Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
Il sito comprende sei aree tematiche e ben ventidue sottocategorie con centinaia di pezzi su anni di piombo, strategia della tensione, vicende e personaggi più o meno misconosciuti di un’epoca soltanto apparentemente lontana. Per rinfrescare la memoria di chi c’era e far capire a chi era troppo giovane o non era ancora nato.
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Il conto alla rovescia per il Vietnam del Sud incominciò la notte tra il 9 e il 10 marzo 1975 con un forte attacco nordvietnamita all’addormentata guarnigione sudvietnamita della piazzaforte montana di Ban Me Thuot. Le sorti della battaglia rimasero in forse per varie ore, finché una formazione di caccia-bombardieri di Saigon non centrò e rase al suolo il comando tattico e il quartier generale governativi della zona.
«Un disgraziato errore», ha poi commentato in un cauto e insignificante articolo pubblicato sul «New York Times» l’ex comandante della forze statunitensi nel Vietnam, generale Westmoreland. Mica tanto «disgraziato errore». Lo sbaglio si deve infatti alla circostanza che gli aerei volavano alla prudente quota di quattromila metri per evitare di divenire sicuro bersaglio del Sam-7 di fabbricazione sovietica che lo stato maggiore di Hanoi aveva predisposto in gran numero per l’attacco. Un attacco che, si badi bene, aveva lo scopo importante ma pur sempre limitato di prendere insieme con Ban Me Thuot, le altre due cittadine di Pleiku e di Kontum, chiavi strategiche del «tetto del Vietnam», del resto già da mesi e mesi praticamente assediate.
L’operazione organizzata e preparata dal generale Giap intendeva insomma essere solo la prima fase di una offensiva che sarebbe stata lanciata in futuro e costituirne l’indispensabile premessa. È invece avvenuto che la palla di neve di Ban Me Thuot si è fatta valanga, che una sconfitta tattica si è tramutata in una totale rotta strategica.
L’uomo al quale la storia imputerà, tra l’altro, la responsabilità della débâcle che ha posto termine alla seconda guerra d’Indocina è l’ex presidente Van Thieu. Suo è infatti l’inatteso, imprevedibile e inesplicabile ordine del 14 marzo che dispone, senza che i comandi interessati ne avessero mai avuto conoscenza e sentore, una immediata ritirata lungo la costa di tutte le unità operanti nella zona. Questo è l’ordine con il quale Van Thieu ha firmato la condanna di se stesso e del suo regime. E insieme il trapasso dell’intera Indocina – per ora della sola Indocina – sotto i regimi comunisti.
Per quanto possa apparire strano, il tracollo iniziato in marzo ha solo in minima parte un carattere strettamente militare. In genere, salvo alcuni episodi, le forze di Saigon sono fuggite o si sono dissolte senza combattere. Decine di capoluoghi di distretto o grandi città come Danang sono cadute in mano dei nordvietnamiti dopo che i governanti in rotta le avevano abbandonate ore o addirittura giorni prima. Fino a tutto marzo i nordvietnamiti hanno insomma avanzato nel vuoto. Fu solo ai primi di aprile che Saigon riuscì a imbastire qualche resistenza ad alcune decine di chilometri attorno alla capitale; e ciò coincideva, del resto, con l’evidente necessità delle forze comuniste di riorganizzarsi dopo centinaia di chilometri di corsa.
Vari motivi, al di fuori dell’ambito strettamente militare, sono stati indicati a spiegare il perché di tanto rapido tracollo finale. Si è detto che l’ordine di Thieu, il quale da anni andava predicando la necessità «di non cedere un solo pollice di terreno ai comunisti, di combattere fino all’ultima cartuccia e fino all’ultimo chicco di riso», non può non avere sconcertato le truppe. Ed è vero, le testimonianze sono copiose. Si è detto che la stanchezza di una guerra della quale non si vedeva la fine aveva esasperato gli animi. Ed è egualmente vero. Si è affermato che i tagli agli aiuti militari americani si facevano sentire. Si è giustamente rilevato che gli ufficiali, con poche eccezioni, sono stati i primi a fuggire senza preoccuparsi della sorte dei soldati. Sono stati egualmente annotati gli effetti di una situazione economica disastrosa, che inducevano molti militari ad abbandonare i loro reparti per dedicarsi in qualche maniera al sostentamento delle loro famiglie. Ed è stata tenuta in conto, anche l’affiorare dall’autunno scorso di una opposizione che per anni in precedenza era sempre stata soffocata e contenuta.
Si tratta di motivi, diremmo, tutti quanti validi e accettabili; anche se ve ne sono altri. Il tracollo è stato insomma più di ordine psicologico, sociale e morale che politico e militare.
I soldati – mezzo milione di regolari e mezzo milione di «locali», sparpagliati lungo centinaia di fronti attorno a centinaia di «macchie di leopardo» e in circa quattromila piccoli e grandi presidi – avevano confusamente compreso che l’ora era suonata. La fine del regime poteva certamente essere meno drammatica e meno rapida. Ma ineluttabile lo era, non v’è dubbio. Da almeno un anno molti si chiedevano come mai i nordvietnamiti non attaccassero il Sud Vietnam, visto il netto e sempre crescente potenziale militare di cui disponevano. «Cosa aspettano?», si diceva. E c’era chi rispondeva: «Analizzata la situazione, Hanoi è probabilmente giunto a giudicare che il regime di Saigon potrà arrivare a dissolversi da solo, al momento opportuno. Meglio quindi risparmiare un’offensiva, inevitabilmente costosa anche se sicuramente vittoriosa». Era una valutazione giusta. L’opinione di molti – compreso fra questi quel generale Westmoreland che non passerà certo alla storia come un genio militare – è che la sorte del Vietnam del Sud sia stata segnata dalla realizzazione del processo detto della «vietnamizzazione», ultimato in quell’agosto 1973 che vide, in esecuzione degli accordi stipulati a Parigi sei mesi prima, reimbarcarsi per gli Stati Uniti l’ultimo contingente del corpo di spedizione americano.
In realtà lo scacco statunitense nel Vietnam ha radici ben più lontane nel tempo, talune di esse addirittura nate con lo stesso nascere del conflitto. Ma senza risalire tanto indietro, basta poco per dover riconoscere che la data nella quale la sconfitta o almeno la rinunzia alla vittoria divenne patente, è quella del Capodanno lunare (Têt) del 1968. Senza che gli americani ne avessero avuto il minimo sentore, una notte l’intero Vietnam gli scoppiò sotto. Saigon e quasi tutti i capoluoghi di provincia e di distretto risultarono circondati da ingenti forze nord-vietnamite e vietcong apparentemente sorte dal nulla.
A Saigon stessa un commando riuscì addirittura a penetrare al primo piano dell’ambasciata di Washington e a uccidervi alcuni marines; l’antica capitale di Hué rimase per varie settimane in mano alle forze comuniste, l’inutile difesa di un inutile campo trincerato all’estremo nord-ovest (Khe Sanh) tenne per circa due mesi impegnato due terzi dell’aviazione americana in Vietnam. Tutto questo mentre una nota rivista ispirata dal Pentagono, U. S. World Report and News, usciva «documentando» l’ormai avvenuta «definitiva pacificazione» di alcune province nel centro Vietnam.
Fu la pur vinta battaglia del Têt a far comprendere a Washington che i metodi e l’era della escalation erano finiti, che gli scopi – pur limitati – che l’intervento si era prefisso non erano più pienamente raggiungibili, che era ormai l’ora di imboccare la strada per una soluzione di compromesso. Di questo mutato punto di vista sono prova le dure condizioni accettate dagli americani per indurre Hanoi ad avviare (maggio 1968) le pre-negoziazioni che avrebbero portato a quell’accordo del gennaio 1973 da molti ingenuamente creduto un accordo di pace. Tra le condizioni subite dagli Usa, vanno citate la cessazione dei bombardamenti al nord del 17° parallelo e la promessa mantenuta che la forza del corpo di spedizione non sarebbe stata più accresciuta.
Più che un accordo di pace, l’accordo del gennaio 1973 potrebbe essere definito un accordo di resa a tempo. Non può essere altrimenti interpretato un documento recante gli incredibili «vuoti» che di fatto reca. Basti citarne due, di questi «vuoti». Uno è il silenzio assoluto sulla presenza di intere divisioni nordvietnamite nel territorio del Vietnam del Sud al momento della cessazione delle ostilità. È chiaro che le parti dovettero firmare con una buona dose di riserve mentali se non proprio in mala fede: Saigon con la speranza di eliminarle con la forza, Hanoi e i Vietcong come un imponente fatto a loro favore per i futuri sviluppi, Washington per uscirne a qualsiasi costo. In tal modo veniva del tutto ignorato nientemeno che il fatto più imponente della situazione militare; e ciò andava benissimo per Hanoi che fino a qualche mese fa, a cardine della sua propaganda, aveva sempre negato la presenza di sue truppe nel Sud.
Un altro inspiegabile silenzio dell’accordo è l’assenza della data nella quale si sarebbero dovute svolgere le elezioni per la creazione di un governo nel Sud. L’ex presidente Van Thieu avrebbe voluto celebrarle subito, sicuro della maggioranza dei consensi. Al contrario, i comunisti tendevano a procrastinarle a tempo indefinito, fino «a maturazione avvenuto dell’opinione pubblica».
Di fatto è avvenuto che dopo due anni di migliaia di reciproche denunzie di violazioni tattiche, Hanoi ha invaso il Sud e così violato l’assenza giuridica e lo spirito degli accordi. D’altra parte Saigon ha certamente manovrato per ritardare la formazione del «Consiglio di sicurezza e concordia». Ma, a un certo punto, la storia la fanno gli avvenimenti e non i protocolli dei trattati. Ad Hanoi, i due anni di «pace» dalla firma dell’accordo sono serviti per moltiplicare la propria capacità offensiva; a Saigon per vederla diminuire di giorno in giorno e infine dissolversi.
L’autore di queste note ricorda una della sue prima corrispondenze dal Vietnam del Sud uscita nell’autunno del 1965 – ossia qualche mese dopo i primi sbarchi – con un titolo su sei colonne che diceva: «Combattono come fossero sordi e ciechi, gli americani nel Vietnam». Pur migliorata con l’andare degli anni la capacità informativa degli americani mai giunse nemmeno a eguagliare il livello toccato in campo comunista. Il segreto militare era davvero un’araba fenice dalla parte di Saigon, specialmente nel caso di operazioni con forze miste americane e vietnamite. E a poco valse la rigorosa disposizione, a un certo punto adottata, di tenere top secret qualsiasi piano operativo fino a dodici ore prima del momento della sua esecuzione, ossia dell’ora X. Ciò limitava notevolmente la preparazione, ma non sempre impediva «fughe».
Chi scrive, tra le molte operazioni seguite in qualità di cronista, ne ricorda qui in breve una abbastanza significativa alla quale partecipò a bordo di un A.P.C. (un veicolo cingolato e corazzato per il trasporto di truppe, armato con una mitragliatrice) insieme con altri due colleghi. Partecipato casualmente, per essere salito a bordo di un elicottero che andava a prendere feriti, ai giornalisti gli americani consentivano totale libertà di movimento e di osservazione. L’operazione, organizzata per cercare e distruggere («search and destroy») un gruppo di qualche decina di vietcong segnalato nei pressi di un villaggio, durò due giorni e due notti. Gli americani disponevano di caccia-bombardieri, di una dozzina di carri armati e di una cinquantina di soldati a bordo di alcuni A.P.C. da trasporto.
Al primo attacco, preceduto da varie «passate» di caccia bombardieri sul campo trincerato vietcong, un carro saltò su una mina. Il giorno dopo un enorme veicolo cingolato che era qualcosa di mezzo tra il carro armato e il bulldozer, riuscì con una specie di proboscide che batteva il terreno, a liberare un «corridoio» sicuro tra le mine. E così, con tre brevi avanzate successive precedute da bombardamenti, il gruppo di attacco giunse all’ultimo trincerone vietcong. Vi erano tre morti, tanti quanti ne avevano avuto gli americani; tutti gli altri si erano dileguati nel corso della notte. Ciò non impedì che l’ufficiale comandante, un maggiore, fosse raggiante alla fine dell’operazione. «Bel colpo, sono soddisfatto», ripeteva. Militarmente c’era poco di che essere soddisfatti, visto che l’operazione era stata concepita ed era avvenuta in completa assenza di manovra, con «costi» sproporzionati al risultato praticamente nullo.
Ho dato un modesto esempio, ma la quasi completa assenza di manovra è, a giudizio di molti esperti, una delle tare che specie al livello di medie e grandi unità hanno maggiormente nuociuto alla capacità offensiva del corpo di spedizione americano. Ve ne sarebbero altre, delle quali dire. Basti accennare alla consuetudine americana di evitare, salvo casi di forza maggiore, di operare di notte. Ben prima del calar del sole, le guarnigioni americane si rinserravano nei loro compounds e lì rimanevano lasciando libere le forze comuniste di battere le campagne in cerca di reclute, riso e civili ai quali impartire lezioni di propaganda politica.
Al più, quando lo ritenevano opportuno, scatenavano infernali fuochi di interdizione su presunti possibili luoghi di concentramento o passaggio. Per anni, vaste aree contestate nel Vietnam hanno vissuto sotto due regimi. Uno diurno americano e sudvietnamita, uno notturno comunista. L’uno a fare quel che l’altro aveva fatto e viceversa. Un allucinante lavoro da Penelope. Gli americani insomma non hanno mai voluto o saputo adattarsi alla guerra di guerriglia, salvo che con un limitato impiego delle loro «Special Forces». Il Pentagono è rimasto sordo, forse per le grosse difficoltà che un cambiamento avrebbe comportato a tutte le proposte dirette a trasformazioni atte a rendere una controguerriglia su vasta scala. Ciò è avvenuto anche perché a Washington si è creduto per parecchio tempo nel principio dell’escalation, in senso politico e militare.
L’escalation è fallita in entrambi i sensi, in tutti i sensi e per molti motivi. Fallita perché era stata pubblicamente proclamata, perché ne venivano annunciati i tempi di movimento, perché veniva reso noto in anticipo il peso di ogni movimento. La democrazia aperta con radio, televisioni, giornali e opposizione parlamentare è una gran bella cosa; ma non crea certo un clima da serra per la conduzione di una guerra. Per dire l’ultima: un mese prima della caduta di Saigon era stato ufficialmente annunziato che se il Congresso avesse approvato 722 milioni di dollari di aiuti militari per l’agonizzante Vietnam del Sud, la somma sarebbe servita per il riarmo di quattro divisioni, per il potenziamento di altre due, per la fornitura di due grossi aerei da trasporto e di centoquattordici carri armati. Hanoi, dunque, sapeva che in caso di approvazione della legge si sarebbe trovata di fronte a centoquattordici carri nuovi, non uno di più e non uno di meno. Hanoi sapeva da dieci anni di volta in volta, in anticipo di mesi, tutto ciò che l’escalation andava preparando. In America, le polemiche sulla opportunità o meno di bombardare le dighe del nord, di bombardare il porto di Haiphong, di minare il porto di Haiphong e così via durarono mesi e mesi, in qualche caso anni.
L’escalation nel campo strettamente militare è stata interpretata nel senso semplicistico, e rivelatosi disastrosamente errato, che per giungere alla vittoria basta accrescere l’entità delle forze e dei mezzi in campo. Così Westmoreland, quando disponeva di 625 mila uomini, diceva che per vincere gliene sarebbero occorsi «un minimo di 800 mila». Sempre frutto della escalation erano condizioni di deformazione mentale come quello di quel colonnello – ora generale – che all’annunzio della distruzione di sette aerei Phantom (venti miliardi di lire), operata a Danang da un commando vietcong, sorrideva: «È molto più grave per loro la distruzione di sette autocarri che non per noi quella di sette Phantom». Ugualmente frutto della dottrina della escalation è che in una certa fase del conflitto la lugubre pratica del «body count» (la conta dei morti) sia stata assunta a etichetta e indice di un presunto – ma poi risultato sbagliato – buon andamento della guerra.
Sono anche un frutto dello spirito della escalation l’impiego del napalm nonché dei defolianti e diserbanti chimici. Sul principio della guerra, per rendere più difficili le imboscate, si provvedeva soprattutto ad abbattere con mezzi meccanici la vegetazione agli incroci stradali o ai passaggi obbligati nella giungla. Poi si diffuse, in misura tuttora rimasta sconosciuta, l’impiego dei defolianti lanciati da aerei. Non era facile, pur girando molto per il Vietnam, imbattersi in zone colpite da defolianti. Questo perché come in tutti i paesi tropicali, la potenza ricreativa della natura è stupefacente.
Comunque sui danni effettivi prodotti dai defolianti nel Vietnam la polemica è ancora aperta tra un gruppo di scienziati che li ritiene «gravi” e un altro che li ritiene «trascurabili». Trascurabili, però, non sono certamente i danni morali e psicologici e quindi politici che si riversarono sugli Stati Uniti a causa dell’impiego di defolianti. Nel Vietnam l’uso di tali prodotti era cessato tra il 1969 e il 1970 e ancora due anni dopo in ben propagandate conferenze internazionali si continuava ad accusare gli Stati Uniti. Sia come sia, i defolianti hanno sicuramente danneggiato gli Stati Uniti più di quanto li abbiano aiutati in guerra. Anche perché, in ultima analisi, i comunisti vietnamiti hanno vinto la guerra anche grazie al successo dell’appello da loro rivolto all’opinione pubblica americana, tramite appunto la TV, la radio e la stampa.
C’è chi sostiene che gli americani avrebbero potuto vincere la guerra del Vietnam nel giro di pochi mesi o al massimo di un anno se, senza tanti riguardi e inibizioni, invece che aumentare progressivamente la loro pressione militare mediante l’escalation, l’avessero scatenata di colpo fin dal primo giorno con tutta la violenza possibile. Giudicare ora, a cose andate in una certa maniera, è oltremodo difficile. Certo è che gli americani hanno commesso alcuni importanti errori di inversione di tempi strategici e li hanno forse commessi perché trascinati dalla logica della escalation.
Basti indicare quello che può essere indicato come il maggiore, il padre degli altri. A giudicare con il senno del poi, la prima grande operazione strategica avrebbe dovuto concretarsi nel taglio all’altezza del 17° parallelo di tutta la penisola indocinese, Laos compreso. Il taglio avrebbe reciso la pista di Ho Chi Minh e del tutto impedito la creazione di «santuari» in Cambogia. Ebbene, questa operazione è stata tentata ed è fallita, nel 1971, quando già la «vietnamizzazione» era stata avviata e senza la partecipazione di forze terrestri americane. Fosse stata condotta con le forze già disponibili nel 1966 essa, se riuscita, avrebbe risparmiato cinque duri anni di guerra alla Cambogia e indirizzato l’intera Indocina verso un diverso destino.
Ora il destino dell’Indocina e quello del Vietnam del Sud in particolare è irrevocabilmente segnato. Sarà comunista, del comunismo duro e intransigente di Hanoi. Fino al 30 aprile, data dell’arrivo dei carri armati comunisti a Saigon, ora Ho Chi Minh city, la maggioranza della popolazione non nutriva certo simpatie comuniste pure se ne mostrava anche meno verso il corrotto regime del dittatore Van Thieu. Hanoi al contrario di quanto si temeva stando al precedente di Phnom Penh, ha incominciato a operare senza calcare troppo la mano, con saggezza. Ma comunque vadano le cose, ce ne vorrà del tempo prima che Saigon si trasformi intimamente in città di Ho Chi Minh e che di due Vietnam arrivi a formarsene uno solo.