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Tra cinema e realtà. La vicenda di Domenico Semeraro, il nano di Termini

Redazione Spazio70

La cronaca che diventa cinema, il cinema che diventa cronaca

Bari, 11 giugno 1972. Dopo un’inquietante susseguirsi di infanticidi avvenuti a partire dall’autunno del 1971 tra i pozzi e le cisterne dei «truscianti» di Bitonto, il procuratore della Repubblica Vincenzo Maria Bisceglie emette un mandato di cattura contro una donna di 59 anni soprannominata dalla stampa «nonna belva», accusata ufficialmente soltanto di uno dei cinque orrendi delitti, quello del suo nipotino Giuseppe, di appena un mese, gettato e lasciato annegare in un pozzo di acqua fetida e stagnante. Il nome di «nonna belva» è Maria Giuseppina Semeraro.

UN TORBIDO «MENAGE A TROIS»

Rispettivamente, da sinistra a destra, Domenico Semeraro e Michela Palazzini. In alto, Barbara Bouchet e il ragazzino comparso in «Non si sevizia un paperino»

Roma, 26 aprile 1990. Presso una discarica di Corcolle, occultato all’interno di un sacco della spazzatura, viene rinvenuto il cadavere di un uomo affetto da nanismo. Si tratta di un quarantaseienne originario di Ostuni conosciuto come «il nano di Termini», impiegato presso l’istituto di cinematografia, imbalsamatore di animali e noto frequentatore degli ambienti della prostituzione maschile.

L’uomo è stato strangolato al termine di un torbido «menage a trois» con i suoi giovanissimi assassini: Armando Lovaglio e Michela Palazzini, secondo i quali sarebbe stato lo stesso «nano» a minacciare di uccidere la coppia: «Come già aveva fatto con un prostituto della stazione che poi ha sciolto nell’acido», riferiranno agli inquirenti. Il nome del «nano di Termini» è Domenico Semeraro. La banale coincidenza del cognome non è l’unico elemento che in qualche modo accomuna queste due torbide storie, tra loro molto lontane.

Nel 1972 il regista Lucio Fulci realizza un film liberamente ispirato ai drammatici fatti di Bitonto: «Non si sevizia un paperino», con Tomas Milian e Barbara Bouchet. «Altri produttori si sarebbero impanicati sul soggetto — racconta Fulci — in quanto si svolge in mezzo ai poveracci, in un paesaccio. Un giallo così atipico forse avrebbe provocato dubbi e masturbazioni produttive, prima. Loro mi lasciarono fare tutto. Era un buon periodo per i film che facevo».

IL «RAGAZZINO» DI «NON SI SEVIZIA UN PAPERINO»? ERA LUI… 

In questo thriller vietato ai minori di 18 anni, la Bouchet interpreta Patrizia, una bella ragazza dalla quale sembrano trasparire inquietanti tendenze pedofile. In una nota sequenza del film (sublimata dal magnetico erotismo della splendida attrice), la giovane tenta di sedurre un bambino mostrandosi completamente nuda dinnanzi a lui, provocandolo ed invitandolo ad avvicinarsi e a «guardare tutto bene». Ed ecco che nello spettatore si insinua il dubbio che è alla base del giallo: «è forse lei l’assassina?».

La presenza di un ragazzino rende la scena particolarmente forte per l’epoca e l’attrice, il produttore ed il regista si ritrovano a dover affrontare una seccatura legale, l’ennesima per Fulci. L’accusa questa volta è pesantissima: corruzione di minori. Tuttavia, come per la precedente pellicola del regista romano, gli imputati saranno tutti assolti mostrando la differenza tra il prodotto destinato al pubblico ed il girato originale in studio. Quel bambino infatti non è mai stato dinnanzi a Barbara Bouchet e l’interazione tra i due è il frutto di quel meraviglioso meccanismo creativo che caratterizza il cinema: il montaggio. Vi è soltanto un’inquadratura durante la quale gli attori sembrerebbero davvero l’uno difronte all’altra ma lì il bambino è ripreso di spalle.

Nel gennaio del 1973, tra le pagine del quotidiano La Stampa, possiamo leggere quanto segue: «Roma. Barbara Bouchet accusata di aver corrotto un minorenne per un’audace sequenza del film “Non si sevizia un paperino”. L’attrice tedesca in tribunale si è difesa dicendo che il presunto ragazzino era un uomo di statura molto bassa».

La controfigura di cui parla la Bouchet è proprio Domenico Semeraro, il «nano di Termini», la cui morbosa vicenda ha ispirato il film «L’imbalsamatore» di Matteo Garrone (2002). Nel 1971 Fulci era stato già portato in tribunale a seguito dell’uscita di un suo film. Un’associazione animalista lo accusò di aver perpetrato torture e uccisioni ai danni di bestiole indifese per la realizzazione di una sequenza di «Una lucertola con la pelle di donna», con Florinda Bolkan. La scena incriminata mostrava dei cani vivisezionati, ansimanti e sofferenti, all’interno di un laboratorio. Fulci portò in aula il maestro di effetti speciali Carlo Rambaldi che mostrò alla corte i girati non montati ed i pupazzi utilizzati per la ripresa. Ne conseguì, ovviamente, l’assoluzione.