Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
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«Signori giudici: intendo rinunciare espressamente a qualsiasi pretesa di originalità per chiudere questa requisitoria. Voglio utilizzare una frase che non mi appartiene, perchè appartiene ormai a tutto il popolo argentino: mai più!»
Questa frase e in particolare le due parole che la chiudono sono oggi scolpite a fuoco nella memoria di milioni di persone in Argentina e nel mondo: si tratta della chiusura dell’arringa finale pronunciata il 18 Settembre 1985 dal procuratore Julio César Strassera durante il famoso Processo alle Giunte, ossia il procedimento penale svoltosi a carico delle prime tre giunte militari che si erano avvicendate durante la dittatura in Argentina tra il 24 Marzo 1976 e il 10 Dicembre 1983. L’intera arringa è oggi considerata nel Paese un documento di grande valore non solo dal punto di vista giuridico, ma anche storico e letterario per la sua grande forza espressiva; gli italiani che desiderassero ascoltarne i punti salienti possono oggi farlo attraverso la visione del film Argentina, 1985 — film diretto da Santiago Mitre e acclamato nei Festival del cinema di Venezia e Cannes nonché candidato agli Academy Award per il 2023 — in cui Strassera è interpretato dal grande Ricardo Darín.
Curiosamente, ma non a caso, nella versione italiana, l’espressione «mai più» non è stata proposta nella nostra lingua, bensì pronunciata con il chiaro e contundente «Nunca Más!» dell’originale. I dialoghi in lingua italiana, va detto, sono molto fedeli alla sceneggiatura originale ed evitano adattamenti del lessico e della parlata argentina che avrebbero potuto alterare riferimenti storici e culturali — anche a costo di lasciare dei punti non chiariti al pubblico che non conosca nulla della realtà trattata nel film.
Il riferimento al «Nunca Más!» citato da Strassera rimanda infatti al titolo con cui è noto il rapporto ufficiale stilato e pubblicato in tempo record nel 1984 dalla CONADEP, la Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas, in cui vennero scrupolosamente raccolte e analizzate testimonianze e casistiche relative a 8961 denunce di persone sequestrate e, nella maggioranza dei casi, scomparse in seguito alla loro eliminazione fisica.
Questa commissione, fortemente voluta dal presidente argentino Raúl Alfonsín, e già annunciata durante la sua campagna elettorale, fu composta da scrittori, giornalisti, medici, giuristi, deputati, filosofi e religiosi che percorsero in lungo e in largo il Paese effettuando sopralluoghi, indagini documentali e interviste — il tutto condensato in un rapporto finale, consegnato il 20 settembre del 1984 nelle mani del presidente, che servì da base per l’istruttoria del successivo processo ai militari.
Il film, ottimo, ha ricevuto tuttavia in Argentina una serie di critiche da diversi esponenti del giornalismo, della cultura e della politica. Ciò è dovuto al fatto che nella pellicola la figura di Raúl Alfonsín — e soprattutto il lavoro fondamentale, quasi epico, della CONADEP — siano stati appena menzionati, quasi come se si volesse concentrare sulle sole figure di Strassera e del suo procuratore aggiunto Luís Moreno Ocampo, attorniati da un eccezionale team di assistenti, tutto il merito di una impresa titanica come quella di portare a processo i vertici militari accusati dei peggiori crimini contro l’umanità.
Un altro rilievo mosso al film, meno frequente ma non meno puntuale, riguarda il fatto che non si sia mai menzionata la presenza all’interno del processo, in qualità di imputati, dei movimenti guerriglieri resisi responsabili di numerosi atti terroristici negli anni precedenti alla dittatura, chiamati per questo in causa come corresponsabili — seppur in grado minore — dell’esplosione di violenza abbattutasi sul Paese.
Relativamente a quest’ultima critica, pur legittima, c’è da dire che l’economia narrativa del film non consente di esporre tutte le realtà di un processo molto articolato come quello raccontato. Inoltre la singolarità, anzi la unicità di questo processo, risiede appunto nel fatto che per la prima volta nella storia le autorità legittime e costituzionali di un Paese abbiano portato sotto processo i propri vertici istituzionali accusati di violazioni dei diritti umani, senza l’intervento di potenze straniere o di tribunali internazionali.
I processi nei confronti di membri di organizzazioni guerrigliere erano invece una realtà già conosciuta in Argentina, come nel caso della Cámara Federal en lo Penal — nota come «el camarón» — organismo giudiziario espressamente istituito nel 1971 dall’allora presidente non costituzionale Alejandro Agustín Lanusse. Finalizzata a giudicare i reati commessi dalle organizzazioni politico-militari dell’epoca, fu dissolta nel maggio 1973 con l’amnistia di tutti i condannati: sebbene i difensori avessero sempre impugnato la non costituzionalità di questa camera, gli imputati ebbero diritto a dei regolari processi che videro messe in atto le normali tutele giuridiche e in molti casi si chiusero con assoluzioni o il non luogo a procedere.
Per quanto discutibile, la Cámara Federal era stato un esempio di come l’attività sovversiva si potesse combattere attraverso gli strumenti del diritto penale invece di adottare le stesse tattiche impiegate dalle organizzazioni che si intendeva dissolvere, quali l’agire in clandestinità, sequestrare, torturare e giustiziare senza alcun processo né accertamento di responsabilità. Su questo punto lo stesso Lanusse, interrogato come testimone durante il Processo alle Giunte, aveva infatti speso parole durissime nei confronti dei suoi ex colleghi ora imputati.
Riguardo alla prima critica, in molti hanno puntato il dito sulla scelta, invero discutibile, di «passare in cavalleria» i contributi essenziali di Alfonsín e della CONADEP attribuendo questa decisione al fatto che la pellicola fosse finanziata con denaro pubblico e quindi suggerendo una possibile autocensura — o quanto meno reticenza — su figure storiche che sono state negli anni bersaglio di critiche e accuse gratuite da parte degli avversari politici di area peronista e di alcune organizzazioni per i diritti umani politicamente a essi affiliati.
Il sospetto può avere un fondamento tutt’altro che debole, considerati i precedenti storici nel Paese: tuttavia è giusto menzionare che nemmeno la figura delle Madres e Abuelas de Plaza de Mayo viene messa particolarmente in risalto, nonostante la vicinanza politica con la maggioranza di governo. Anche la scelta dell’attore principale, non certo di area kirchnerista, sembra ridimensionare questa accusa.
Quello che sicuramente negli ultimi giorni è emerso in tutta la sua incongruità è il trattamento riservato ad Antonio Troccoli, l’allora ministro dell’Interno alfonsinista che aveva energicamente difeso la necessità del processo penale contro i militari e aveva lottato a rischio della propria incolumità affinché si celebrasse. Troccoli, nel film, viene brevemente e sbrigativamente additato come un fascista filo-militare, avallatore della cosiddetta Teoria dei due demoni, al punto da provocare una fortissima e risentita reazione dei suoi familiari che ha avuto grande ripercussione sui media argentini.
Il trattamento cinematografico riservato alla vicenda ricorda, per certi versi, quello di un film altrettanto bello ed essenziale: Vincitori e vinti(Judgement at Nuremberg), diretto da Stanley Kramer nel 1961, sul Processo di Norimberga. Come nel capolavoro di Kramer, la narrazione si concentra essenzialmente sull’aspetto del lavoro dei giudici e del loro approccio personale, etico e normativo ai casi, mettendo in particolare risalto le testimonianze e i controinterrogatori, ma dando per assodata da parte dello spettatore una conoscenza previa degli eventi che hanno portato alla vicenda raccontata.
Il vero protagonista della narrazione, al di là della figura di Strassera, è infatti il processo con la sua eccezionalità storica; perché, nonostante il precedente di Norimberga, il caso argentino vide per la prima volta un tribunale della giustizia ordinaria imputare e condannare in vario grado i vertici di una dittatura appena conclusasi. Al contrario del caso tedesco, quindi, non vi fu nessun Paese vincitore, nessun tribunale internazionale, nessuna camera federale appositamente creata, ma semplicemente un processo penale ordinario portato a termine da un tribunale civile.
Se può apparire come una cosa scontata, va ricordato che in nessun altro Stato erano state condotte a processo, in così breve tempo e con tutte le garanzie civili e costituzionali, le autorità responsabili dei crimini commessi durante una guerra civile o una dittatura appena terminate e non deve apparire nemmeno scontata la decisione di procedere in tal senso.
Vale la pena ricordare come la giunta militare che aveva preso il potere con il colpo di Stato del 1976 fosse stata salutata da gran parte della popolazione come l’unica forza in grado di arginare la spirale di violenza terroristica e il caos economico imperanti e che, nonostante le rivelazioni sempre più sconvolgenti emerse verso la fine del regime, uno zoccolo duro dell’opinione pubblica approvava i risultati delle giunte militari in termini di annientamento della guerriglia.
Non a caso la fallimentare campagna elettorale peronista del 1983 proponeva un sano e conveniente oblio di tutti i crimini, sia quelli dei militari che dei guerriglieri, per tirare una riga e arrivare a una tranquilla e definitiva pacificazione nazionale. Ideatore di questo «olvido» era stato nientemeno che Italo Argentino Lúder, colui che nel settembre 1975, facendo le veci della presidente Isabel Perón assente per malattia, aveva firmato i famigerati decreti 2770-2771 e 2772, che davano pieni poteri a forze armate e policía federal per «annientare l’agire degli elementi sovversivi in tutto il territorio del Paese».
Questa proposta di conveniente oblio fu respinta in massa dall’elettorato che votò invece Alfonsín che del castigo ai militari aveva fatto un punto fermo della sua campagna presidenziale, scelta che lo premiò alle urne.
Non fu un caso che i difensori dei militari convocarono proprio Lúder come primo testimone a favore, invocando i suddetti decreti come prova dell’esistenza di una guerra in atto in primo luogo nel Paese e di una responsabilità del potere costituzionale nella decisione di eliminare i sovversivi. Lúder, con l’astuzia e l’ambiguità che lo contraddistinguevano, seppe eludere le responsabilità del governo peronista di allora e si trasformò in un teste d’accusa eccezionale, sabotando la già debole linea difensiva degli imputati: se questa fu poco attenta nelle argomentazioni, altrettanto non si può infatti dire dell’accusa che fu molto scrupolosa nella scelta dei casi e nella strategia accusatoria.
Consci delle estreme difficoltà di portare efficacemente alla condanna gli imputati, i procuratori effettuarono una cernita di 709, tra gli 8961 casi, portando all’attenzione del tribunale i 280 ritenuti più emblematici. Il fine era quello di dimostrare come la teoria iniziale della difesa — crimini da imputare a «eccessi» del personale di rango inferiore che sfuggiva ai controlli — fosse priva di fondamento e che invece la realizzazione dei 348 centri clandestini di detenzione e tortura e la loro conduzione, così come le «operazioni speciali» che vi venivano portate a termine, fossero il frutto di uno schema sistematico prestabilito e accordato dai vertici delle tre forze armate in tutto il Paese.
Una volta resi pubblici i verbali delle testimonianze, la difesa aveva cercato non più di negare l’evidenza dei crimini e l’esistenza di migliaia e migliaia di persone sequestrate, sottoposte a tortura e in maggior parte eliminate in qualità di «sovversivi», ma di addurre che queste erano le vittime colpevoli e inevitabili di una vera e propria «guerra interna» che si era svolta nei confronti di un nemico durante gli anni del cosiddetto Processo di riorganizzazione nazionale.
Tuttavia, le casistiche esposte dai vari testimoni — tra cui l’attivista Patricia Derian, della Commissione interamericana per i diritti umani, e Robert Cox, giornalista del The Buenos Aires Herald — commentate in modo memorabile da Jorges Luís Borges, resero evidente la pretestuosità degli argomenti della difesa che in pochissime occasioni riuscì a controinterrogare con domande efficaci e valide obiezioni i testimoni d’accusa.
Come prima accennato, lo stesso ex presidente golpista Alejandro Agustín Lanusse, chiamato a testimoniare per i casi del suo ex segretario Edgardo Sajón e della cugina Elena Holmberg — ambedue sequestrati ed eliminati — rilasciò una memorabile dichiarazione che distruggeva punto per punto le argomentazioni dei difensori dei militari sulla necessità dei procedimenti illegali e sulla pericolosità dei cosiddetti «sovversivi», spesso estranei a ogni coinvolgimento con la lotta armata.
Il processo ebbe una eco mediatica senza precedenti dentro e fuori l’Argentina, nonostante fossero proibite macchine fotografiche e le uniche riprese televisive concesse all’emittente di Stato fossero trasmesse ogni sera per pochi minuti e senza audio, come solo commento visivo. Gli argentini e il mondo intero dovettero attendere anni perché le registrazioni audio fossero rese pubbliche, mentre i verbali delle testimonianze in ogni caso vennero pubblicati sul celebre Diario del Juicio distribuito dal quotidiano Perfil nel quale erano riportati dettagliati resoconti dello svolgimento del processo.
L’aspettativa altissima del trionfo della giustizia ordinaria sui Golia della dittatura creò all’epoca nella società argentina una sorta di entusiasmo condiviso e speranza di rinnovamento che, in parte, rimase frustrato dalle fallimentari riforme economiche della presidenza Alfonsín e dalle fortissime pressioni che questi ricevette dalle forze armate — sfociate in tre diversi tentativi di golpe, tra i quali il più celebre fu quello della Settimana Santa del 1987. In seguito a ciò vennero promulgate le ancor oggi discusse leggi di Punto finale (termine entro il quale presentare le denunce per le violazioni di diritti umani) e di Obbedienza dovuta (limitazioni alla perseguibilità penale dei gradi militari inferiori nel quadro della repressione).
Il dibattito relativo ai successivi indulti voluti dal presidente Menem e le revoche degli stessi da parte della Corte suprema durante i primi governi Kirchner infiamma ancora oggi le fazioni più opposte ed estreme della popolazione, tra chi accusa Alfonsín, la CONADEP e i giudici di essere stati troppo indulgenti quando non conniventi con gli ex dittatori e chi invece accusa gli stessi per aver fatto condannare al carcere dei «padri della patria» che avevano eroicamente lottato per salvare l’Argentina dalla violenza rivoluzionaria eliminando dei terroristi colpevoli.
Sulle vere o presunte responsabilità penali e sul coinvolgimento di molti desaparecidos è opportuno ricordare quanto lo stesso Luís Moreno Ocampo — allora giovanissimo procuratore aggiunto al fianco di Strassera — sottolinea nel suo eccellente libro-memoria Cuando el Poder Perdió el Juicio: la decisione di sequestrare ed eliminare i sospettati di partecipare a qualsiasi titolo all’attività terroristica, ha formalmente reso queste persone, per sempre, tutte e in pari grado, innocenti davanti alla giustizia, poiché per loro non venne mai celebrato un regolare processo volto ad accertare le responsabilità penali.
In modo paradossale, quindi, la decisione delle forze armate di abdicare a qualsivoglia parvenza di legalità non solo è giustamente costata una meritata condanna penale, ma ha contribuito a sottrarre alla loro difesa legale l’unica argomentazione utilizzabile a giustificazione dell’ingiustificabile, quella di aver eliminato dei criminali.
Una lezione impartita dalla Storia, ancora più che dalla Giustizia, su quanto il senso di onnipotenza e impunità fungano sempre da pessime consigliere anche per gli uomini più potenti.