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Collettivo e pianificazione: il lavoro nella DDR fra ideologia, mito e realtà

Redazione Spazio70

Uno degli slogan più diffusi nelle bacheche degli operai dentro le grandi fabbriche tedesco-orientali era: "Il mio posto di lavoro è il mio posto di battaglia per la pace” — ossia: ogni lavoratore che fa il suo dovere contribuisce a rafforzare il socialismo e quindi a conservare la pace nel mondo

di Gianluca Falanga*

Fra le tante leggende dure a morire che circolano sulla DDR, due particolarmente tenaci riguardano il rango e la forza della sua economia. La prima di queste vuole che il Paese del Muro sia stato la decima potenza industriale del pianeta. No, non era una trovata propagandistica del regime di Ulbricht e Honecker, all’origine pare vi fosse una classifica pubblicata nel 1958 dalla Banca mondiale, peraltro malamente letta perché si riferiva al Pil e non ai dati della produzione industriale (che i paesi socialisti tenevano comunque riservati). Ad ogni modo, alla Sed il titolo non dispiacque, lo sfoggiarono negli anni sessanta, poi smorzarono, limitandosi a celebrare la DDR come “una delle principali potenze industriali del mondo”. Il piazzamento, evidentemente, non riusciva credibile neanche a loro.

Infrastruttura obsoleta e usarata, ritado tecnologico, bassa produttività: il
sistema industriale della DDR era entrato negli anni ottanta in una crisi profonda
e irreversibile

Come stavano davvero le cose, venne fuori impietosamente nel 1990, quando alla vigilia della riunificazione tedesca si palesarono le condizioni desolanti in cui versava il sistema produttivo della DDR: circa il 50% degli impianti industriali, per lo più risalenti agli anni venti o trenta, era usurato, obsoleto e fortemente inquinante (negli anni ottanta la Germania est aveva il più alto tasso di emissioni pro capite di anidride solforosa e polveri sottili d’Europa), dalla metà degli anni settanta, festeggiati come il decennio del piccolo miracolo economico tedesco-orientale, la produttività del lavoro era andata inesorabilmente riducendosi (nel 1989 meno di un quarto di quella dei paesi occidentali) causa investimenti insufficienti e ritardo tecnologico accumulato. Era esploso invece il debito estero per la necessità di importare beni che non si era in condizione di produrre.

LA FINE DEL REGIME? PIÙ PER BANCAROTTA POLITICA CHE PER INSOLVENZA

L’inquinamento idrico e il più elevato tasso di emissioni pro capite di anidride solforosa e polveri sottili facevano della DDR il più inquinato Paese d’Europa

Questo non vuol dire che il tutto meritasse di venire liquidato come massa fallimentare, tanto più che la DDR – e qui veniamo alla seconda leggenda inossidabile – non morì per insolvenza, come molti pensano, anche grazie ai due crediti miliardari concessigli negli anni ottanta dalla “nemica” Germania ovest, che le consentirono di lenire nell’immediato gli effetti dell’acuta sofferenza finanziaria annunciatasi nel 1981, quando il Cremlino decise di ridurre drasticamente le forniture di greggio sovietico, che la DDR riceveva a prezzi di favore, raffinava e rivendeva con profitto sui mercati internazionali. Fu un colpo devastante, ma bisogna aver chiaro che la dittatura della Sed crollò per bancarotta politica e morale, non economica, letale le fu la profonda crisi di autorità e legittimazione provocata dall’incapacità del gruppo dirigente di capire e rispondere alla pressante richiesta di democratizzazione e modernizzazione del sistema proveniente dalla popolazione, insofferente alla tutela autoritaria cui era da decenni sottoposta. Chiaramente fece il suo anche il mutato contesto internazionale.

Alexander Schalck-Golodkowski, capo del Kommerzielle Koordinierung (detto “KoKo”), in uno scatto di Eva Bruggmann (1988)

Se, nella crisi dell’autunno 1989, la DDR non era insolvente, come certificò dieci anni più tardi una relazione della Bundesbank, la situazione era comunque disperata: per recuperare valuta pesante si era arrivati a vendere all’ovest qualsiasi cosa (ma queste pratiche si portavano avanti già dalla fine degli anni sessanta), opere d’arte confiscate ai collezionisti privati e sottratte ai musei, sacche ematiche col sangue dei carcerati, persino il ciottolato delle strade di paese, negli ospedali si sperimentavano medicinali sui ricoverati, ignari, per conto delle grandi case farmaceutiche occidentali, che offrivano fino a 800.000 marchi a paziente, funzionari della Stasi del famigerato reparto KoKo speculavano sul mercato azionario alla borsa di Francoforte e contrabbandavano armi, droga e sigarette.

LA COLOSSALE DEINDUSTRIALIZZAZIONE (A TAPPE FORZATE) DEGLI ANNI NOVANTA

VEB Chemiekombinat Bitterfeld (1989)

Il problema è che si era vissuto al di sopra delle possibilità: la spesa pubblica per alimentare il sistema delle garanzie sociali e gli enormi costi del sovvenzionamento dei beni primari (affitti, servizi sanitari e consumi energetici privati compresi) si era rivelata insostenibile. L’azzardo di finanziare a debito, al di sopra delle reali capacità produttive del Paese, un innalzamento dei livelli di consumo della popolazione per stemperarne l’ostilità, come voluto da Honecker proclamando nel 1971 la celeberrima “unità di sviluppo economico e politica sociale”, aveva messo il sistema economico della DDR su un binario a senso unico, cacciandolo in un circolo vizioso. La certezza che maggiori consumi e sicurezza sociale avrebbero stimolato la crescita produttiva necessaria a coprire la spesa dello Stato si era scontrata con la dura realtà di problemi insormontabili senza il ricorso a riforme strutturali, categoricamente rifiutate dal regime per ragioni politiche e ideologiche: qualsiasi intervento avrebbe comportato un sensibile abbassamento del tenore di vita della popolazione, con prevedibili conseguenze destabilizzanti sulla tenuta del regime.

Berlino Alexanderplatz, 4 novembre 1989: oltre un milione di cittadini della DDR manifestano contro la dittatura della Sed, per riforme democratiche, il rispetto dei diritti civili e la fine della tutela autoritaria del regime

Quanto accadde all’indomani dell’entrata in vigore del trattato di unione monetaria, economica e sociale il 1° luglio 1990 è qualcosa che non ha precedenti e come tale operazione assai complessa, delicata e inevitabilmente controversa. Lasciando da parte tutte le valutazioni che si possono fare circa la sua opportunità o inevitabilità nel contesto storico dell’epoca, le comprensibili recriminazioni su ciò che poteva essere fatto altrimenti oppure doveva essere evitato, il trasferimento del sistema industriale di un Paese ad economia pianificata, che non aveva conosciuto terziarizzazione, verso un ordinamento di economia sociale di mercato in tempi di rapida globalizzazione assunse il carattere di una colossale deindustrializzazione a tappe forzate. I costi umani furono immensi e hanno lasciato segni profondi nei territori orientali dell’odierna Germania, nel paesaggio come nelle biografie delle persone. Per comprendere che cosa abbia significato per milioni di tedeschi orientali quel passaggio e, in modo particolare, l’esperienza diffusa della disoccupazione degli anni novanta, occorre avere un’idea di ciò che era il lavoro in una società come quella della DDR.

LA FABBRICA COME FULCRO DELLA VITA SOCIALE

Ideologia del lavoro nel socialismo reale (Esposizione “Vita quotidiana nella DDR” presso la Kulturbrauerei, Berlino)

Premesso che una storia sociale della DDR attende ancora di essere scritta con la profondità e l’equilibrio dovuti, tocchiamo qui solo alcuni fondamentali, giusto per orientamento. Il principio, secondo la dottrina di Stato marxista-leninista vigente, era che l’individuo potesse e dovesse realizzare se stesso solo nella comunità e in armonia con l’interessa della collettività. Il lavoro autonomo era ridotto a un minimo residuale, reso poco attrattivo con strumenti giuridici e fiscali (aliquote d’imposta fino al 98%) e confinato a pochi e ristretti settori (artigianato, piccolo commercio). Si lavorava inseriti in collettivi di lavoro, chiamati brigate, le quali non adempivano solo agli incarichi loro assegnati nel processo produttivo, bensì svolgevano compiti di natura educativa: nel collettivo doveva giungere a maturazione la cosiddetta personalità socialista, quel corredo di valori e norme comportamentali ai quali si veniva formati sin dalla più tenera età e all’assimilazione dei quali erano di fatto vincolati i diritti civili e sociali del singolo.

Le fabbriche della DDR non erano semplici luoghi di lavoro, bensì centri attorno ai quali era organizzata la vita sociale. Alle imprese erano ancorate strutture che garantivano l’accesso ad attività sportive, culturali e ricreative, gli asili gratuiti per i bambini e anche spacci aziendali per fare la spesa, carenza di merci permettendo. Seppure gerarchicamente organizzate, le brigate diventavano per molti una seconda casa o un surrogato della famiglia, i capi brigata, responsabili in primis del rispetto degli obblighi di produzione prestabiliti, erano in genere figure di riferimento in un sistema di relazioni umane che spesso acquisiva un carattere paternalistico e clientelare (il controllo disciplinare e delle carriere esercitava forti pressioni e alta era la densità di delazione), ma offriva anche momenti e opportunità di vivere sincera e reale solidarietà.

UN ARTICOLATO SISTEMA DI PREMI, TITOLI E DECORAZIONI

“Il mio posto di lavoro è il mio posto di battaglia per la pace”

Secondo gli stessi presupposti ideologici, il lavoro non doveva ridursi a mero impiego retribuito né servire alla realizzazione individuale del singolo. Qui la forbice fra ideologia e realtà era parecchio larga. Un problema serio era la motivazione al lavoro, svolto spesso in condizioni non ottimali, usuranti e nocive della salute (frequenti erano anche gli incidenti sul lavoro, per il cattivo stato degli impianti). Uno degli slogan più diffusi nelle bacheche degli operai dentro le fabbriche dei grandi poli della produzione chimica e siderurgica di Stato era “Il mio posto di lavoro è il mio posto di battaglia per la pace”, ossia: ogni lavoratore che fa il suo dovere e produce coscienziosamente, anche oltre il dovuto, contribuisce a rafforzare il socialismo ergo a conservare la pace nel mondo. Ma gli ideali non bastavano. Rigettando logiche di concorrenza per spronare (ogni competizione doveva lasciare il posto alla solidarietà e all’unità nell’interesse collettivo), la burocrazia di partito faceva ricorso a un articolato sistema di premi, titoli e decorazioni di cui insignire i collettivi o i singoli più efficienti e meritevoli.

Scioperare nella DDR non era illegale, ma il sindacato unico di Stato FDGB, a cui dovevano essere iscritti tutti i lavoratori, non lo consentiva: perché – dicevano i funzionari – uno sciopero di operai contro lo Stato degli operai, dove questi (in teoria) avevano la proprietà dei mezzi di produzione, sarebbe stato un controsenso. Previsto dalla prima Costituzione del 1949, il diritto allo sciopero era stato cancellato dal diritto del lavoro nel 1961 e mai più reintrodotto.

A sinistra: Rappresentazione eroizzata del lavoratore. A destra: operaio chimico a Bitterfeld, 1989 (Knut Gielen®, fonte: www.knutgielen.de)

Alle masse si predicava che il lavoro è il principale bisogno dell’uomo, il fulcro e il senso dell’esistenza. Tutte le attività lavorative erano vincolate per legge dal piano economico. Si pianificava tutto e ogni processo era scomposto nei suoi minimi passaggi, in modo che ciascun lavoratore sapesse esattamente cosa fare e quale prestazione ci si attendesse da lui. In realtà, il livello di organizzazione era raramente all’altezza delle ambizioni e gli obiettivi di piano sempre irrealistici. I dettami della pianificazione centrale creavano rigidità che ostacolavano il processo produttivo, per compensare i danni provocati dalle frequenti sospensioni della produzione a causa dei guasti ai macchinari e della cronica mancanza di materiali non bastava l’iniziativa e la creatività dei singoli (alle quali erano lasciati spazi molto stretti) e nemmeno gli straordinari dei lavoratori più volenterosi.

SCARSA AUTOMAZIONE, PIENA OCCUPAZIONE (O QUASI)

Nella DDR era occupato il 91,2% delle donne in età lavorativa (record mondiale)

Nella DDR il lavoro era un diritto costituzionalmente riconosciuto che includeva però anche l’obbligo di lavorare, pena la prigione per chi rifiutava un qualsiasi impiego (il paragrafo 243 CP DDR puniva la “condotta asociale” con la rieducazione fino a due anni di carcere). La mancanza di investimenti nell’automazione imponeva intensivo utilizzo di manodopera, di cui vi era penuria permanente. Le condizioni erano dunque prossime alla piena occupazione (quella femminile al 91,2% nel 1989, record mondiale), con una zona grigia di emarginati per motivi politici e di disciplina sociale (ma anche di autoesclusi, che cercavano nicchie di esistenza alternativa ai margini del sistema) difficile da quantificare. La povertà era ufficialmente abolita, nei fatti ne pativano gli anziani (per le pensioni assai basse, ma chi aveva compiuto 60 anni era libero di andare all’ovest) e le famiglie numerose. Anche le classi erano abolite, ma esisteva, in un quadro di generale livellamento verso il basso, una sensibile differenza di status e tenore di vita fra la massa e la casta privilegiata dei funzionari.

Le condizioni di lavoro nei grandi poli dell’industria siderurgica e chimica di Stato erano assai usuranti e nocive alla salute, frequenti erano gli incidenti sul lavoro per l’insufficiente manutenzione. Scioperare nella DDR non era illegale, ma il sindacato unico di Stato FDGB non lo consentiva

La garanzia di un lavoro, per i più modestamente retribuito ma comunque sicuro, trasmetteva sicurezza materiale, da contro le restrizioni alla libertà di scelta della professione erano fonte inesauribile di insoddisfazione, frustrazioni e attriti con l’autorità che esercitava un ferreo controllo politico delle opportunità di formazione. La prospettiva di un lavoro fisso fino alla pensione era infatti condizionata dal diktat della pianificazione economica e dalla volontà del partito di promuovere solo elementi “positivi”: nella settima classe (il corrispondente della nostra seconda media) i funzionari raccoglievano le aspirazioni professionali degli scolari e li orientavano verso i mestieri secondo il fabbisogno di piano. Nel 1985 l’Istituto centrale di ricerca sulla gioventù di Lipsia appurò che il 45% dei giovani era costretto ad apprendere una professione diversa da quella cui aspirava. La convinta e partecipata integrazione nel sistema politico-ideologico veniva prima del merito, specie nella selezione di chi era lasciato accedere all’istruzione superiore (licei e università), il capillare sistema di vagliatura e discriminazione dei profili “negativi”, appendice dell’onnipresente apparato di polizia segreta, aveva maglie molto strette e riusciva ad essere puntuale ed efficace.

LA CATASTROFE DEMOGRAFICA E LA DISAFFEZIONE VERSO LA DEMOCRAZIA

Trauma privatizzazioni: negli anni novanta la liquidazione del sistema produttivo della DDR scatena forti proteste per la deindustrializzazione e la conseguente disoccupazione di massa

Che questo sistema, coi suoi pregi, problemi e criticità, non sia stato capace di sopravvivere nella competizione globale, in un mondo caratterizzato da crescenti interdipendenze e connessioni transnazionali come andò profilandosi dalla fine degli anni settanta, ha ragioni molteplici e complesse. Di sicuro non si può imputare né alle capacità né alla mancanza di impegno dei milioni di donne e uomini che vissero nella DDR, ai quali era negata qualsiasi sovranità ovvero la possibilità di influenzare le decisioni politiche assunte dagli organi centrali del partito. Sono stati loro però a pagare il prezzo più alto per gli errori commessi. La diffusa esperienza della perdita del posto di lavoro in un contesto di generale trasformazione dei valori di riferimento nella vita privata e collettiva non generò solo crisi esistenziali, la chiusura di migliaia di impianti sottrasse ai territori l’infrastruttura sociale (scuole, biblioteche, ospedali, trasporti pubblici) che alla fabbrica era saldata. A ciò si aggiunse una vera e propria catastrofe demografica, provocata da ben due ondate migratorie nel giro di un decennio, che ridussero di un quarto la popolazione fra i 18 e i 30 anni.

Titolo del settimanale DIE ZEIT, ottobre 2019: “L’arbitrio di Stato nella DDR non era peggio di ciò che viviamo oggi”. Nelle regioni orientali della Germania si discute molto su come valutare le esperienze fatte nella DDR, non prevale alcuna nostalgia della dittatura, ma si vuole fare tesoro della propria storia per affrontare criticamente i problemi del presente

Le cicatrici, in alcune aree, si vedono e si percepiscono. Come ha scritto Jana Hansel, in quei turbolenti primi anni novanta l’entusiasmo per i nuovi spazi di libertà conquistati e la gioia per la riunificazione dopo decenni di lacerante divisione andavano a braccetto con l’insicurezza e le nuove paure esistenziali. Bisognava faticosamente imparare ad essere padroni del proprio destino, responsabili delle proprie scelte di vita. Come in tutte le grandi trasformazioni epocali ci sono stati opportunità e ingiustizie, vincitori e perdenti. Nacque allora quel sentimento di diffidenza e disaffezione verso la democrazia tedesca che ancora oggi si può incontrare vivendo in Sassonia o nel Brandeburgo. Ma è un sentimento che da tempo convive con un’altra consapevolezza maturata negli anni e altrettanto diffusa, quella di essersi liberati della dittatura, di aver affrontato il regime e il suo apparato repressivo facendo valere la propria volontà di cambiamento. Da questa consapevolezza scaturisce la determinazione a fare tesoro delle proprie specifiche esperienze di vita raccolte nel quarantennio del socialismo reale per affrontare le prove del presente e del futuro, con la legittima rivendicazione di vedere compresa la propria storia e il proprio vissuto nella coscienza collettiva della Germania contemporanea.

Storico e ricercatore, Falanga ha pubblicato numerosi lavori sulla Stasi e la DDR. Il suo ultimo libro – Non si parla mai dei crimini del comunismo – è uscito recentemente per Laterza.