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Caso Orlandi: la «pista dei marinai» e gli errori dei Servizi

Tommaso Nelli

Nel luglio del 1983, un appunto del Sisde riportava di alcune discutibili conoscenze maturate da Emanuela Orlandi tra alcuni giovani impegnati nel servizio di leva a Roma. Da un approfondimento sui loro nomi si è però appurata l'infondatezza di buona parte delle informazioni provenienti dai Servizi

Nella scomparsa di Emanuela Orlandi sbagliarono anche i servizi segreti. E lo fecero scrivendo appunti generatori di piste buone solo a perdere tempo. Come la cosiddetta «pista dei marinai», che avrebbe voluto coinvolti, nella sparizione della cittadina vaticana, alcuni giovani in servizio di leva presso la caserma Maridist di Roma, entrati in contatto con lei e con il suo gruppo di amiche nell’inverno del 1983.

Una pista nata da un documento del Sisde, l’allora servizio segreto civile, del 18 luglio 1983, contenente però diversi errori. Secondo l’appunto, nell’abitazione di un’amica di Emanuela Orlandi, Cristina Franzè, si sarebbero tenute «due feste da ballo», alle quali avrebbe partecipato «anche Emanuela Orlandi: una il 15 gennaio e l’altra nel periodo di Carnevale». Oltre alle ragazze e ai ragazzi del cosiddetto gruppo del Vaticano, sempre secondo il Sisde, sarebbero stati presenti anche «tre giovani, non conosciuti prima dalla comitiva […] di età variante tra i 20 e 22 anni […] invitati dalla padrona di casa, in quanto uno di essi, tale G.» sarebbe stato «il fidanzato della Franzè». 

«I giovani in argomento», continua il documento dei Servizi, «durante i due ricevimenti, sono rimasti appartati, attribuendo tale comportamento a forte timidezza. Tale giustificazione non ha trovato, però, riscontro con quanto appreso da altri presenti al ricevimento che, in più occasioni, li hanno notati in Piazza San Pietro intenti ad “abbordare” giovani straniere e turiste italiane […] Gli accertamenti informativi svolti al riguardo, hanno consentito di appurare che i due prestano servizio militare in Marina». L’indomani (19 luglio 1983) un altro appunto del Servizio riportò le generalità di due di quei militari: G.P. e C.Z. Su quest’ultimo furono aggiunti particolari non proprio commendevoli per la sua moralità. Dopodiché si riportava come, «nel confermare le notizie già riferite sul conto dei due», questi militari avessero «costituito un vero e proprio “clan”» insieme ad altri quattro: C.C., M.S., M.M. e infine G.E., sul quale fu scritto che «sarebbe stato presentato dalla Franzè a Emanuela Orlandi».

«EMANUELA ORLANDI? CI AVRÒ SCAMBIATO DUE O TRE PAROLE»

Avevo riportato questo resoconto nel mio libro, Atto di Dolore, lasciando aperto l’interrogativo su quale peso specifico potesse aver avuto nella vicenda. Le tempistiche di pubblicazione avevano reso possibili pochissimi approfondimenti e la fonte della notizia, documenti dei nostri servizi segreti con tanto di intestazione e timbro «riservato» a classificarli, induceva a ritenerli autorevoli per definizione.

Sennonché la mancanza di grandi sviluppi su questa pista all’interno dell’inchiesta giudiziaria su Emanuela Orlandi, unita alla voglia di conoscere, mi ha spinto nel corso di questi ultimi anni a oltrepassare le colonne d’Ercole dell’ufficialità e a voler vedere oltre il Sisde. Così mi sono messo sulle tracce di quegli ex marinai. Scoprendo che due di loro, C.C. e M.S., nel frattempo erano venuti a mancare e prendendo atto che M.M. risultava irrintracciabile. Mentre su G.E. trovavo che già il 20 luglio 1983 era stato ascoltato dai Carabinieri del Reparto Operativo di Roma. Ai quali rilasciò una versione in netto contrasto con quella del Sisde. Perché lui era arrivato nella Capitale nella notte precedente la sparizione di Emanuela e dunque non solo non poteva aver partecipato a quelle feste, ma non poteva proprio averla mai conosciuta: «Sono partito per svolgere il servizio di leva il 30 maggio corrente anno, presso La Spezia. Da qui sono partito il 21 giugno e sono arrivato in nottata presso il Reparto ove attualmente presto servizio».

Questa prima discrepanza, se da una parte inficiava la bontà dell’appunto del Servizio, dall’altra aumentava la mia curiosità. Su quei marinai, ma soprattutto su quelle informazioni del Sisde: erano vere o no? Per saperne di più, non mi rimaneva che C.Z. Col quale mi incontrai la mattina del 1°ottobre 2022. In un colloquio di oltre un’ora, mi fornì una versione ben diversa da quella del Servizio. Perché raccontò di essere arrivato a Roma nella primavera inoltrata del 1983«Mi sembra di ricordare fosse tipo aprile-maggio» – e di aver appena conosciuto Emanuela Orlandi e il suo gruppo di amiche: «Conobbi, assieme ad altri commilitoni (ricordava C.C., M.S. e M.M., ndg), questo gruppo di ragazze, in zona S. Pietro, fra le quali c’era anche Emanuela Orlandi, che però realizzai chi fosse dopo l’uscita dei manifesti successivi alla sua scomparsa». E prima? «Non più di tanto. Ci avrò scambiato due o tre parole. Anche perché i nostri rapporti con questo gruppo di ragazze, fra le quali c’era anche lei, erano platonici e avvenivano all’aperto. Ci vedevamo a piazza S. Pietro o ai Giardini di C. S. Angelo. Loro poi dicevano di abitare intorno e non potevano allontanarsi più di tanto».

UNA «PISTA DEI MARINAI» FONDATA SU PRESUPPOSTI FALSI

Queste sostanziali differenze con il resoconto dei nostri 007 intensificarono i miei dubbi sul loro operato e la voglia di andare a fondo sulla questione. Per vederci chiaro, una volta per tutte, bisognava appurare quando C.Z. fosse giunto nella Capitale. Ma come saperlo? Attraverso il suo foglio matricolare, che riporta date e luoghi dello svolgimento del servizio di leva. Una volta letto – ve lo proponiamo inedito – la scoperta è stata sbalorditiva: C.Z., che aveva iniziato il servizio presso la Marina Militare a La Spezia nel giugno 1982 per poi spostarsi a Venezia, approdò alla caserma Maridist di Roma (situata nel rione Prati e dunque nelle vicinanze di piazza S. Pietro) il 28 febbraio 1983. In anticipo rispetto a quanto ricordava, ma soprattutto in un periodo successivo alle feste a casa di Cristina Franzè citate dal Sisde alle quali, al pari di G.E., non partecipò. Perché il Carnevale di quell’anno iniziò il 30 gennaio e terminò il 15 febbraio 1983. Per cui il Servizio aveva sbagliato a riportare il suo nome in quel documento e a formulare pesanti illazioni nei suoi confronti. Ma non solo. Questa sua estraneità al fatto, insieme a quella di G.E., dimostra come la «pista dei marinai» adombrata dal Sisde si poggiasse su diverse falsità e fosse quindi inattendibile.

Ci si potrebbe fermare qui, ma sarebbe riduttivo e si trascurerebbe un’altra importante notizia: le ripercussioni di quegli errori nell’economia investigativa della vicenda. Perché quell’appunto fu l’innesco proprio per quella pista, tanto che già alle 18:30 di quel 18 luglio 1983 i Carabinieri convocarono Cristina Franzè. La ragazza raccontò la conoscenza alla festa – «G. ha conosciuto Emanuela in occasione di una festa da me data nel mese di febbraio in cui ho invitato molti dei miei amici» – rimasta però sempre sul piano superficiale: «Ritengo che G. non conosca Emanuela in maniera approfondita, in quanto non l’ha mai frequentata né da solo, né in mia compagnia». Una versione che si ritrova nelle parole dello stesso G.P., sentito sempre dal Reparto Operativo il 20 luglio alle 14 (sette ore prima di G.E.): «Ho conosciuto Emanuela Orlandi circa cinque mesi orsono in occasione di una festa data da Franzè Cristina, mia amica ed ex ragazza, a casa di quest’ultima […] Emanuela l’ho incontrata sempre quando ero in compagnia di Cristina Franzè […] Io con Emanuela non ho mai parlato, l’ho solo salutata quando è capitata l’occasione, sapendola amica della mia ragazza».

«I MILITARI? MAMMA NON LI FECE ENTRARE»

In questi anni avevo cercato entrambi. Se G.P. ha sempre ignorato le mie richieste, Cristina Franzè è stata encomiabile per l’affetto che ancora oggi nutre verso Emanuela. Della quale mi ha fornito una descrizione ritrovata in alcune sue strette amicizie come Gabriella Giordani e Pierluigi Magnesio: «Bella, più grande dell’età che aveva, piaceva perché appariscente, ma semplice, non vistosa. Tanto che aveva un gran seguito di ragazzi» mi disse nel nostro incontro del 12 novembre 2019. Parole che rinnovano l’invito a seguire la pista più logica e probabile per la scomparsa di un’adolescente, cioè quella sessuale, inducendo a chiedersi se qualche adulto degli ambienti di Emanuela, tanto depravato quanto potente per godere di questa immunità quarantennale, non avesse messo gli occhi su di lei.

Franzè in tal senso non ha idea. Perché il loro rapporto, maturato all’Azione Cattolica della chiesa di Sant’Anna dei Palafrenieri, fu superficiale: «Non stavamo mai insieme io e lei, eravamo sempre insieme alle altre della parrocchia». Franzè conferma la conoscenza all’epoca di G.P., ma esclude possa aver partecipato, assieme agli altri militari, alle feste: «Mamma, quando ha saputo che erano militari e che portavano altre persone, non li fece entrare». Parole di nuovo in contrasto con il Sisde e però anche con le sue ai Carabinieri nel 1983. Quando, come mi raccontò, fu sentita altre due volte dagli inquirenti: «Una a casa a Roma, l’altra a Torvajanica, quando ero ospite di un’amica di famiglia». Circostanze però assenti dalla documentazione giudiziaria sulla vicenda e che rappresentano un altro ottimo motivo per chiedere agli archivi di Squadra Mobile e Reparto Operativo tutto il materiale prodotto all’epoca. Perché per questa, come per altre vicende, non è solo quello confluito in Procura.

Per quanto riguarda quei marinai, solo G.E. e G.P. furono ufficialmente chiamati dall’Arma. I carabinieri avevano presto capito che la cosiddetta «pista dei marinai» era una boutade oppure la loro attenzione fu richiamata da altro? In quei giorni, la vicenda Orlandi aveva vissuto l’ultimatum della trattativa farlocca che chiedeva la liberazione di Alì Agca proprio entro il 20 luglio, altrimenti si sarebbe pervenuti alla soppressione di Emanuela. Alla scadenza, il terrorista turco non fu liberato, ma il corpo della giovane non fu mai restituito.

A distanza di oltre quarant’anni, possiamo comunque constatare altri contraccolpi prodotti da quel fasullo appunto del Servizio. Il primo fu aver impegnato gli inquirenti lungo un altro sentiero improduttivo, sottraendo tempo ed energie che invece avrebbero potuto essere destinate alla ricerca della pista giusta sulla fine di Emanuela Orlandi. Il secondo fu aver intensificato il caos investigativo con un’altra operazione di intossicazione informativa. Ovvero mescolare informazioni vere con altre fasulle per costruire una realtà verosimile, ma non veritiera.

Una tecnica che fino a quel momento era stata la costante del caso Orlandi. Si pensi al ritrovamento di alcuni scritti di Emanuela, addotti come prove che lei fosse nelle mani di qualcuno, quando invece altro non erano se non fotocopie. Oppure alle telefonate del misterioso Amerikano e di altri soggetti di diverso accento al corrente di informazioni private sul conto di Emanuela, incapaci però di provarne la detenzione. Ma soprattutto, si ricordino le telefonate di Pierluigi e Mario. Che nell’immediatezza della scomparsa (25, 26 e 28 giugno 1983) parlarono addirittura di allontanamento volontario da parte di Emanuela Orlandi. Loro furono i primi attori del depistaggio che poi evolse nel rapimento terroristico-internazionale. Già nel 2019 misi sotto la lente di ingrandimento la figura di Pierluigi. E nel corso delle mie dirette su Florence International Radio e Indagini Aperte mi ero soffermato su questo complessivo shakeraggio di ambiguità che mandò fuoristrada gli inquirenti, costringendoli a seguire strade senza sbocchi.

Ma perché organizzare un depistaggio così sofisticato per la scomparsa di una quindicenne? Per celare una verità scomoda. Per il fatto in sé e per chi ne è responsabile. Nel caso di Emanuela Orlandi, qualcuno di importante. Perché l’assassino della strada, per non essere individuato, non ha bisogno di chissà quali coperture o devianze. Bensì di un’eventuale inerzia investigativa e dell’incedere del tempo, che tutto oblia, anche se c’è il corpo della vittima (si veda, per esempio, il caso di Ketty Skerl). Anzi, il mostro da sbattere in prima pagina caro a Marco Bellocchio è proprio l’ideale per coprire il vero colpevole, quando è un pezzo grosso. Perché in un colpo solo chiude il caso, regala i riflettori a inquirenti desiderosi più di carriera che di verità, fa scrivere certa stampa che grida allo scoop per ogni nuvola in cielo e appaga gli istinti di chi non aspetta altro che vedere un corpo penzolare da una forca. Poi, se in galera va un innocente, che importa?


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