Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
Il sito comprende sei aree tematiche e ben ventidue sottocategorie con centinaia di pezzi su anni di piombo, strategia della tensione, vicende e personaggi più o meno misconosciuti di un’epoca soltanto apparentemente lontana. Per rinfrescare la memoria di chi c’era e far capire a chi era troppo giovane o non era ancora nato.
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Si riaccende la polemica sulla Rai-Tv. Cioè sul modo in cui questo potentissimo strumento di informazione e di persuasione deve essere usato. E tutti i cittadini che hanno a cuore le sorti della libertà faranno bene a non estraniarsene, perché potrebbe non esserci più un’altra occasione di discutere, in futuro, su questi problemi.
A iniziare la polemica sono stati i giornalisti radiotelevisivi, con un comunicato che dice: «Di fronte alle violenze squadristiche a Milano, Reggio Calabria, Catanzaro e altre città italiane; alle manifestazioni democratiche antifasciste; agli ultimi gravi fatti dell’Aquila, i giornalisti radiotelevisivi hanno avvertito in modo acuto i limiti della loro condizione. È stato loro impedito di risalire alle cause, alle responsabilità, al contesto sociale, economico, politico, dal quale quei fatti, gravi e pericolosi, sono scaturiti. Una serie di pressioni obiettivamente limita la libertà di scelta e di espressione dei giornalisti o quanto meno costituisce un alibi dietro cui è possibile trincerarsi. Il risultato è che l’informazione radiotelevisiva finisce quasi sempre per far prevalere elementi ufficiali, addomesticati, in ultima analisi poco credibili»
Quale democratico potrebbe non trovarsi d’accordo con una protesta del genere? Si afferma, in sostanza, che il governo ha chiuso la bocca ai giornalisti radiotelevisivi, i quali non hanno potuto dire la verità. Milioni di telespettatori sono stati cioè disinformati dall’ente pubblico che esiste unicamente per assicurare il pubblico servizio di un’informazione imparziale ed obiettiva. Ce n’è abbastanza per chiedere, sull’argomento, una inchiesta parlamentare. La denuncia dell’AGIRT (che è l’associazione dei giornalisti radiotelevisivi) non può cadere nel vuoto. Quali pressioni ci sono state? Da parte di chi? Che cosa significa che hanno prevalso «elementi ufficiali e addomesticati»? Come hanno fatto a prevalere?
Il discorso dei giornalisti televisivi è formalmente inattaccabile, perché contiene una domanda di libertà. Viene anzi la tentazione di sorvolare sul fatto che l’AGIRT è una associazione fortemente inclinata a sinistra, che riflette gli orientamenti della sinistra democristiana, del Psi e del Pci. Tutte le volte che i giornalisti televisivi ricordano di essere tali prima che uomini di partito («imbucati» nella Rai-Tv da potenti personaggi che pretendono poi servizi e fedeltà) l’opinione pubblica è con loro.
Oggi sono in agitazione per la pesante censura che è calata sui servizi dalla Calabria e dall’Aquila. Davanti a una commissione parlamentare direbbero che la Rai-Tv non ha praticamente voluto informare il pubblico sui fatti di Reggio. Nei primi mesi della rivolta le barricate sono state addirittura ignorate: nessun vero reportage, solo qualche rapido cenno accompagnato da alcune prediche contro la violenza, sterili perché astratte, fuori dalla realtà. I primi filmati del tutto insufficienti comparvero in ottobre, dopo il terzo morto. Ma i reggini continuavano a essere chiamati teppisti e ciò contribuiva a fomentare la loro sconsiderata reazione. Al settimo, ottavo, mese, la rivolta minacciava di provocare una carneficina.
Eppure la Tv non le dedicava ancora una inchiesta degna di tale nome. Nessun giornalista fu inviato sulle barricate per capire che cosa volessero i «guerriglieri» e per registrare il loro punto di vista. Quando la rivolta incominciò finalmente a calare di tono, furono invece trasmessi lunghi filmati sulla «normalizzazione» di Reggio Calabria: negozi che riaprivano, automobili che riprendevano a circolare, massaie che tornavano a fare la spesa. Tre partiti potevano avere interesse a questo tipo di disinformazione. La Dc, per l’equivoco comportamento dei suoi esponenti reggini. Il Pri, perché uno degli ispiratori dei moti di Reggio è un repubblicano. E soprattutto il Psi, perché ha un segretario calabrese che aveva ormai promesso il capoluogo a Catanzaro.
I giornalisti dell’AGIRT potrebbero anche spiegare come mai, al tempo dei fatti di Polonia, il telegiornale italiano sia stato praticamente l’unico a non fornire l’esatto numero degli operai di Stettino e Danzica uccisi dalla polizia comunista: quarantacinque. Eppure si trattava di una cifra ufficiale di fonte polacca. L’avevano resa nota le stesse autorità di Varsavia per smentire la voce che le vittime delle sparatorie fossero addirittura trecento. Quando poi si è avuta la seconda ondata di scioperi, il telegiornale italiano è stato l’unico, in Occidente, a non spiegarne con sufficiente chiarezza i motivi. Che cosa volevano gli operai polacchi? Sapere da Gierek dove fossero andati a finire i corpi dei quarantacinque compagni assassinati. Interessato alla disinformazione del pubblico, in questo caso, non poteva essere che il Pci. Con la polizia di un Paese comunista che ammazza stuoli di scioperanti, è difficile poi sostenere che la polizia italiana è la più brutale del mondo.
Dal fatto che la notizia non filtrò fino ai teleschermi si può comprendere quanto il Pci sia ben rappresentato all’interno della Rai-Tv. E noi non escludiamo affatto che l’AGIRT voglia sinceramente liberarsi anche delle pressioni del Pci.
Ma il discorso sull’uso che si fa della radiotelevisione deve essere allargato. Il telegiornale, in fondo, è soltanto una goccia nel mare dei programmi. Ci sono i documentari e i cosiddetti rotocalchi televisivi. E infine si può disinformare o condizionare il pubblico anche attraverso gli spettacoli più banali. Le dittature conoscono molto bene il potere di suggestione del mezzo radiofonico e televisivo. Oltre ai giornalisti, bisognerebbe perciò sentire anche i programmisti. Anch’essi si trovano nell’ente per meriti politici e hanno perciò dei problemi con partiti di appartenenza. A noi sembra che la Rai-Tv non sia, negli altri programmi, più onesta e obiettiva di quanto mostri di essere nel telegiornale.
E basti qualche esempio dei più recenti casi. Una rievocazione delle Cinque giornate di Milano ha tentato di farci credere che Carlo Cattaneo fosse una specie di marxista incompreso e Gabrio Casati un doppiogiochista infingardo «venduto» ai Savoia. Il professor Franco Valsecchi (che era stato chiamato a far da consulente storico per quella trasmissione) si indignò e scrisse lettere di protesta che non sono servite a nulla. Sulla maniera televisiva di raccontarci la storia d’Italia e del mondo (una maniera manichea: il male tutto da una parte, la luce soltanto dall’altra) potremmo ridere a lungo se non ci fosse piuttosto da piangere.
La Tv ha fatto bene ad accettare il fenomeno contestativo, che era una realtà. Però ha dimenticato che esso prende vita fra contestatori e contestati e che questi ultimo sono, di solito, una maggioranza. Di conseguenza ha ceduto il microfono più spesso ai primi che ai secondi. Oppure ha creato, nei dibattiti, un falso equilibrio. È successo centinaia di volte. In molti casi sono scoppiate delle polemiche sui «tagli» effettuati in sede di montaggio a danno dei contestati. C’era falso equilibrio, ad esempio, in una recente puntata di Sottoprocesso dedicata ai libri scolastici. Alla tesi dell’abolizione completa dei libri di testo (sostenuta in Italia sì e no da trecento professori) si dedicava almeno la metà del tempo disponibile, lasciando parlare due malinconici maoisti fino alla noia. Per il dibattito serio, che è quello sulla riforma dei libri, non c’è stato abbastanza tempo. Si è dovuto tagliar corto.
TV7 non si è comportata molto meglio con la supercontestata e umiliatissima categoria degli insegnanti. La settimana scorsa, con la scusa di voler affrontare i loro problemi, ha dedicato in realtà un servizio alla memoria di don Lorenzo Milani (il defunto parroco di Barbiana, autore di Lettera a una professoressa: un libro che mette sotto accusa la scuola italiana in generale e gli insegnanti in particolare). Molti professori e professoresse si azzuffavano intorno alla validità di questo libro, il commentatore leggeva frasi e sentenze di don Milani, facendo chiaramente capire a chi andassero le simpatie di TV7.
E i problemi della categoria? Abbiamo avuto soltanto una notizia: che l’ala sinistra del sindacato autonomo ha deciso di confluire nella CGIL. Non si è detto naturalmente che anche con questo apporto la CGIL controlla una percentuale infima di professori. Che per l’80 per cento aderiscono tuttora al sindacato autonomo. Ma i sindacati autonomi costituiscono dappertutto una spina nel fianco per la CGIL e il PCI e allora tutto si spiega.
Io vieto, tu vieti: altro programma andato in onda la scorsa settimana. «L’ambiente scenico dello spettacolo», si legge in una presentazione, «è una scuola dove un professore, in cartone animato, spiega ai giovani i vari divieti. Ma gli allievi non comprendono: per loro il divieto è assurdo». Qui i programmisti televisivi attaccano, evidentemente, il cosiddetto autoritarismo nella scuola e nella società. Il cartone animato sembra mettere in burletta il professore, il padre, il carabiniere, l’industriale, il capitalista. I giovani lasciano sberleffi e se ne infischiano. Gli autori del programma (Sodano, Chiaretti e Zac) hanno avuto dalla Tv un’ora intera per far politica davanti a molti milioni di telespettatori, senza pericolo di contraddittorio. Professori, padri, carabinieri e industriali sono serviti.
Si potrebbe continuare all’infinito. Nella rubrica radiofonica Chiamate Roma 3131, il presentatore tiene ogni giorno lezioni di «progressismo», bistratta gli ascoltatori che la pensano diversamente da lui, insegna agli scolari che, tutto sommato, fanno bene a occupare le scuole, spiega che l’adulterio non è sempre da condannare. Tutte le opinioni sono rispettabili: ma altro è esprimerle in privato o davanti a un pubblico limitato, altro diffonderle per radio a una platea immensa che potrebbe fraintenderle o accettarle acriticamente. Le vie della persuasione occulta, si sa, sono infinite. E anche quelle della propaganda politica.
Le nostre vogliono essere osservazioni costruttive. Non rimpiangiamo affatto la televisione di dieci anni fa, quasi del tutto sorda ai problemi politici e sociali, stagnante, bigotta, controllata dai monsignori. Preferiamo in ogni caso questa. Però ci sembra che dal conformismo conservatore di un tempo si stia passando di fatto a un conformismo di sinistra forse meno stupido, ma certo più fazioso. La verità non è rispettata e anche l’opinione degli anticomunisti non è rispettata. E poiché il passaggio da un conformismo all’altro dipende dalla soffocante intromissione dei partiti in tutti i settori e livelli dell’azienda, ogni protesta contro questo stato di cose ci trova solidali.
Ma vediamo come si è potuta creare una situazione tanto incresciosa. La Rai-Tv non è sostanzialmente diversa dall’EIAR, con la differenza che il vecchio ente fascista era appannaggio di un solo partito, mentre la Rai-Tv ha subìto un processo di lottizzazione fra diversi partiti. Oggi è divisa principalmente fra democristiani e socialisti, ma si stanno insinuando alla svelta anche i comunisti. Nel suo interno, assunzioni e carriere sono decise dai meriti politici. Esempio: poco più di cinque anni fa, un funzionario della Rai viene «distaccato» presso la segreteria di un noto esponente democristiano. Al momento del distacco ha la carica di capo servizio nel settore giornalistico. Rientra nella primavera del 1970 con il titolo di vicedirettore centrale.
Stando così le cose è evidente che all’interno della Rai-Tv la politica non può non dominare incontrastata su tutto. E porta con sé gli obbiettivi di ciascun partito e delle varie correnti, la lotta per il potere, l’ambizione di questo o quel personaggio, la continua e faticosa ricerca di un accordo, gli equilibri precari. Di conseguenza, abbiamo l’informazione lacunosa, i programmi sbagliati e una pessima amministrazione. Concepita come terreno di conquista, dove ogni forza politica deve espandersi più che può per non lasciare spazio alle forze rivali, la Rai-Tv diventa un carrozzone sempre più grosso e ingombrante.
Le entrate dell’ente si aggirano oggi sui 150 miliardi. Le due voci maggiori sono: pubblicità e abbonamenti. Il personale da solo costa più di 80 miliardi. Si tratta di 10500 dipendenti. Per avere una idea di tanta pletora, basti pensare che nella piccola sede di Pescara lavorano più di 50 persone. I giornalisti sono circa 600. Moltissimi dipendenti d’ogni categoria non fanno nulla e trascorrono il loro tempo a criticare l’azienda. A volte continuano a percepire lo stipendio anche quando lasciano la Rai.
Nel 1969 il segretario di un alto dirigente si dimise per motivi di famiglia. L’alto dirigente lo pregò di restare in qualche modo legato alla Rai per coordinare lavori di studio e documentazione. Questo «qualche modo» significava: retribuzione complessiva eguale al precedente stipendio, ufficio e segretaria a disposizione, telefono diretto, televisione di servizio, autovettura aziendale, rimborso spese di viaggio ed altro ancora.
La Rai-Tv, che quest’anno dovrebbe avere un deficit di 13 miliardi, pullula di direttori, condirettori e vicedirettori. Fra un direttore centrale – che ha diritto a moquette, salottino, segreteria, tenda con mantovane e festoni laterali – e un semplice impiegato che ha diritto ad avere tendine applicate al vetro e seggiola senza braccioli, c’è una gamma infinita di gradazioni. Non diciamo queste cose per amor di pettegolezzo, ma perché riteniamo opportuno illustrare il clima in cui nascono le trasmissioni televisive. Trasmissioni il cui risultato è che il telegiornale è imbavagliato e che si fa propaganda politica anche nei programmi pomeridiani dedicati ai bambini.
La crisi è grave, la situazione pesante: non c’è ormai partito, corrente o associazione che non chieda la riforma della Rai-Tv. Giacciono davanti al parlamento diverse proposte di legge. Si è parlato di «irizzazione» e nazionalizzazione, di democratizzazione e decentramento, di modello inglese e modello francese. Di fatto non si procede perché in ogni caso i partiti temono di perderci qualcosa. Dc e Psi con i loro uomini insediati nelle alte sfere, si controllano a vicenda e non possono impedire l’avanzata del Pci. Il quale preme dal basso attraverso le organizzazioni sindacali, minaccia scioperi, assume gradualmente il controllo delle assemblee, delle varie associazioni interne, dei comitati di redazione. E poiché non incontra resistenze degne di nota, ma soltanto complicità e non disinteressate amicizie, eccolo tentare il colpo più importante: il controllo delle informazioni. Perciò abbiamo dedicato al problema questo servizio. La rivolta dell’AGIRT contro i partiti – assolutamente giustificabile in sé e per sé – ci dice che forse la libertà in questo Paese ha davvero i giorni contati.