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Emanuela Orlandi: la sabbiosa «storia della Avon» e l’assenza di coraggio

Tommaso Nelli

L'episodio, mai chiarito dagli inquirenti, della finta offerta di lavoro fatta alla Orlandi poco prima di sparire, impedisce di focalizzarsi sulla vera domanda: perché la sera del 22 giugno 1983 scelse di dirigersi verso Corso Rinascimento e non dagli amici riuniti al «Palazzaccio»?

Nient’altro che un castello di sabbia. È la storia dell’offerta di lavoro che Emanuela Orlandi avrebbe ricevuto il giorno della scomparsa su corso Rinascimento, nei pressi del Senato, mentre andava alle lezioni di musica nella vicina scuola T. L. Da Victoria di piazza Sant’Apollinare. Un episodio mai chiarito dagli inquirenti, oggetto di numerose rivisitazioni e crescenti scetticismi. E che adesso, alla luce di ulteriori, mai pubblicate, versioni risalenti al 1986 (vedi in calce all’articolo, ndr), è prossimo al definitivo sgretolamento.

Ma che cosa non torna in questo racconto? Quasi tutto. Per chi si imbattesse per la prima volta nella vicenda di Emanuela Orlandi, è doveroso ricordare che il 22 giugno 1983, poco prima di sparire per sempre, Emanuela telefonò a casa e parlò con sua sorella Federica. A quest’ultima raccontò di essere stata fermata, mentre andava a lezione, da un uomo che le avrebbe proposto di volantinare per due ore, il sabato successivo e in cambio di una cifra spropositata, per la casa di cosmetici Avon a una sfilata di moda delle Sorelle Fontana. Dove?

BORROMINI O BARBERINI?

Già qui si spalanca il portone delle inverosimiglianze e delle contraddizioni. Secondo la denuncia di Natalina Orlandi, sorella maggiore di Emanuela, risalente al 23 giugno 1983, l’evento si sarebbe dovuto tenere a «Palazzo Borromini o via omonima». Se esiste una via Borromini, situata nel popolare rione San Saba e non certo luogo per defilé, a Roma non c’era (e non c’era mai stato) alcun palazzo Borromini (presente invece a Milano). L’anomalia però non suscitò alcuna reazione nella Squadra Mobile dell’epoca, che nel primo rapporto (6 luglio 1983) arrivato in Procura scrisse di «una “sfilata pubblicitaria” per la ditta “Avon” che si sarebbe svolta al palazzo Borromini».

Ma a S. Vitale non batterono ciglio nemmeno davanti alla prima variazione sul luogo di quella presunta rassegna. Ancora Natalina Orlandi, il 21 luglio 1983, disse che si sarebbe tenuta «presso palazzo Barberini» (questo sì presente a Roma e sede della Galleria Nazionale di Arte Antica). Possibile che nessuno si sia accorto dell’incongruenza? Ma soprattutto: come mai gli inquirenti non avevano ancora interpellato Federica Orlandi, la persona che avrebbe dovuto sporgere denuncia perché fu l’ultima ad avere un contatto con Emanuela? Lo fecero i Carabinieri, ma solo il 29 luglio 1983. E la giovane dette una risposta diversa da quelle della sorella. La sfilata di moda si sarebbe dovuta tenere alla Sala Borromini. Situata nell’imponente Oratorio dei Filippini di piazza della Chiesa Nuova, a sei-settecento metri da S. Apollinare, dove si trova anche la Biblioteca Vallicelliana, era sede di convegni, dibattiti e concerti (anche della stessa Da Victoria). Ma non di sfilate di moda.

Le incongruenze comunque non si esaurirono qui. Il 30 agosto 1983, al cospetto del magistrato Domenico Sica, Natalina ribadì la versione della denuncia: «[…] la sfilata doveva avvenire a Palazzo Borromini o a via Borromini […]».

In poche parole, a due mesi dalla scomparsa, da casa Orlandi erano giunte almeno tre diversi racconti su un particolare importante nel dramma di Emanuela, poiché potenzialmente legato ai suoi ultimi attimi. Gli inquirenti però non misero a confronto le due sorelle per sciogliere l’intreccio. Come mai? A ogni modo, quella storia era inverosimile per altri due motivi: la Avon, che non si avvaleva di personale maschile, e lo spropositato compenso, oggetto di altre divergenze perché corrispondente a 350.000 lire secondo Federica e di 375.000 lire per Natalina.

UNA BMW DAI «MILLE» COLORI

Ma il cuore dell’enigma non è capire chi tra le due avesse ragione, quanto se quel pomeriggio vi sia stato o meno l’incontro tra Emanuela Orlandi e quel fasullo rappresentante di cosmetici. L’approfondimento chiama in causa due pubblici ufficiali – il vigile urbano Alfredo Sambuco e il poliziotto Bruno Bosco – ma soprattutto un’auto che diverrà l’icona di questo groviglio. Una BMW. Meglio ribattezzabile come l’auto dai mille colori. Entrò nel giallo il 24 giugno 1983. Quando Natalina Orlandi integrò la sua denuncia con due episodi. Il primo: la sera precedente, verso le 23:30, suo fratello Pietro aveva notato «un giovane, apparentemente agitato, 30-35 anni, vestito elegantemente» al volante di un’auto ferma su piazza S. Apollinare. Era una BMW, «targata Roma W***1, di colore blu» (che gli inquirenti appurarono appartenere a un avvocato che quella sera era a cena, in dolce compagnia, al ristorante situato sulla piazza). Il secondo: il 24 pomeriggio, su corso Rinascimento, Andrea Ferraris e Pietro Meneguzzi, rispettivamente fidanzato e cugino di Natalina, appresero dal vigile e dal poliziotto che il 22 pomeriggio era stata vista una ragazza «parlare con un uomo […] vicino a una BMW che corrisponde come modello e come colore a quello sopradescritto».

Fermiamoci, altrimenti rischiamo di perderci. Intanto: dell’auto vista su S. Apollinare non fu specificato alcun modello, bensì solo il marchio (BMW). E poi: il vigile e il poliziotto avrebbero detto che la BMW dell’uomo visto parlare con la ragazza ritenuta Emanuela sarebbe stata blu. Sennonché nessuno di loro affermò questo. Nella relazione di servizio del 28 giugno 1983, Bosco scrisse che l’auto era «verde chiaro brillante». Sambuco, 2 luglio 1983, che era solo una «BMW». Nessun cenno al colore. Ma soprattutto: cosa dissero i due a Ferraris e Meneguzzi? Perché dai verbali di questi ultimi al giudice istruttore Ilario Martella, rispettivamente del 6 e 8 maggio 1986, si scopre che sarebbe stato loro riferito come quella BMW fosse bicolore (e uno dei due colori addirittura l’arancione!): «Il vigile specificava che l’autovettura era tipo “Touring”, senza, però, far presente se la carrozzeria fosse mono o bicolore. […] Il poliziotto forniva le seguenti caratteristiche: tipo “BMW”, serie “Touring”, specificando che la carrozzeria era bicolore, con la parte inferiore di colore chiaro e il tetto di colore più scuro. […] Tengo a far presente che il colore riferito dalle due persone interpellate è stato quello corrispondente, rispettivamente, al verde e all’arancione, entrambi metallizzati; di ciò sono certo; non sono altrettanto certo quale delle due persone abbia sostenuto l’uno o l’altro colore, nonché l’ulteriore particolare che la macchina fosse bicolore» dichiarò Ferraris.

L’8 maggio fu interpellato Meneguzzi: «Il vigile era in grado di precisare che la BMW era del tipo “Touring”; con riferimento poi al colore egli affermava trattarsi di un verde chiaro con capote scura; il poliziotto, invece, pur essendo anche lui d’accordo trattarsi di bicolore, specificava che, mentre il tetto della macchina era scuro, la restante carrozzeria era arancione». Da notare che sempre il 6 maggio, prima di Ferraris, era stato sentito il fratello di Emanuela Orlandi, assente però dall’incontro con i due ufficiali. Fu lui il primo a parlare di BMW «arancione molto vivo e quasi fluorescente», attribuendo però la descrizione al vigile e non al poliziotto, secondo il quale invece sarebbe stata «tra il giallo e il verde».

Rimanere increduli davanti a tante difformità, in seno già agli stessi famigliari di Emanuela, è il minimo. Perché mai Bosco e Sambuco avrebbero dovuto scrivere relazioni così differenti rispetto a quanto avrebbero detto a Meneguzzi e Ferraris? Viceversa: perché questi ultimi ricordarono tutt’altro rispetto ai due ufficiali? Ma soprattutto: perché gli inquirenti non esperirono un confronto tra i quattro? Anche perché un’auto che prima è blu, poi verde chiaro e infine bicolore (uno dei due colori sarebbe stato l’arancione), più che un’auto dai mille colori, sembra un’auto invisibile. Cioè, un’auto che non esiste. Tra l’altro, la sua livrea cambiò ancora. Il «verde chiaro» cangiò in un «verde smeraldo» per poi attestarsi definitivamente in un «verde tundra» (un errore causato dall’improvvida indagine dell’agente del SISDE Giulio Gangi, di cui parleremo a parte). Mentre il vigile, a Chi l’ha visto? nel 1993, la verniciò di scuro metallizzato! Roba da far impallidire Giotto.

Insieme alle controversie cromatiche su quella BMW, a minare la credibilità della storia dell’offerta di lavoro c’è anche la descrizione della scena. Secondo Meneguzzi, Sambuco disse di aver visto «l’uomo e la ragazza in prossimità di un’autovettura, anzi, Emanuela teneva la borsa poggiata sul cofano mentre il signore le faceva vedere dei depliants di prodotti cosmetici». Idem per Ferraris. Ma nella relazione il vigile scrisse che vicino alla BMW c’erano «un uomo e una donna che discutevano e nel contempo l’uomo mostrava alla donna una borsa contenente presumibilmente cosmetici». Di depliants manco l’ombra. Anche nella sua audizione col giudice Martella del 18 ottobre 1985, Sambuco disse: «Ho presunto che l’uomo commerciasse in cosmetici, dal momento che faceva notare alla ragazza dei campioni che richiamavano tali tipi di prodotti». Ad aggravare questi resoconti, la conflittualità con quelli di Bosco: «Il conducente mostrava alla ragazza un tascapane militare con la scritta AVON contenente probabilmente dei prodotti cosmetici» si legge nella sua relazione. Parole assenti in Sambuco da Martella: «Sulla borsa in questione non ricordo di aver letto alcuna scritta». Non è l’unica divergenza. Come si nota, per il poliziotto l’uomo parlava con una «ragazza». Per il vigile, con una «donna». I due concordarono soltanto sulla descrizione dell’individuo: altezza 1,80 circa, corporatura normale, capelli castani chiari corti, molto stempiato sul davanti. Un profilo diverso dall’uomo visto da Pietro Orlandi al volante della BMW su S. Apollinare la sera del 23: folti baffi, capelli ricci, castani e scuri.

Se già quelle del 1983 erano fragili – la Avon non utilizzava borse con la scritta, tantopiù tascapane militari – le successive versioni di Bosco e Sambuco furono condizionate dall’esposizione mediatica della vicenda, che li indusse a nuovi cortocircuiti. Nel 1985, il vigile affermò di aver riconosciuto Emanuela nella persona con «l’uomo della BMW» grazie a una foto su un giornale e per averla notata più volte in zona. Idem per il poliziotto, che ne specificò il colore degli occhi salvo poi dire: «non ho mai avuto modo di vedere da vicino la ragazza».

E allora da dove nasce tanta sicurezza sulle sue iridi? Inverosimile anche l’ipotesi di Meneguzzi, secondo il quale Bosco e Sambuco avrebbero potuto scambiarsi opinioni prima dell’arrivo di lui e Ferraris perché il fatto «aveva cominciato a essere notorio». Ma per niente. Perché al 24 giugno 1983 della scomparsa di Emanuela ne aveva parlato giusto Il Tempo con un trafiletto e una foto di alcuni anni prima. Per cui i due ufficiali non l’avrebbero mai potuta riconoscere all’istante. E poi? Se davvero avessero riconosciuto Emanuela nella ragazza vista assieme all’uomo, perché non lo scrissero subito nelle loro relazioni — stilate dopo che la notizia era già comparsa sui giornali (quella di Sambuco addirittura dopo l’affissione per Roma dei manifesti col volto di Emanuela)? Infine, in Meneguzzi e Ferraris ricomparve l’errore di Palazzo Borromini, di cui lo stesso finto uomo Avon avrebbe chiesto al vigile un’ora dopo il presunto incontro con Emanuela. Ma pure qui non c’è corrispondenza. Perché nel 1983 Sambuco scrisse che «circa un’ora dopo mi veniva richiesta da parte di un uomo dove si trovava la Sala (e non Palazzo, ndg) Borromini. Davo l’indicazione, ma non posso precisare se si trattasse della stessa persona che poco prima parlava con la donna vicino alla suddetta auto BMW».

UNO SCENARIO SGANGHERATO

Davanti a uno scenario così sgangherato, dove ogni versione è diversa dall’altra, la «storia della Avon» ha la consistenza di un castello di sabbia mentre sale la marea. Non dimentichiamoci poi che Emanuela Orlandi la sera della scomparsa, uscita dalle lezioni di musica, si accordò con l’amica Alessandra Cappai per sentirsi telefonicamente sulle prove del sabato successivo. Quando però avrebbe dovuto svolgere proprio il lavoro alla sfilata di moda. Secondo la prima deposizione di Raffaella Monzi, l’unica studentessa della Da Victoria che parlò di Avon, Emanuela non avrebbe ricevuto quell’offerta il pomeriggio del 22 giugno, bensì nei giorni precedenti . Ma c’è di più. Pierluigi Magnesio, amico stretto di Emanuela, ha ipotizzato che tutto questo fosse «una copertura (di Emanuela, ndg) per prendere tempo». Motivo? «Nascondere un amore segreto». Anche Federica Orlandi nutrì delle perplessità. Il 15 luglio 1983 ai Carabinieri disse: «Era stata vista una ragazza (forse era lei) parlare con un uomo che a quanto si dice reclamizzava prodotti Avon».

Da queste ultime testimonianze si rileva come due persone che conoscevano molto bene Emanuela Orlandi (la sorella Federica e l’amico Pierluigi) abbiano espresso scetticismo sulla storia di quella offerta di lavoro. E allora: nessuno si è mai posto il problema che quella vista da Bosco e Sambuco potesse non essere Emanuela? Oppure non si è mai avuto il coraggio di smettere con la caccia ai fantasmi perché è sempre mancato un altro e più importante coraggio? Ovvero capire perché Emanuela, quella sera, sia andata su Corso Rinascimento invece che dagli amici al Palazzaccio. Probabilmente non per il finto uomo Avon, col quale oltretutto avrebbe avuto appuntamento su piazza S. Apollinare, ma per altro. Scoperto quel motivo, si scoprirà la verità su questo mistero. Ma come diceva quel reverendo: «Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare».