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«La droga? Meglio se fosse legale». Parla un tossicomane newyorkese degli anni Sessanta

Redazione Spazio70

«L'elemento criminale? Verrebbe subito eliminato. Anche un alcoolizzato fa del male a se stesso, eppure lui può entrare in un negozio e comprarsi una bottiglia di whisky»

«Avevo tredici anni quando mi sono fatto il primo schizzo. Ho fatto subito la diretta. Sono andato con un tipo, un mio amico — non proprio un amico, ma per modo di dire — siamo andati dall’altra parte del quartiere per prendere della roba per altri ragazzi. Ci hanno dato una cartina gratis e lui mi ha domandato se avevo mai preso la droga. Ho detto di sì, allora lui ha detto, va bene. Così siamo andati sul tetto ed è stato lì che mi sono dato la prima botta. È stato nel 1953, era il sabato santo. 

Nessuno di noi aveva più di diciotto anni. Io frequentavo tipi di quindici, sedici anni e quasi tutti prendevano gli stupefacenti in una forma o nell’altra. Fumavano il fieno o fiutavano o facevano la sottocutanea o la diretta. Per via dell’esplosione demografica, sono arrivati qua diversi ragazzi della periferia e si vede che si sono portati dietro il vizio. I ragazzi che frequentavo io erano tutti nati nel quartiere, ma la cosa deve essere arrivata da fuori. Perché non s’era mai sentita, prima. 

Al massimo, prima, i ragazzi bevevano. È da 1950, è da allora che la droga ha cominciato ad arrivare da queste parti e il quartiere è diventato drogato sul serio. Ha influito sulla vita di quasi tutti quelli che frequentavo. E anzi diversi dei miei migliori amici sono morti, adesso. Tutti morti di superdosi. Potrei dire i nomi di almeno tre. La mia seconda puntura me la sono fatta due mesi dopo, durante l’estate. Ho incontrato uno e siamo andati fino a Est Broadway. Siamo scesi in una cantina e ci siamo divisi una bustina da tre dollari. Abbiamo cominciato a drogarci tutti i week-end e dopo un po’ tutte le sere. 

Quando andavo alla scuola pubblica, mi schizzavo dopo scuola verso le 4 o le 5 del pomeriggio. Dopo cena scendevamo tutti in strada, mettevamo i soldi in società e andavamo in centro tutti quanti e ci ridavamo la carica. Ci trovavamo quasi tutti da qualche parte, vicino alla scuola. Ci davamo appuntamento e poi mettevamo insieme i soldi e andavamo in qualche cinema della 42esima strada. Molti di noi non andavano a scuola. 

New York, metà anni Sessanta. Alcuni eroinomani e una prostituta dediti allo spaccio di stupefacenti. Lo scatto di Bill Eppridge — come quello in capo all’articolo, nel quale si vede un poliziotto in borghese fermare una coppia di tossicodipendenti — proviene da uno straordinario reportage della rivista Life (febbraio 1965)

Lavoravo su un camion con il padre di mio zio. Lavoravo per il centro dell’abbigliamento e in Spring Street, in centro. Lavoravo abbastanza duro per un ragazzo di quattordici anni. Non guadagnavo molto, salvo che in estate quando facevo circa quarantacinque dollari alla settimana. Durante la scuola lavoravo solo mezza giornata e facevo venti dollari, che non è male per un ragazzo di quattordici anni. Uscivamo a divertirci con quei soldi; andavamo a ballare e davamo delle feste e mettevamo tutti un contributo per la droga. Non ho né fratelli né sorelle. Mia madre e mio papà sono ancora vivi e penso che sono tutti e due gente per bene. Nessuno ha mai avuto niente da dire sulla mia famiglia. Si vede che io sono la pecora nera.

I miei sono separati da un bel po’ di anni. In questo momento mio padre è all’ospedale dei veterani di Brooklyn. Mia madre abita qui in centro. Avrò avuto sette anni soltanto quando si sono separati. Mi ha tirato su mia madre. Mio padre abitava nel quartiere con mia nonna e lo vedeva quasi tutti i giorni. Mi regalava un paio di dollari di tanto in tanto, cercava sempre di vedere quello che era il mio interesse, sa, si preoccupava se andavo a scuola e diceva a mia madre di dirglielo, se no, che ci pensava lui. Hanno fatto tutti e due quello che potevano. Ho avuto dei buoni genitori. 

Mia madre lavorava in una fabbrica e poi andava a scuola a studiare psicologia e altre cose, e adesso lavora in un ufficio. Ha sempre lavorato tutta la vita. A diciassette anni sono andato via di casa e mi sono sposato. Se devo essere giusto, ho sposato una ragazza molto brava, una ragazza che, be’, un tossicomane non se la meriterebbe una così. Lo sapeva che avevo preso la droga. Sa, ero appena uscito dall’ospedale Riverside. Ho fatto una cura. Ci sono stato otto mesi e dopo andavo all’ambulatorio per i controlli e non ho preso più droga per un anno circa. Ma dopo che mi sono sposato, ho cominciato di nuovo. Lei sapeva tutto di me, voglio dire che non c’era niente di segreto. Sapeva che ero stato anche arrestato e tutto quanto. 

Il problema più grosso è stato che la sua famiglia era contro di me. Perché loro avevano soldi e io non ne avevo; e poi avevo dei precedenti penali. Lei aveva un diploma superiore e io no. Sono stati contro il matrimonio fin dal principio. Abitavano nella Avenue U, a Brooklyn, e quando ci siamo sposati abbiamo preso un appartamento a due isolati dal loro. Ho conosciuto mia moglie nel 1954. Eravamo andati a Coney Island, abbiamo visto un gruppo di ragazze e abbiamo cominciato a scherzare e io ho cominciato a uscire con lei. Siamo stati sempre insieme per tre mesi circa e poi abbiamo litigato e non ci siamo visti per parecchio tempo. E poi verso la fine del 1955 ci siamo rivisti abbiamo ricominciato. Poi abbiamo rotto di nuovo, sono stato arrestato e tutto, sono andato a Riverside e tutto. Ci siamo scritti, e quando sono tornato a casa abbiamo cominciato sul serio; io lavoravo, la portavo ai night e cose così.

Poi alla fine abbiamo deciso di sposarci, e così siamo andati in Messico e ci siamo sposati. Abbiamo preso e via. Ho sposato mia moglie il 25 agosto 1957. Ero stato arrestato il 10 maggio 1956. Avevamo appena finito di schizzarci e io ero a casa mia. Un agente è piombato dentro e mi hanno beccato con tre serie di strumenti. Mia madre non era in casa, lei non sapeva niente e noi andavamo lì per caricarci. Se lo sapeva, mia madre mi ammazzava. 

Facevamo banda. Avevamo i nostri amici, avevamo il nostro gruppo. Se uno aveva gli strumenti, tutti avevano gli strumenti. Niente «tu mi presti gli strumenti che io te ne do una dose». Con questa nuova generazione di tossicomani che sta venendo su, tutto è cambiato, i soldi la droga, i modi della gente. Quando mi hanno arrestato la prima volta, l’agente non aveva un mandato di perquisizione. Legalmente, se avessi trovato i soldi, credo che avrei vinto la causa. Questo qui era un poliziotto di quartiere che ci aveva visti scendere da un tassì e salir su. Avevamo comprato e siamo saliti a bucarci. Quando lui è arrivato su, i miei tre amici se n’erano andati e lui li ha acciuffati dentro al portone, li ha fatti tornare indietro e bussare alla porta. E poi è entrato dentro senza un mandato e ha perquisito la casa, ha trovato gli strumenti e ha sequestrato la prova. È così che è successo di preciso. Era perquisizione e sequestro illegale, ma non avevo i soldi per oppormi. Se avevo i soldi non mi prendevo tre anni con la condizionale; vincevo la causa in tribunale. 

Mia madre ha ricevuto la notizia il giorno che mi hanno arrestato, è venuta al posto di polizia numero 7 e voleva sapere che storia era. Non sapeva che mi bucavo. Magari aveva avuto il sospetto, ma non me l’ha mai detto. Non so come l’ha presa quando l’ha scoperto; non mi ricordo. Non mi ha fatto uscire su cauzione né niente. «Lo lasci dentro, gli farà bene», le hanno detto. Così lei mi ha lasciato dentro. Non ha fatto niente. 

Sono stato nelle Tombe esattamente due settimane e lì l’ho dovuta staccare per forza. Quando il giudice mi ha mandato a Riverside ero pulito. Se mi hanno aiutato a Riverside? Come possono avermi aiutato, dato che sono ritornato alla droga? Sono stato senza bucarmi per un anno, dopo, ma forse era una combinazione dell’arresto, di avere mia moglie e cose del genere. Può darsi che non mi sia stato di nessun aiuto, a Riverside. Ho rifiutato ogni trattamento psichiatrico. Non ne sentivo il bisogno. L’ho rifiutato e credo di aver fatto benissimo senza. 

Il presente passo è tratto dal libro «Drogati al magnetofono» (Arnoldo Mondadori Editore. 1966)

Ero felice con mia moglie? Mah… più o meno, era come tutto il resto. Non so più cosa vuol dire felice o infelice. Andava normalmente. Ce la passavamo bene e tutto quanto. Come è finito il mio matrimonio? La droga ci ha fatto rompere. Mi sono sposato in agosto. Mi hanno arrestato in ottobre. Mi hanno preso insieme con due tipi, avevamo addosso tre cartine di roba. Io ero fuori con la condizionale, a quel tempo, mi hanno dato la libertà vigilata sotto la custodia di mia moglie. È andata avanti due anni e alla fine mi hanno condonato per buona condotta. Ma io prendevo ancora la droga. Il matrimonio è andato all’aria nel 1959, dopo che hanno chiuso il mio procedimento. Abbiamo rotto per via della famiglia di lei. Facevano pressione su di lei e su di me. Continuavano a dirle che io ero un disgraziato e che sarei sempre stato un disgraziato. Lei ha finito per dargli retta e ha divorziato. 

Mia madre non mi conosce più. Questo è successo solo poche settimane fa. Non ci parliamo più e non posso più mettermi in contatto con lei. Lo stesso con il resto della famiglia; si sono tutti stufati di me. Hanno fatto l’impossibile per aiutarmi. Mi sono fatto prestare soldi diverse volte, qualche volta li ho restituiti e qualche volta no. Pochissime volte non li ho restituiti, così potevo sempre farmene prestare degli altri. Non penso che siano stati ingiusti. Anzi, sono stati molto generosi, sono stati molto onesti e voglio bene a tutti. Hanno fatto quello che potevano. Le hanno tentate tutte. Mi hanno dato soldi, mi hanno difeso in tribunale, mi hanno dato da mangiare, da vestire, mi hanno parlato, pregato; mi hanno supplicato, mi hanno sgridato, hanno tentato di tutto, per aiutarmi. Non posso dire niente di male sul loro conto, perché ho una famiglia spettacolosa. Tutto quello che mi è capitato, me lo sono tirato addosso io. Tocca a me venirne fuori. Dal 1956, quando ho lasciato la scuola professionale a sedici anni, sono stato nel sindacato dei tipografi. Finché paghi regolarmente la tua quota, puoi trovare un posto in due minuti, per mezzo del sindacato. Non c’è bisogno che le dica perché adesso non lavoro. Sono in arretrato con le mie quote, sono in arretrato con tutto. È da sei settimane che non lavoro. Mi hanno licenziato. Mi hanno dato la paga e io sono andato a cercare la droga; era un giovedì pomeriggio. Era veramente un buon posto, facevo una media di 120 dollari alla settimana, con gli straordinari. Ma non ho potuto tenermi e così ho perso tutto quanto. 

Mi hanno pagato prima di mezzogiorno e sono andato in centro nell’ora del pranzo perché con il tassì bastano dieci minuti per comprare e quindici minuti per farsi lo schizzo. L’avevo già fatto un paio di volte. Ma quando sono stato in centro, non sono riuscito a trovare nessuno, e m’è toccato continuare a girare, girare, prendere un tassì, poi un altro tassì. Senza accorgermene, erano passate tre ore e ormai non potevo tornare indietro. Così ho detto, al diavolo. Quando sono tornato il giorno dopo ho saputo che ero licenziato.

Di solito cerco di trovarmi un appartamento ammobiliato — sa due stanze e servizi, qualcosa del genere — perché quei posti sporchi non mi piacciono. Di solito vado in un quartiere simpatico e mi trovo un posto pulito. Ma adesso dormo… dormo nella sotterranea. Non ho soldi, allora non ho un posto per dormire né niente. Ma come le dico, quando ho i soldi vado a cercarmi un posto decente e lo tengo pulito anche. È una cosa che mia madre mi ha sempre… stare sempre puliti. E io sono fatto così. Vado tutti i giorni in casa di un mio amico e mi faccio la barba. 

L’idea generale di un tossicomane è di una persona sporca, schifosa, e io cerco di non essere così. Quantunque adesso ho il colletto della camicia sporco… è il sudore, perché oggi si crepa dal caldo. Ma di solito non sono così. Mi cambio la biancheria personale e i calzini tutti i giorni. L’idea generale di un tossicomane è di una persona che è una bestia malvagia, bassa, perversa. Non lo considerano neppure una persona. Ed è uno sbaglio, perché è una persona. Ha dei sentimenti, sa cosa vuol dire voler bene. Pensano che il tossicomane è la cosa più bassa che ci sia sulla terra, e così non è. Se al tossicomane gli si dà appena una possibilità di, come posso dire, di attaccarsi a qualcuno e a qualcosa, lui ci si attacca. Vede, adesso sono tutto agitato. È difficile da spiegare. Ma l’idea che ci si fa del tossicomane è sbagliata, è completamente sbagliata. Perché sono dei malati. Hanno bisogno non soltanto di assistenza psicologica, ma di cure mediche. 

Ma non è un problema che si risolve pestando una persona o arrestandola o mettendola in galera, come un delinquente comune, che non ha nessun bisogno della droga, che va a rubare in giro perché vuole rubare, perché non vuole lavorare e allora per vivere ruba. La ragione perché il tossicomane ruba è che proprio il pubblico lo costringe a farlo, in un certo senso. Il pubblico condanna la droga, condanna il tossicomane. Ma mentre condanna mette su un mercato per la vendita illegale della droga. Fa salire i prezzi — è proprio il pubblico che fa salire i prezzi — e questo vuol dire che per il tossicomane è sempre più difficile avere la droga. Ora, se fosse legale, quello che paghiamo cinque dollari, potremmo andare in farmacia a prenderlo magari a tre cents. Ora se si potesse andare in farmacia a comprarla per tre cents, non ci sarebbe più bisogno di rubare. Giusto? Voglio dire che l’elemento criminale verrebbe subito eliminato. 

Va bene, loro dicono, è sbagliato, perché voi fate del male a voi stessi. Ma allora anche un alcoolizzato fa del male a se stesso, eppure lui può entrare in un negozio e comprarsi una bottiglia di whisky. E invece il tossicomane non può andare tranquillamente a comperare la sua dose. Per questo io penso che è il pubblico che fa di un tossicomane quello che è. Non che io voglia dare la colpa alla gente; il tossicomane non avrebbe mai dovuto cominciare a prendere la droga, questo è chiaro. Ma è la gente che fa di lui quello che è e poi quando capita che lui ruba qualcosa loro strillano. E adesso c’è un sacco di gente che dice, aiutiamo i tossicomani. Ma quale aiuto? Sono andato all’ospedale circa due mesi fa. Sono andato al Metropolitan per farmi ricoverare e cosa mi dicono? Ti diamo un giorno per il tuo turno. Due mesi fa mi hanno dato un giorno — il 10 maggio — perché ritorni lì a staccare. Io l’ho già fatto a casa. Sono due giorni, adesso, che non uso droga. Ma se dovevo aspettare il 10 maggio, Dio sa cosa sarebbe successo!

Io non credo che i tossicomani sono dei delinquenti, almeno non quelli che conosco io. Siamo cresciuti tutti da famiglie buone. Le nostre famiglie hanno tutte un buon nome, buoni precedenti. È solo per via del costo degli stupefacenti. Devono andare da qualche parte a trovare i soldi. Solo questa è la ragione perché rubano. Sta rovinando il paese. Sono un tossicomane, ma sono lo stesso un cittadino americano e sarei molto contento di combattere per il mio paese. Ma adesso sta rovinando gli adolescenti per davvero. Ne ammazza una quantità. Voglio dire, è una cosa che non va».