Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
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Di Alberto Moravia (L’Espresso, 17 marzo 1963)
Dopo il processo contro Pier Paolo Pasolini, vinti dalla stanchezza d’una giornata passata in tribunale ad ascoltare le varie e tutte fluviali arringhe del Pubblico Ministero e degli avvocati di difesa, ci addormentammo e facemmo il sogno seguente. Ci pareva d’essere in un tipico salotto della media borghesia romana, il salotto d’un professionista di mezza tacca o d’un altro funzionario con i soliti mobili più o meno falso antichi, i soliti tappeti persiani, i soliti paralumi, i soliti divani, le solite poltrone. C’era un certo numero di persone, avvocati, ingegneri, medici, funzionari di Stato, con le loro mogli. Si stava tutti seduti in cerchio a una tavola sulla quale si vedevano i soliti vassoi e le solite bevande.
A un certo punto nasceva una discussione intorno all’ultimo film di Pasolini, il quale, chissà come, era presente in un luogo così diverso da quelli che consuetamente frequenta. Un avvocato meridionale, intorno alla quarantina, molto focoso e di bella presenza, attaccava con violenza il film, adducendo una quantità di ragioni di specie, diciamo così, sentimentali anche se accompagnate da uno sfoggio impressionante di cultura; alcuni dei presenti gli davano ragione, altri gli davano torto, anche loro con abbondanza di argomenti. Le signore, che non capivano un’acca di questi discorsi così seri dei loro mariti, tacevano fingendo di capire oppure parlottavano tra di loro. Ogni tanto la padrona di casa, assai contenta che il suo ricevimento fosse così animato, s’alzava e faceva circolare il vassoio con le paste oppure riempiva i bicchieri vuoti. Quanto a Pasolini, egli si difendeva con ostinata dolcezza, cercando di spiegare il tema del film, senza però riuscire a farsi capire sia per la differenza di mentalità, di cultura e addirittura di linguaggio tra lui e i suoi avversari, sia perché soverchiato dalla foga intransigente ed aggressiva dell’avvocato meridionale. C’erano anche alcuni dei presenti che non prendevano parte alla discussione e mostravano per chiari segni d’essere annoiati e desiderosi di andarsene a casa.
Alla fine della discussione Pasolini e tutti gli altri salutavano la padrona di casa e passavano nell’anticamera; ma qui, oh meraviglia, due robusti carabinieri afferravano per le braccia Pasolini e gli mettevano le manette dichiarandolo in arresto. Alle proteste di Pasolini e di alcuni suoi amici, uno di quei signori che finora aveva taciuto senza prendere parte alla discussione, un signore dai capelli brizzolati e dall’aspetto molto serio, in doppio petto grigio, si faceva avanti e gli notificava che egli era condannato a quattro mesi di prigione per avere contraddetto l’avvocato suo avversario. Aggiungeva che egli doveva capire che si trattava d’una condanna in fondo molto mite perché le opinioni dell’avvocato erano anche le opinioni della maggior parte degli ospiti di quel salotto e lui non s’era accorto d’aver appunto offeso questi ospiti con il suo film.
A questo punto ci svegliammo e ci rendemmo conto che la scena da noi sognata era in realtà avvenuta in un’aula del Palazzo di Giustizia di Roma, per essere precisi proprio nell’aula in cui durante il ventennio nero si celebravano i processi del Tribunale Speciale.
Sogni a parte, davvero veniva fatto di pensare, mentre il Pubblico Ministero pronunziava la sua requisitoria contro Pasolini: «Se quest’uomo si trovasse invece che in un’aula di tribunale, in un salotto, probabilmente parlerebbe di meno, ci risparmierebbe la lezione sui manieristi e molte considerazioni sulla Chiesa cattolica, non minaccerebbe i suoi contraddittori dei rigori della legge e tutti saprebbero che egli espone le sue idee private, cioè le idee di una bene determinata società alla quale appartiene; e alla fine, forse, potrebbe anche essere possibile manifestare idee diverse dalle sue, cioè d’una società diversa e tutto finirebbe lì».
Già osserverà a questo punto qualcuno, ma il Pubblico Ministero si comportava in quel modo proprio perché si trovava in un’aula del Palazzo di Giustizia e non in un salotto. Noi rispondiamo che mentre è verissimo che ci trovavamo in un’aula di tribunale e non in un salotto per converso, la materia non era affatto da aula di tribunale. In altri termini si trattava di una materia assolutamente opinabile e inafferrabile dagli strumenti della giustizia; una materia nella quale l’opinione del Pubblico Ministero non valeva certamente più di quella degli avvocati della difesa e di qualsiasi altra persona che si trovava in quel momento nell’aula: una materia, insomma, talmente incerta da rendere tutto il processo assurdo, inverosimile, incredibile. Questa materia giustificava il nostro sogno; e contrastava invece violentemente con i paludamenti della giustizia, con l’irruenza del Pubblico Ministero, con la gravità e i silenzi solenni del Presidente e con i carabinieri in divisa. E faceva apparire del tutto improbabili le aquile, le torce, i fasci, le colonne e tutti gli altri ridicoli simboli del mostruoso Palazzo di Giustizia di Roma nel quale la borghesia dell’epoca liberty volle esprimere la sua idea della giustizia, al tempo stesso melensa e terrificante.
Questa materia opinabile, fluttuante, dibattuta milioni di volte, profondamente incerta e inconsistente, questa materia dell’arte e dell’espressione artistica del sentimento religioso trovava tuttavia un suo punto fermo così nel Pubblico Ministero come in Pasolini. Il punto fermo del Pubblico Ministero era ravvisabile nella sua situazione sociale; quella di Pasolini nella sua religiosità.
E veniamo prima di tutto al Pubblico Ministero e alla condanna da lui richiesta e ottenuta nei confronti di Pier Paolo Pasolini. Egli accusava Pasolini di «vilipendio della religione». In realtà avrebbe dovuto accusarlo del reato di «vilipendio della media e piccola borghesia». E questo non tanto perché Pasolini aveva detto per bocca di Orson Welles che: «l’Italia ha il popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante d’Europa», e che «l’uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente razzista, conformista, schiavista, colonialista, qualunquista» quanto perché aveva attaccato questa borghesia, quest’uomo medio in ciò che costituisce la loro giustificazione metafisica, oppure, se si preferisce dirla alla maniera marxista, in ciò in cui consiste la sovrastruttura della loro fondamentale struttura. Infatti: Pasolini non aveva certamente vilipeso la religione cattolica (ed è per questo, e non per paura conformista, che molti cattolici e preti che non condividono le concezioni religiose della borghesia, non hanno avuto niente da ridire sulla Ricotta) bensì aveva vilipeso la piccola e media borghesia italiana attraverso la critica dell’idea che essa si fa della religione cattolica. E qual era questa idea? Era l’idea che traluce nei santini in tricromia, nelle oleografie sotto vetro, nella statuaria di gesso colorato, in tutta insomma l’orribile cianfrusaglia e chincaglieria sacra il cui stile fu determinato una volta per tutte, alcuni secoli fa, dalla versione iconografica che delle figure del Vecchio e Nuovo Testamento diedero Raffaello e soltanto in piccola parte i manieristi. Era un’idea, diciamolo pure, assolutamente fossile, zuccherosa, convenzionale, precettistica, feticistica, idolatrica, superstiziosa: un’idea, per definirla con una parola sola, convenzionale, cioè completamente priva di contenuto religioso e fatta apposta per la comunità d’una società, appunto anch’essa del tutto irreligiosa.
Di questa idea Pasolini aveva mostrato la vuotaggine e l’aridità con il semplicissimo e ben noto procedimento espressionistico consistente nel mostrarci sotto i volti convenzionalmente atteggiati della Sacra Famiglia, i volti reali della famiglia umana corrotta e decaduta di questi anni di grazia. Ripetiamo: è un procedimento vecchio quanto la pittura, di cui si possono trovare i precedenti nell’arte grottesca dei vari Brueghel e Bosch oppure in quella degli espressionisti tedeschi dell’altro dopoguerra; ma al Pubblico Ministero ammiratore dei manieristi aveva fatto l’effetto d’una profanazione. Ahimè, il Pubblico Ministero aveva creduto di vedere un vilipendio della religione là dove c’era semplicemente una diversa concezione artistica. Forse potrà tornare utile ricordare a questo punto l’aneddoto di Bernard Berenson il quale, essendogli stato annunziato che Gesù era apparso al pontefice Pio XII, si limitò a domandare: «e in che stile?».
E veniamo a Pier Paolo Pasolini. Abbiamo detto che in questa materia estremamente opinabile, fluida e inconsistente dell’espressione artistica del sentimento religioso c’era tuttavia in lui un punto fermo: la sua religiosità. E infatti: in quell’aula di tribunale il solo uomo veramente religioso era proprio Pasolini. Il Pubblico Ministero si muoveva sul terreno fossile delle tradizioni defunte, cioè di santini in tricromia, delle statue di gesso colorato, della bondieuseries per dirla con i francesi proprie alla religione che piace alla nostra piccola borghesia: soltanto Pasolini aveva saputo far qualche cosa di nuovo e di vivo con la storia della Passione, questa storia sublime, un tempo così feconda e oggi così sterile: aveva saputo, diciamo, strappare il Cristo, la Madonna e i Santi dagli atteggiamenti teatrali e insignificanti in cui li ha chiusi tre secoli di convenzionalità controriformistica e farli muovere e vivere in una maniera nuova, tra i ruderi e i prati della periferia, sullo sfondo dei palazzi di cemento armato dei sobborghi romani.
Il Pubblico Ministero difendeva la religione cara a certa società italiana; Pasolini, lui, s’era limitato a prendere sul serio un passo del Vangelo. La religiosità di Pasolini si riconosceva dunque nel fatto che aveva saputo fare della poesia con una materia che pareva ormai definitivamente impoetica e perciò abbandonata alla ruffianeria commerciale delle fabbriche di oggetti sacri. Crediamo infatti che questa sia davvero la prova suprema della validità, vitalità e attualità d’una religione; di sapere ispirare la poesia. Ora a giudicare dalla produzione artistica cattolica dei giorni nostri che tanto piace al Pubblico Ministero, dai quadri rifatti sui manieristi ai film di Cecil De Mille, si direbbe che il Cristo è altrettanto morto quanto Giove, Apollo e Venere; ma a giudicare dallo sgradevole, violento, stridulo quanto si vuole, ma vitale e attuale episodio della Ricotta di Pasolini si ricava l’impressione che il Cristo sia ancora ben vivo e operante e che la religione cristiana non è ancora un fossile come tante altre religioni che l’hanno preceduta nella storia.
Il Pubblico Ministero, con la meticolosità propria a coloro che non credono se non vedono, si fece portare la moviola nell’aula per mostrare alla Corte i punti, venticinque in tutto, che a suo parere giustificavano la condanna di Pasolini. Ora è notevole che proprio i punti in cui la religiosità di Pasolini s’esprimeva con più forza e più chiarezza fossero considerati dal Pubblico Ministero come i più scandalistici e i più irriverenti. Per esempio, la sequenza della corona di spine. In questa sequenza, dopo che i vari tirapiedi e aiutanti del regista hanno ripetuto in vari toni, dallo scherno alla stanchezza e alla noia: «La corona», due mani si protendono sullo schermo vuoto tenendo tra le dita la corona di spine di Gesù. Ora non c’è bisogno d’essere molto esperti della tecnica cinematografica per riconoscere nell’indugio della macchina da presa sulla corona di spine isolata nel mezzo dello schermo e in primo piano, il significato di un punto esclamativo ossia d’una sottolineatura di venerazione e di contemplazione religiosa. Non essersi accorti del significato di questa immagine, dimostra che il Pubblico Ministero non ha familiarità con il linguaggio cinematografico. Quei secondi durante i quali la corona di spine campeggia sullo schermo sono i secondi della religione di Pasolini di fronte ai quali non valgono i novanta minuti dell’oratoria del Pubblico Ministero.
Il processo contro Pier Paolo Pasolini ha dunque veduto contrapposte, l’una di fronte all’altra, fatto non nuovo e anzi abbastanza normale, la vera religione e la religione convenzionale, il sentimento religioso e il sentimento bigotto, l’arte viva e l’arte commerciale, la difesa della poesia e la difesa della società.
Abbiamo detto che invece di accusare Pasolini di vilipendio della religione sarebbe stato più giusto accusarlo di vilipendio della borghesia piccola e media; ma non vorremmo essere fraintesi. Pasolini non ha voluto vilipendere nessuno, né la piccola, né la media, né l’alta borghesia, né il popolo; egli ha voluto soltanto fare una certa particolare opera d’arte e secondo noi ci è riuscito in pieno. È stata invece la media e piccola borghesia che s’è sentita vilipesa nell’idea ch’essa ha voluto ricordare a Pasolini ch’essa si identifica con lo Stato Italiano e che ogni offesa a lei è un’offesa allo Stato.
Il Pubblico Ministero ha detto di voler difendere la nostra libertà da coloro che, come Pasolini, vogliono «rapinarla». Noi diciamo allora: «alla larga da questo genere di difesa». Ci sembra infatti che non si difende affatto la libertà attribuendo ad un paese intero i gusti e le idee d’un ristretto gruppo di cittadini. Noi siamo invece convinti che la borghesia di cui il Pubblico Ministero s’è fatto paladino sia in fondo molto migliore di quanto egli non creda. E ch’essa non ha affatto bisogno d’essere difesa con i sequestri e la prigione, bensì illuminata, migliorata e aiutata ad una comprensione diversa dell’arte e della cultura.