informazione della destra eversiva e persino del paludato conservatorismo lombardo. Intendiamo riferirci al romano Il Tempo e al milanese Corriere della Sera che, quasi negli stessi termini, hanno invitato i rappresentanti della “sana gioventù nazionale” a recarsi in piazza di Spagna (…) Per reagire alla moda, discutibile quanto si vuole, dei “capelloni”, il perbenismo nazionale ha rimesso fuori le sue squadracce (…) si sono scatenati i pretoriani delle organizzazioni neofasciste e neonaziste della Capitale, come al solito travestiti da studenti».
Visione non dissimile quella dello scrittore e sceneggiatore napoletano Raffaele La Capria che in una lettera al direttore, pubblicata l’11 novembre 1965 dal Corriere della Sera, denuncia senza mezzi termini l’intollerante clima di quei giorni: «Ci sono in Italia molti signori correttamente vestiti di grigio, coi capelli ben tagliati, che dovrebbero loro essere esiliati in Patagonia. Questi signori oggi incitano alla violenza contro i capelloni: domani, a renderli così intolleranti ed aggressivi, sarà il colore della pelle, la religione o la politica. Sono insomma più pericolosi loro, per la nostra buona reputazione, che tutti i capelloni di Parigi, Londra, Berlino e Nuova York».
Nella medesima data anche Elsa Morante, in una missiva indirizzata al quotidiano torinese La Stampa, prende le parti dei giovani stranieri. Definendosi anch’essa appartenente a questa «razza dei capelloni», la scrittrice romana mette in guardia i lettori sui provvedimenti disposti dalle pubbliche autorità:
«Ritenevo per certo e indubitabile che in Italia, Paese di civiltà democratica, ciascuno fosse libero di pettinarsi e vestirsi come meglio crede, salvo oltraggio alla decenza. E onestamente non vedo nessun oltraggio di tal genere nella foggia dei capelli lunghi e del vestiario dimesso e senza cerimonia: foggia, anzi, la suddetta, già confortata da innumerevoli esempi illustri, fra i quali, per citarne solo due, Dante Alighieri e Giuseppe Garibaldi (…). Ora, invece, si legge in questi giorni, su vari giornali, di un recente provvedimento che inviterebbe i tutori dell’ordine in Roma, a fermare tutti coloro che si mostrino in siffatta tenuta come sospetti di essere stranieri indesiderabili, vale a dire, in mancanza di altre imputazioni, poveri di valuta».
Dall’autunno del 1965 fino alla fine del 1967, la repressione contro i beatnik stranieri di piazza di Spagna si consuma a suon di retate, arresti e decreti di espulsione. Furono soprattutto i provvedimenti disposti dalla Questura di Roma a costituire il principale mezzo repressivo contro i capelloni nordeuropei, ossia la diffida e il foglio di via. Per quanto concerne il secondo, come spiegano i già citati Blumir e Rusconi, le motivazioni addotte erano «la mancanza dei mezzi di sussistenza e la contravvenzione alla legge di pubblica sicurezza per la quale ogni straniero, entro tre giorni dal suo ingresso in Italia, è tenuto a domandare un permesso di soggiorno».
Come è evidente, tali motivazioni non bastano a spiegare l’accanimento poliziesco nei confronti dei beatnik. Emblematiche, in tal senso, sono le dichiarazioni di tale dottor La Mela, all’epoca direttore dell’Ufficio Stranieri della Questura di Roma, intervistato dal quotidiano Il Giorno il 4 novembre 1965: «Prima ce n’era qualcuno, isolato, che non dava fastidio. Ora incominciano a rappresentare uno sconcio, talvolta un pericolo (…)». Alla domanda: «Ma ammesso che siano in regola con il passaporto, che abbiano il permesso di soggiorno, che posseggano il sufficiente per vivere, che si comportino bene, che cosa gli succederà?», il direttore La Mela rispose così: «Li caccio via lo stesso, perché ci sono motivi sufficienti di ordine pubblico per farlo».
Dopo i fatti del 6 novembre, 17 giovani stranieri furono espulsi dall’Italia. Con l’arrivo dell’inverno, i beatnik sparirono dalla scalinata e la tensione si attenuò sensibilmente. Tuttavia, già nella primavera del 1966, la presenza dei capelloni tornò a farsi sentire: sempre più romani, sempre più giovani. Piazza di Spagna continuò a essere meta privilegiata di ragazzi e ragazze provenienti da altre parti d’Italia e del mondo; rimase dunque un punto caldo per diverso tempo, sia come luogo di aggregazione che, inevitabilmente, come zona di caccia per gli apparati di polizia, i quali, riprendendo Blumir e Rusconi, «continuavano a riempire le camere di sicurezza di ragazzi con i capelli lunghi e di ragazze in minigonna».
Tra il 1966 e il 1967 il fenomeno beat, rivisitato secondo lo spirito, i costumi e le esigenze delle nuove generazioni, aveva attecchito in tutta Italia, soprattutto al nord. Un po’ ovunque fioccavano partecipati raduni beat (musicali e non), nuovi gruppi di capelloni popolavano i centri cittadini, si sperimentavano addirittura le prime messe beat nelle chiese; la tanto dibattuta «questione giovanile» non era più prerogativa della stampa o di illustri osservatori «vestiti di grigio» e i giovani italiani cominciarono a prendersi i loro spazi, dalle piazze alle università, finanche sulla carta stampata.
Merita una menzione a parte la città più attiva, la più beat della Penisola, ossia Milano. Rispetto alla realtà romana, l’esperienza beat milanese può definirsi più continentale, in quanto più vicina e influenzata dai movimenti provo che dai Paesi Bassi erano arrivati in Francia e Germania Ovest. Ne conseguì una svolta più intellettuale e forse più militante dei beatnik milanesi, una loro maggiore propensione all’atto dimostrativo, alle manifestazioni pubbliche e, soprattutto, alla comunicazione.
Non a caso, nel biennio 1966-67 nel capoluogo lombardo si contano almeno una decina di riviste e ciclostilati autoprodotti. La più importante è stata indubbiamente Mondo Beat, fondata da Vittorio Di Russo e Melchiorre Gerbino, realtà editoriale fusasi con il gruppo dei provo milanesi di Onda Verde. Seppur di breve durata (uscì solo per sette numeri), questa rivista rappresentò un riferimento importante per tutto il movimento beat italiano. Pur non avendo una tendenza ideologica ben definita, su Mondo Beat venivano trattati temi come l’antimilitarismo, l’ecologia, la libertà dei costumi, i diritti civili e molto altro.
Inizialmente supportata anche dal circolo anarchico di Giuseppe Pinelli e (nella fase finale) da Giangiacomo Feltrinelli, la rivista fu di fatto l’unica realtà editoriale a fronteggiare la campagna denigratoria della stampa nazionale e, in particolare, di uno scatenato Corriere della Sera, soprattutto in seguito allo spostamento della redazione dalla «cava» di via Vicenza a via Ripamonti, nel quartiere Vigentino, dove fu allestito (pagando regolare affitto) un campeggio libero, ribattezzato ironicamente «Barbonia City» o «Nuova Barbonia».
La prima comune beatnik d’Italia (circa 150 tra ragazzi e ragazze) durò poco più di due mesi. Tra genitori disperati in cerca dei figli scappati di casa, il crescente sospetto che nel campeggio si facesse uso di droghe e gli articoli raccapriccianti del Corriere («i giovani si giocano le ragazze a dadi»), intorno alla tendopoli di via Ripamonti fu montato un clima di tensione insostenibile. Così, nella notte del 12 giugno 1967, i capelloni di «Nuova Barbonia» furono sgomberati con la forza e quel che rimaneva del loro campeggio venne letteralmente bonificato dal SID (Servizio Immondizie Domestiche), con 500 litri di disinfettante. La seconda profezia di Bugialli si era dunque avverata.
Roma non era Parigi, ma neanche Milano. La lunga vicenda dei capelloni di piazza di Spagna delinea bene le differenze tra l’esperienza beat romana e quella milanese e del nord Italia. Come ha spiegato esaustivamente l’antropologo Roberto De Angelis nel suo saggio Giovani prima della rivolta, pubblicato nel 1998 «nella Capitale il fenomeno beat è esclusivamente di strada, fatto di ragazzi del proletariato giovanile, coerentemente fuggiti di casa, ma senza una situazione aggregativa e senza leader né letterati, né ideologici ispirati alla beat generation (…) a Roma non trovarono traccia di un referente esistenziale, aggregativo, organizzativo, nessun contenuto che riuscisse a dare forma ai bisogni e ai disagi».
Pur avendo scelto i luoghi e le vie percorse nei decenni precedenti dal mondo intellettuale romano, i beatnik erano tuttavia molto distanti dagli esistenzialisti degli anni Cinquanta. Roma (come tutta la Penisola) non era pronta ad accogliere questi nuovi capelloni, a comprendere i loro discorsi sull’emancipazione sessuale, sull’obiezione di coscienza o i loro slogan contro la guerra in Vietnam, ad accettare il loro inconsueto stile di vita, i loro capelli lunghi, i loro pantaloni stracciati. Eppure quei giovani trasandati avevano qualcosa da dire, da esprimere. Questo è quanto scriveva dalla Capitale un beatnik anonimo il 1° marzo 1967 sulla rivista Mondo Beat:
«Cosa accade a piazza di Spagna? Accade che dei poeti, da quanto tempo non posso dire questa parola (sì poeti), hanno incominciato a far sentire la loro voce. Nati come maledetti nelle caves, nei locali beat, nelle osterie fumose, ora sono usciti alla luce del sole per violentare i borghesi. Non hanno formato un gruppo, sono troppo liberi (…) solo una rabbia hanno in comune, un’incavolatura generale, ma buona (oh, sì, buona) contro le strutture di questa società meccanica-chimica-industriale-atomica-pubblicitaria».
«Maledetti» da una insofferente classe borghese, apprezzati dai più giovani del ceto popolare, questi «poeti di strada» lasciarono comunque un segno importante nella società italiana degli anni Sessanta e buona parte di quel seminato sbocciò negli anni della contestazione. Nonostante il Sessantotto abbia preso altre direzioni, più ideologiche, più militanti, molte delle conquiste civili del decennio successivo affondano le loro radici in quei primi movimenti di protesta.
All’alba dei Settanta anche il concetto di capellone subì una sorta di rivisitazione mediatica e sulle solite testate giornalistiche divenne sostanzialmente sinonimo di drogato. A partire dallo scandalo (montato ad arte) del Barcone sul Tevere nel marzo del 1970, la caccia al capellone si concentrò soprattutto sui consumatori delle droghe leggere e sulle fasce sociali più basse.
Un’ultima curiosità. Piazza di Spagna continuò a essere teatro dei movimenti più underground della Capitale per moltissimo tempo: dopo l’ondata dei beatnik apparvero i primi hippie, seguiti poi dagli indiani metropolitani nel corso di tutti gli anni Settanta, mentre negli ultimi due decenni del secolo fu sovente popolata dai giovani appartenenti alle subculture punk e dark.
Con l’avvento dei Duemila, Trinità dei Monti smise di essere un punto di ritrovo delle nuove sottoculture giovanili. Non solo: di recente un provvedimento disposto dal Comune di Roma vieta addirittura di sedersi sulla celebre scalinata di piazza di Spagna. La motivazione addotta è sempre la stessa, il decoro. Evidentemente quei «signori vestiti di grigio» sono sopravvissuti nel tempo.