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L’inchiesta di OP sull’omicidio di Alberto Giaquinto

Redazione Spazio70

Da un numero di OP — Osservatore politico (29 gennaio 1979)

Roma 1979, la prima settimana di sangue si è appena conclusa. Sono rimasti sul terreno due giovani ragazzi, ma i colpevoli sono ancora a piede libero. Gli assassini di Stefano Cecchetti riusciranno forse a non essere individuati: è successo tante altre volte! Ma il killer di Centocelle è già stato identificato. Alberto Giaquinto è stato ucciso con un colpo alla nuca da un vice brigadiere in borghese, Alessio Speranza. La versione dell’accaduto data dalla Questura e riconfermata al Senato dal Ministro dell’interno non ha retto davanti ai dati di fatto dell’autopsia ed alle testimonianze di chi ha visto. La famiglia vuol rincorrere la verità fino in fondo. Noi gli abbiamo dato una voce, la voce del padre di Alberto. Siamo andati nella sua casa dell’EUR ancor prima dei funerali. Ci ha accolto con estrema cortesia nonostante il dolore provocatogli dalle nostre domande. Intorno a lui, oltre ai parenti, c’erano gli amici del figlio: una quindicina di adolescenti che per la verità non ci hanno squadrato con quell’aria truculenta dipinta con tanto realismo dai soliti giornali. Non solo. Siamo anche in grado di dare la parola a chi c’era, a chi quella sera del 10 gennaio si trovava a Centocelle insieme ad Alberto Giaquinto per una manifestazione di protesta finita tragicamente. Ci hanno telefonato in redazione chiedendoci di ascoltarli e noi li abbiamo incontrati. Appuntamento, colloquio dentro una macchina, due ragazzi molto giovani; riportiamo la loro testimonianza.

«MIO FIGLIO? MI HANNO MANDATO LA SUA ROBA CON SU SCRITTO “PACCO SPORCO”. ERA SPORCA DI SANGUE»

Alberto Giaquinto

D: Mi vuole parlare un po’ di suo figlio? Si sono dette tante cose sul suo conto…

R: Che cosa hanno detto? Che non c’era rapporto tra me e mio figlio?

D: Anche che era un violento, un picchiatore, un elemento poco raccomandabile.

R: È falso. È falso perché mi sarei accorto in casa se avesse avuto qualcosa. Non aveva niente. Anche la polizia è venuta ed ha trovato solo le lance che mi ha portato mio cognato dalla Somalia: trofei di caccia, niente altro. Hanno trovato un’agenda di indirizzi e l’hanno sequestrata. Poi sono andati in queste case e non hanno trovato niente neanche a questi ragazzi. Se Alberto avesse frequentato una massa di facinorosi, qualcosa avrebbero trovato. Invece niente.

D: Alberto faceva politica attiva?

R: Mai. Era un simpatizzante fino ad un anno e mezzo fa. Poi ha smesso completamente. Gli dissi: «Figlio mio, se continui mi farai morire di crepacuore. Devi solo pensare a studiare». E devo dire la verità, non è che lui studiasse con piacere, per lui era un sacrificio. Se lo faceva era perché mi voleva bene.

D: Come mai allora quella sera si è trovato a Centocelle?

R: Non lo so, non lo sappiamo nessuno. Quella mattina, io in genere non sto mai a casa, vado via e torno la sera, non mi sono sentito bene e sono rimasto. Lui mi è venuto vicino e mi ha confortato, poi si è messo a studiare. Il pomeriggio doveva andare a scuola, ci sono i doppi turni e mercoledì doveva andare di pomeriggio. Abbiamo pranzato insieme. Pieno di vita, pieno di gioia. Era un ragazzo che si alzava la mattina e diceva alla madre di essere felice di vivere! Io dico con tutta la forza che il ragazzo era un inno alla vita! Le ultime parole che ha detto alla madre sono state per rassicurarla che non sarebbe rientrato tardi. Poi è uscito con la sua moto e non lo abbiamo visto più.

D: Pensa che possa esserci stato trascinato?

R: Non sappiamo niente. Non ci rendiamo conto. Se c’è andato, se c’è stato spinto, trascinato…

D: Lei è quindi convinto che Alberto non si occupasse più di politica.

R: Assolutamente. Adesso gli era presa la fissazione delle ragazze. Gli dicevo di pensare soprattutto allo studio. Alberto rispondeva che si voleva godere la vita. Era un ragazzo aperto, leale e sincero. Altro che chiuso come ha scritto qualche giornale. Era un estroverso. Ed è stato colpito alla nuca. Guardi che io non voglio coprirlo né mascherarlo. Io cerco solo la verità. Una verità che non si potrà comprimere per molto; dovrà venire fuori.

D: Ha visto le diverse versioni date dell’accaduto e le testimonianze anonime riportate dai giornali? Ha una sua versione?

R: Sono persone che non conosco, che si sono offerte spontaneamente ed hanno detto che il ragazzo camminava frettolosamente per conto suo e ad un certo punto è caduto, tanto che sembrava si fosse sentito male. Io come posso saperlo? Ero ad Ostia, stavo facendo delle preparazioni in laboratorio quando mi hanno telefonato e sono corso al San Giovanni pensando che fosse ferito. Era stata non so se la televisione od un giornale a telefonare alla zia che abita qui vicino dicendo che era stato ricoverato. Io speravo di trovarlo ferito.

D: La polizia quindi non l’ha avvertita?

R: No, non ha avvertito nessuno. Ho saputo ieri sera che il ragazzo è rimasto per ben venti minuti a terra prima dell’arrivo dell’autoambulanza. Hanno persino impedito che fosse soccorso da una macchina per un estremo tentativo di salvarlo. Lo hanno lasciato in terra, senza far avvicinare nessuno, mentre il ragazzo era scosso da convulsioni. Poi avrà impiegato un’altra mezz’ora per arrivare all’ospedale… Così dopo circa un’ora, le speranze, già tenui, si sono annullate. È completamente mancato il soccorso.

D: E gli agenti dell’auto-civetta, uno dei quali ha sparato?

R: Mah, che sappiamo? Sembra che l’auto sia stata richiamata dalla questura. Certo è che quando sono arrivati gli altri non c’era più. Si sa solo che era una 128 bianca, ma la verità in qualche modo dovrà saltar fuori.

D: Un cittadino, il dott. Coltellacci, ha fatto un esposto alla magistratura

R: Sì. Tutti coloro che mi sono venuti a trovare mi hanno chiesto se lo conosco. Non lo conosco, ma certo è un cittadino come tanti altri che si è sentito in dovere di fare qualcosa…

D: E può essere utile?

R: Tutto è utile per conoscere la verità. Se ha dei particolari ce li fornisca.

D: Lei ha chiesto la prova del guanto di paraffina…

R: Certo. Mi sembra la cosa più obiettiva. Vediamo se Alberto ha sparato. Ma non ha fatto niente di tutto questo, e verrà fuori. Mi sono già costituito parte civile: era mio dovere. Il nome dell’agente che ha sparato ancora non si sa, ma certo non può essere un fantasma… Anche questo verrà fuori, dovrà venire fuori. (Il dott. Giaquinto ancora non sa che in una interrogazione l’on. G. Almirante ha rivelato il nome dell’uccisore del figlio n.d.r.)

D: Sua moglie ha rilasciato una bella dichiarazione: una condanna di qualsiasi violenza. Ma la violenza come è nata? E soprattutto bastano le dichiarazioni per farla finire?

R: Mia moglie ha detto quello che si sentiva. Com’è nata? Cerchiamo le colpe della violenza? Le colpe di un sistema che a distanza di trenta-quaranta anni ancora parla di certe cose. Ancora ci sono i fantasmi di un regime che mettono paura. Perché incutono paura? O è la coscienza di qualcuno che ha dei rimorsi? Io non lo so. È mai possibile che ancora oggi si facciano le lotte tra guelfi e ghibellini? Serve a chi vuol fomentare. Dissi ad Alberto di essere un ragazzo sereno perché se si guarda a quel che succede oggi bisognerebbe uscire con un carro armato per difendersi. Ed Alberto era un ragazzo sereno. Sereno e leale. E se è morto è morto per un ideale, questo è fuori discussione. Quando un anno e mezzo fa gli dissi che prima di occuparsi di politica doveva studiare, conoscere, lui mi rispose: «Papà, ma allora quelli che muoiono per un ideale?» Ed io che cosa dovevo dire? L’ideale, giusto o sbagliato che sia, è sempre un ideale. Non ho potuto obiettare altro.

D: Come può finire la violenza?

R: Dovremmo cambiare la testa a quasi tutta l’Italia. C’è uno sconvolgimento. Se non si ritorna agli antichi valori, quelli che hanno guidato il mondo da quando l’uomo è comparso sulla terra… Se non si riscoprono i sentimenti di onestà, di rettitudine, di coscienza che possano far capire quel che è bene e quel che è male, nel vero senso della parola… Se non si applicano questi sentimenti, prima nella famiglia e poi nella società, nella nazione, nel mondo stesso… non c’è molto da sperare. E poi, forse, io sono un fissato. Il lavoro. Non mi importa di lavorare anche quattordici ore al giorno, non solo per me ma anche per gli altri. Ma quando nelle scuole, sono stato molte volte al Canizzaro, si comincia ad imbonire i ragazzi, quando non si poteva entrare, quando i ragazzi vengono catechizzati con idee assurde e quando chi cerca di ribellarsi viene immediatamente tacciato di estremismo… quando li avvelenano, adesso, fin dalle elementari, distruggono quello che si fa in famiglia.

D: Non siamo quindi nella direzione giusta?

R: La direzione giusta è quella della pace. Ci deve essere una tregua che faccia riflettere, che faccia capire. Ma è molto difficile.

D: È morto un altro ragazzo quella sera…

R: Sì. Un altro povero ragazzo colpevole solo di aver distribuito il Secolo. Ma ha un senso tutto questo? Ho letto su un giornale: «Il topo nero che distribuiva il Secolo». Ma come si può concepire? «Nessuna pietà per il topo nero». Come si può dire una cosa del genere? È esecrando dire queste cose, da qualsiasi parte. E poi il poliziotto… ma non è un figlio, un padre forse, anche lui? Come può aver sparato alla testa? Lo poteva ferire almeno. Dove siamo, in guerra? Ma nemmeno in guerra si spara alle spalle. Mi hanno telefonato poco fa. Hanno finito la perizia: Alberto è stato colpito alla nuca, ucciso nella maniera più vigliacca che esista. Mi hanno detto di non parlare con la stampa. Mi hanno consigliato di stare attento. Attento a che cosa? Devo nascondere che Alberto è morto per un ideale? Giusto, sbagliato, non ha importanza. Certo che quel pomeriggio non mi ha pensato, altrimenti non sarebbe andato. Si sarà detto «tanto lo rivedo stasera». Sì, io l’ho rivisto… all’obitorio. Poi mi hanno mandato la sua roba con su scritto «pacco sporco», sporco di sangue, ma il sangue non sporca… Solo la verità può alleviare la mia sofferenza. Lui non aveva la pistola. Ci sono i testimoni e tutto ciò dovrà risultare. Non per lui, che in ogni caso sarebbe morto per un ideale, ma per me che resto. Era un ragazzo buono, attaccato alla famiglia, religioso. Se fosse stato un killer, uno dei NAR, come si è detto, si sarebbe comportato in modo diverso.

D: Alberto cosa avrebbe voluto fare nella vita?

R: Aveva interessi multiformi. Gli ho sempre detto di seguire le sue tendenze. Scienze politiche, carriera diplomatica? Così diceva. Oggi ho scoperto che aveva passione per il disegno. Alla mamma aveva detto: «Prima di intraprendere una professione voglio fare lo steward, voglio volare, conoscere il mondo». Ecco il mio cruccio. Gli dicevo di studiare, ma a che serve? Serve la vita. Gli serviva, secondo me, la cultura per capire tanti problemi, ma anche questo… Tanta gente semplice ha delle doti da insegnare a me e ad altri, anche se non ha cultura è cento volte superiore, anche se non sa scrivere.

«IL POLIZIOTTO? SI È MESSO A DUE MANI, SI È INCHINATO UN PO’ E HA SPARATO UN COLPO SOLO»

D: Quanti eravate a Centocelle? Come è nata la manifestazione?

Mario: Settanta, ottanta persone, non di più. Era una manifestazione spontanea, nata dal divieto della questura alla commemorazione ufficiale dei morti di via Acca Larenzia. Se questa non fosse stata vietata, non sarebbe accaduto nulla. 

D: Chi erano i manifestanti? Come si possono qualificare?

Mario: Attivisti di tutti i giorni. Ragazzi che fanno politica tutti i giorni insieme ad altri che ultimamente si erano isolati.

D: Sono riferibili in qualche modo al MSI o alla sua organizzazione giovanile?

Mario: Non certo ufficialmente.

Aldo: Può darsi che vi fosse anche qualcuno iscritto, comunque era lì a titolo personale. 

D: Si è detto che erano quasi tutti molto giovani…

Mario: È vero.

D: Come si è svolta la manifestazione?

Aldo: Ci si era dati appuntamento. Siamo arrivati a piazza dei Mirti a gruppi di quattro, cinque persone con i mezzi pubblici o con le macchine. 

Mario: I gruppi erano sparsi in tutta la piazza e quando ci siamo resi conto che cominciavamo ad essere notati, qualcuno ha cominciato a dire: «Andiamo in mezzo alla strada e blocchiamo tutto». Sono state lanciate alcune bottiglie incendiarie nella piazza, in mezzo agli autobus. 

D: In che senso eravate stati notati? C’era già la polizia sul posto?

Mario: Nel senso che i gruppi diventavano più folti e riconoscibili. La polizia non c’era, ma è passato due o tre volte un pulmino dei carabinieri.

D: E non ha fatto niente? 

Mario: No. Forse non ci ha visto. Allora, sono state fatte scendere le persone dagli autobus con abbastanza garbo e, una volta scese, abbiamo costretto gli autisti a mettersi di traverso in mezzo alla strada. Abbiamo cercato di incendiare gli autobus per bloccare il passaggio alla polizia. Poi la gente ha cominciato a spostarsi verso la sezione della Democrazia cristiana. C’è stato un lancio di bottiglie molotov contro la saracinesca della sezione e sono state rovesciate alcune macchine per coprire. 

Aldo: Questo all’inizio della via, verso piazza dei Mirti

D: Ma le vostre intenzioni quali erano?

Mario: È chiaro che per manifestare il nostro dissenso dalla decisione del questore dovevamo scegliere degli obiettivi. In piazza si era sentita la voce che bisognava colpire quella sezione della Dc, che rappresentava bene o male il questore. Certo non potevamo colpire la gente che non c’entrava niente. L’obiettivo era la Dc e poi l’Atac per fare un po’ di casino, bloccare un po’ il traffico… Mentre venivano rivoltate le ultime macchine, io stavo verso la fine per impedire che i ragazzi più giovani rimanessero indietro, quando, ero verso l’angolo con la prima via a destra, dopo il cinema Broadway, è arrivata una macchina bianca, dalla quale sono scese due persone che hanno detto: «Provate a rivoltare questa se ne siete capaci». Queste due persone, fisicamente non me le ricordo bene, erano di una certa età, sulla trentina…

Aldo: Era anche abbastanza buio…

Mario: Comunque sono scese e sono saltate addosso ad una persona, che non escludo possa essere stato Alberto stesso. 

D: Erano vestite in borghese? Con giacca e cravatta?

Mario: Sì. Mi è sembrato di aver visto un giaccone o qualcosa di lungo, aveva i baffi…

D: Chi?

Mario: Quello che poi ha sparato… Perché Alberto stava davanti a me, in quel momento. Quando mi si è avvicinato Aldo e mi ha chiesto sul da farsi, io gli ho fatto presente che era la polizia… 

Aldo: Io li avevo scambiati per normali passanti e stavo per intervenire per far lasciare Alberto. Loro non è che si siano qualificati… Alberto non poteva sapere chi fossero. 

Mario: Io lo avevo capito dal fatto che appena saltata addosso a questa persona, uno ha tirato fuori la pistola e ha gridato: «Fermo, fermo!». Aldo mi si stava avvicinando quando Alberto è riuscito a divincolarsi, a scappare. Al che il poliziotto che l’aveva afferrato si è messo a due mani, si è inchinato un po’ ed ha sparato un colpo solo. Aldo allora è scappato da un’altra parte, io ho continuato a passeggiare cercando di confondermi…

D: Come è stato sparato questo colpo?

Mario: Come ho detto. Si è fermato, ha puntato qualche secondo, poi si è inchinato, è rimasto fermo ed ha sparato un solo colpo. 

D: E questo colpo ha raggiunto Alberto?

Aldo: È stato l’unico colpo che si è sentito. Ormai il grosso del gruppo si era allontanato, erano rimaste indietro non più di dieci, quindici persone e Alberto era tra questi. Anche se nel buio non si vede bene, anch’io ho notato il poliziotto, uno abbastanza alto, che teneva ferma una persona. Poi questa si è divincolata ed ha girato l’angolo. Il poliziotto ha girato anche lui ed ho sentito un colpo. Non so se il poliziotto avesse già la pistola in mano o se ce l’avesse Alberto

Mario: Ma questo l’ho visto io. Alberto non aveva la pistola e non ha sparato. 

D: Poteva averla in tasca…

Mario: No. Non credo. Io lo conoscevo, non era il tipo da avere pistole. Gli piaceva scherzare, fare il matto. Due anni fa tornava spesso da Ostia sul suo Morini con i piedi sul volante, ma non era il tipo… Comunque dopo aver sparato il poliziotto ha detto: «Andiamo, qui tutto è finito». È rimontato in macchina e se ne sono andati. Infatti è arrivata un’altra macchina della polizia, una volante con la sirena spiegata e, stranamente, appena è arrivata, mentre una signora correva dicendo che c’era un morto, già dalla macchina ufficiale stavano comunicando per radio…

D: Ricordate altri particolari?

Aldo: Niente. Solo che questi si inginocchiano e sparano in testa. 

D: Voi avevate armi?

Mario: No, solo bottiglie incendiarie. 

D: Come spiegate l’accaduto?

Aldo: La sostanza è questa: c’è un morto che non sa nemmeno lui perché è morto. Sul Messaggero ho letto una frase del fratello che diceva che ad Alberto non mancava niente, aveva i soldi, aveva le ragazze, poteva essere felice; invece nel suo piccolo voleva tentare di migliorare la società. Se questo è un motivo sufficiente per essere ucciso… Bisogna meditare su questo fatto. 

Mario: Poi è importante che non era un assalto terroristico, come riportano i giornali. Era una protesta spontanea nata dal fatto che un anno prima erano morti tre camerati dei quali uno assassinato dalla polizia. Non so cosa pensare. Certo è che Alberto dopo un anno si era vista negare la possibilità di manifestare la rabbia che aveva dentro. Ed è stato assassinato…