Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
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Dalle carte del caso Gregori spunta una novità che riscrive la storia e il significato di uno degli episodi più inquietanti di tutta la vicenda: la comparsa dei due ceffi, nel bar di famiglia, il 6 maggio 1983. Il giorno prima della scomparsa della povera Mirella.
Quel pomeriggio il locale dei Gregori ospitava un rinfresco per la ristrutturazione degli interni. Tra i partecipanti, oltre ai titolari, anche amici e clienti abituali. Poi, all’improvviso, ecco una coppia di individui muniti di macchine fotografiche per fare degli scatti ai presenti. Oppure, secondo una versione più suggestiva, per immortalare proprio Mirella, così da osservarla da vicino in previsione del sequestro dell’indomani.
In entrambe le ipotesi, a mandar via i due, un energico intervento della madre della ragazza, la signora Vittoria Arzenton.
Per oltre quarant’anni, a queste ricostruzioni abbiamo creduto tutti, in primis chi scrive, per quanto oggettivamente faticose da comprendere. Prendiamo la prima. Perché mai due soggetti, muniti di apparecchi fotografici, si sarebbero dovuti far notare in una zona non certo turistica della città (siamo nei pressi della Stazione Termini, non a Fontana di Trevi), per poi avventurarsi in un’azione sospetta e bizzarra come entrare in un bar qualunque e voler fare scatti a chicchessia?
Se è vero, come mi fu riferito da magistrati in servizio all’epoca (tra cui la compianta dottoressa Margherita Gerunda), che talvolta alcuni uomini fermavano donne per strada con la scusa di offrire servizi fotografici, nascondendo in realtà intenzioni ben diverse, appare poco plausibile che un simile approccio potesse verificarsi in un ambiente chiuso. In un contesto del genere, infatti, si sarebbe rischiato di provocare reazioni spropositate da parte dei presenti. Quanto invece allo scenario da film di James Bond, nemmeno il più audace dei criminali si esporrebbe in modo così plateale di fronte alla vittima da sequestrare e a numerosi testimoni (inclusi i genitori), tanto più a ventiquattr’ore dal compiere il crimine
A ogni modo, simili versioni ce le siamo fatte andar bene per tutto questo tempo. Sennonché due documenti dello scarno fascicolo giudiziario sulla scomparsa di Mirella Gregori smentiscono le nostre certezze e riscrivono l’episodio, trasformandone anche la sua valenza nell’economia investigativa di questo dramma: la deposizione alla Procura di Roma della mamma di Mirella e un rapporto del Reparto Operativo dei Carabinieri della Capitale.
Il 26 maggio 1983 la signora Arzenton fu ascoltata per la prima volta dagli inquirenti dopo la scomparsa della figlia (7 maggio). E alla sostituta procuratrice Giuseppa Geremia raccontò anche il fatto del bar: «Il giorno dell’inaugurazione mi fu richiesto da un giovane sui trenta-trentacinque anni che non conoscevo e che era in compagnia di altra persona più anziana se volevo delle foto. Mentre ciò mi veniva detto, io davo le spalle alla persona in questione e, giratami per vedere mia figlia che si allontanava dal bar, notai un giovane bruno coi capelli lunghi che fece con la testa un cenno come se indicasse me o mia figlia Maria Antonietta».
Parole che, confrontate con la nota versione dell’accaduto, fanno già sobbalzare. Perché i soggetti coinvolti non furono due, bensì tre: due giovani e una persona più anziana, però sempre assente dalla narrazione di questi decenni. Come mai? A dimenticarsela, comunque, non è stata solo la stampa.
Ritorniamo al 1983, precisamente al 24 ottobre. Roma, via In Selci, sede del Reparto Operativo dei Carabinieri. Dove la signora Arzenton fu chiamata per realizzare gli identikit di quei ceffi. Premesso lo sconcerto davanti a ben cinque mesi di attesa per un’operazione che avrebbe dovuto essere consequenziale alla sua deposizione in Procura, la donna così descrisse il primo di quei due soggetti (Identikit N. 1): «Età 28 anni circa, altezza 1,82, corporatura snella, capelli biondi, occhi chiari, naso regolare, bocca regolare, colorito chiaro. Vestiva pantaloni chiari e camicia chiara a righe celesti».
E già qui abbiamo una prima significativa differenza con le sue precedenti parole: l’età dell’uomo. Dai «trenta-trentacinque» si scende a «ventotto». Una discrepanza anagrafica meno marginale di quel che sembra. Per tre motivi. Il primo è che da un valore generico («trenta-trentacinque») tipico di quando si parla di uno visto occasionalmente, si passò a uno più preciso («ventotto»), come se si avesse un’idea di qualcuno in particolare o di cui si è sentito parlare.
Il secondo si collega alle precedenti affermazioni della signora a piazzale Clodio, dove rilevò la somiglianza tra quell’uomo e la persona «giovane, alta e bionda come colui che mi aveva interpellato al bar» che il 2 maggio si era presentata, sempre insieme a un’altra, presso la scuola della figlia per chiedere informazioni su una studentessa della 2ª B o D (la classe di Mirella). Vittoria Arzenton lo aveva appreso da una bidella dell’istituto. Mentre da un’altra persona, di cui non ricordava il nome, seppe la terza ragione che rende interessante quell’identikit: la sua corrispondenza con il «giovane, alto, biondo, riccio» con il quale Mirella fu vista passeggiare sottobraccio a via del Macao, distante meno di duecento metri dal bar di via Volturno, ad aprile del 1983. Cioè, poche settimane prima della scomparsa.
Fu poi la volta del secondo identikit (N. 2): «Età 25-26 anni, altezza 1,77-1,78 metri, corporatura snella, capelli neri lunghi, occhi scuri, naso regolare, bocca regolare, colorito scuro. Vestiva pantaloni e camicia scura». Una descrizione che apre una serie di domande. A chi era riferita? Al «giovane bruno» che fece un cenno verso la signora Arzenton o Maria Antonietta Gregori (sorella di Mirella) oppure alla «persona più anziana» insieme al ceffo biondo? Molto probabilmente, al primo. E se così fosse, già si capirebbe come questo soggetto non fosse lì per scattare delle foto, visto che non si trovava a fianco del ceffo biondo che le aveva chieste. Se invece l’identikit corrispondesse proprio alla «persona più anziana», lascerebbe increduli. Perché in Procura la signora Arzenton la aveva prefigurata verso la quarantina, visto che all’altra aveva attribuito «trenta-trentacinque anni». Ma allora perché nel giro di cinque mesi l’avrebbe ringiovanita di almeno un decennio? Dubbi rimasti in sospeso a causa di un errore degli inquirenti: il mancato identikit della «persona più anziana».
A ogni modo, anche se non definito in toto, il quadro dell’episodio è più che sufficiente a invalidarne la versione ufficiale. Ma le informazioni che ne sgretolano le quarantennali falsità, consegnandocelo nella sua effettiva veste, arrivano dal rapporto firmato dall’allora maggiore comandante Antonio Ragusa, basato sul racconto della mamma di Mirella e datato 26 ottobre. Dove si legge che «[…] due individui sconosciuti […] prendevano parte al rinfresco. Uno di essi (Identikit N. 1) è entrato nel bar con la scusa di voler scattare delle fotografie senza però portare con sé alcuna apparecchiatura fotografica. Il secondo (Identikit N. 2) è rimasto quasi sempre all’esterno, in prossimità della vetrata, con fare sospetto ammiccava al proprio amico come per comunicargli qualcosa. Dopo circa quindici minuti i due si sono allontanati a piedi».
Dunque, non era vero che i due fossero «armati di macchine fotografiche», che entrarono nel bar per ritrarre Mirella e che furono dispersi da una signora Arzenton madre coraggio, tipo Anna Magnani in Roma città aperta. E la critica non è nei suoi confronti, bensì verso coloro che, per share e sensazionalismo, l’hanno dipinta come quello che non fu per sua stessa ammissione. Perché mai mise a verbale di aver messo in fuga quei soggetti.
Ripristinati i fatti, passiamo al loro significato. Sbalorditivo. Perché il prendere parte al rinfresco e la domanda se qualcuno volesse delle foto, quando sapevano benissimo di non poterle fare, non fu che una scusa di quei due (o tre) per giustificare la loro presenza in quel luogo. Non casuale, ma dettata da un motivo ben preciso. E lo si intuisce dai loro ammiccamenti (riferiti a che?) e dalla loro permanenza: un quarto d’ora! Una durata più che sufficiente per prendere visione delle persone all’interno del locale. Dov’è presumibile ci fosse qualcuno di loro conoscenza. Altrimenti, se fossero stati di passaggio, non si sarebbero comportati in maniera così sospetta e non avrebbero sostato così a lungo.
Ma perché si fermarono in quel bar? Non lo sappiamo, però inevitabile ipotizzare che fosse per Mirella Gregori, considerando che scomparve l’indomani e che, quando arrivarono, lei uscì, come aveva detto la mamma in Procura. Al che ci si domanda: come mai Mirella si allontanò? Fu a causa di quei ceffi? Dove andò? Dopo quanto ritornò? E al rientro quelli c’erano sempre? Tra l’altro, poiché rimasero un quarto d’ora, non furono notati da nessun partecipante alla festa?
Fra questi c’era anche il fidanzatino di Mirella, Massimo Forti. I due quel giorno ebbero uno screzio. Lo disse lui ai Carabinieri il 5 luglio 1983: «All’inaugurazione del bar del padre, me ne ero andato senza salutarla perché mi ero sentito un po’ trascurato. Quindi si può dire che avevamo litigato». La circostanza fu confermata dal suo amico Roberto Tiberti, all’epoca fidanzato di Giovanna Manetti (amica e compagna di classe di Mirella Gregori), il successivo 28 ottobre sempre all’Arma: «Nel corso della serata Mirella si dedicò completamente alle sue amiche e trascurò Massimo, cosa questa che procurò disappunto a Massimo, tanto che a un certo punto si avvicinò a me e a Giovanna e ci invitò ad andarcene, accompagnandolo, perché si era stufato».
Anche se non ci fu una discussione in pubblico, quel comportamento non passò inosservato: «Ovviamente, durante il ritorno a casa, tutti e tre parlammo dell’atteggiamento scostante di Mirella […] Penso che di questa freddezza di Mirella si siano accorte pure le sue amiche» aggiunse Tiberti, al quale non ne furono chieste le ragioni. Idem a Forti. Non sappiamo quindi che cosa indusse Mirella a quell’improvviso distacco, che comunque avvenne prima della venuta dei due ceffi. Tiberti disse che lasciarono il bar intorno alle 17:30, però non li rammentò: «Non riconosco e non ho mai visto le persone effigiate nelle foto apparse sul quotidiano “Il Tempo” (gli identikit, ndg) e che mi vengono mostrate». Normale, perché questi, come si legge dagli identikit, arrivarono «verso le ore 19».
Di loro non fu mai domandato nulla agli altri presenti al rinfresco. A cominciare da Sonia De Vito, quel giorno a via Volturno insieme al suo fidanzato Fabio De Rosa. Eppure, ci sarebbero stati un paio di ottimi motivi per farlo. Uno per identikit. Perché Mirella le aveva confidato del giovane biondo che la seguì in auto fuori da scuola a marzo del 1983 (sarebbe interessante sapere se glielo descrisse e, nel caso, come fosse la sua capigliatura). E poi perché la signora Giuseppina C. nel giugno 1985 raccontò che «pochi giorni prima della scomparsa di Mirella Gregori aveva notato 5 o 6 volte seduto davanti un bar sito in via Nomentana 81 un giovane che, a suo dire, osservava le persone che uscivano ed entravano allo stabile di detta via al civico 91».
Il bar era quello dei De Vito dove lavorava anche Sonia e dove Mirella trascorse i suoi ultimi istanti prima di sparire. Lo stabile, quello dove abitava la famiglia Gregori e la stessa Giuseppina C., che «dopo la scomparsa della ragazza, non aveva più visto detto giovane» e che notò «una certa rassomiglianza nel ragazzo notato in precedenza al bar» in uno degli identikit pubblicati dalla stampa. Quale? «Quello con i capelli lisci e carnagione olivastra». Cioè, il ceffo moro, l’identikit N. 2.
In conclusione, quel 6 maggio a via Volturno non comparvero due sconosciuti che volevano fotografare Mirella Gregori. Ma almeno due figure molto somiglianti ad altre comparse a più riprese nella sua vita nel periodo a ridosso della sua sparizione. Tanto da chiedersi: ma non saranno state sempre le stesse? Per rispondere, si sarebbe dovuto indagare più a fondo nel suo privato e nei suoi ambienti, ma non fu fatto. Quel rapporto dei Carabinieri diretto al sostituto procuratore Domenico Sica, titolare delle indagini al tempo insieme a quelle sul caso Orlandi (e su molto altro), non ebbe sviluppi. Idem con i suoi successori.
Interessante notare come, sempre il 26 ottobre 1983, a identikit già realizzati, una fonte del Sisde fosse nel bar dei De Vito dove raccolse le inequivocabili frasi di Sonia, che in questa storia, comunque la si guardi o la si giri, ritorna sempre: «Certo…lui ci conosceva, contrariamente a noi che non lo conoscevamo… quindi poteva fare quello che voleva… Come ha preso Mirella, poteva prendere anche me visto che andavamo sempre insieme». Qualcuno dei ceffi di via Volturno c’entra qualcosa con queste parole? E la «persona più anziana»? Chi era? Perché è sempre rimasta fuori dai giochi? Poteva avere qualcosa da spartire con l’ignoto signore degli aperitivi, l’uomo «fra i 30 e i 40 anni» visto dalla madre di Mirella parlare con la figlia e l’amica Sonia ai tavolini del bar di quest’ultima nel periodo antecedente la scomparsa?
Spetterà all’attuale Commissione Parlamentare di Inchiesta sulla scomparsa di Mirella Gregori prendere atto anche di queste nuove risultanze e sbrogliare l’intreccio. Anche perché, dopo il tentativo senza fortuna dei mesi scorsi di riaprire l’indagine in Procura, palazzo S. Macuto è davvero l’ultimo baluardo per la verità su questo torbido caso.
tommaso.nelli@spazio70