Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
Il sito comprende sei aree tematiche e ben ventidue sottocategorie con centinaia di pezzi su anni di piombo, strategia della tensione, vicende e personaggi più o meno misconosciuti di un’epoca soltanto apparentemente lontana. Per rinfrescare la memoria di chi c’era e far capire a chi era troppo giovane o non era ancora nato.
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Nelle prime ore del mattino del 31 gennaio 1957, Paul Cooper, un sergente dell’esercito americano, si trova insieme a un migliaio di paracadutisti del suo battaglione nell’assolato deserto di Yucca in Nevada. È schierato come gli altri suoi commilitoni in assetto da guerra, secondo quella che dovrebbe essere una esercitazione militare. Nonostante il gran caldo, Cooper appare fiero di esser stato scelto per un test che, secondo quanto era stato detto a lui e ai suoi compagni, avrebbe avuto come scopo quello di verificare la reazione di truppe modernamente armate in caso di attacco nucleare.
All’operazione era stato dato il nome in codice «Smoky», qualcosa che sui media non americani fu tradotto come «Grande fumata». E che il nome scelto non fosse stato casuale, apparirà chiaro anche a Cooper e compagni dato che il «test» si concretizzò nell’esplosione di una bomba nucleare potente tre volte quella che aveva spazzato via in un attimo la città giapponese di Hiroshima.
Nessuno però, prima dello scoppio, sembrava mostrare segni di inquietudine o paura. «Che diavolo, siamo soldati americani», fu più o meno il pensiero di Cooper e compagni, «il governo saprà benissimo quello che sta facendo». E in effetti lo sapeva: quando qualcuno, presumibilmente posizionato a qualche miglio di distanza, schiacciò il bottone necessario a dare il via al test, sulla piana che si distendeva davanti ai soldati si abbatté prima un lampo accecante poi un uragano di sabbia e polvere.
Cooper, nonostante la giovane età, non era certamente un pivello. Aveva pur sempre partecipato alla guerra di Corea — non dalle retrovie — e qualche anno più tardi sarebbe stato mandato anche in Vietnam. Nonostante ciò, quello a cui stava assistendo rappresentò per lui il momento più drammatico di una ultradecennale esperienza bellica. «Poco prima che scoppiasse la bomba», racconterà molti anni più tardi, «ci ordinarono di girarci e coprirci gli occhi con le mani. Ricordo che, dopo lo scoppio, sentimmo un caldo insopportabile come se ci fossimo seduti su dei tizzoni ardenti. Potevamo vedere le ossa della mano attraverso gli occhi chiusi, come in una radiografia ai raggi X. Infine ci dissero di voltarci di nuovo e guardare verso il centro del poligono. Vedemmo alzarsi un fungo incandescente. Un violentissimo spostamento d’aria fece cadere molti di noi mentre il terreno oscillava come se fosse stato scosso da un violento terremoto».
Dopo tutto questo, Cooper e compagni furono chiamati a marciare, dalla trincea posizionata a circa tre chilometri dall’esplosione, fino a una posizione distante non più di 200 metri dal cosiddetto «ground zero». Il passo successivo, di una procedura evidentemente decisa a tavolino, vide la partecipazione di alcuni specialisti che misurarono la radioattività assorbita da ognuno dei soldati che avevano partecipato al test, Cooper compreso. Infine, vennero tutti rispediti alla base di Fort Bragg, molto lontano, in Carolina del Nord.
Il congedo dall’esercito arrivò per Cooper nei primi anni Settanta, ormai quarantenne, non prima di aver partecipato, appunto, alla guerra in Vietnam. Aveva immaginato di passare più tempo possibile con la propria famiglia, formata da moglie e tre figli, nella bella casa di Elk City, Idaho, confidando in una nuova carriera nel settore edilizio. Un giorno, però, l’ex parà notò delle macchie su un piede. La vista poi iniziò improvvisamente a dargli dei problemi: la neve gli sembrava marrone, l’erba gli appariva di un innaturale color giallo-viola. Quando i medici dell’ospedale militare di Boise, Idaho, lo visitarono, la sentenza fu terribile: leucemia mieloide acuta, con una prospettiva di vita di un anno al massimo.
Uno degli specialisti che presero in cura Cooper, il dottor Virgil Reyes, si disse convinto dell’esistenza di un nesso di causalità tra l’esperienza bellica dell’ex parà, in particolare il carico di radiazioni subite circa vent’anni prima, e la malattia. E fu proprio sul riconoscimento o meno di questo cosiddetto «nesso di causalità» che si giocò una drammatica partita legale tra l’ex paracadutista e i vari enti orbitanti attorno al Pentagono. Una prima richiesta di risarcimento venne non a caso respinta, un fatto questo che motiverà Cooper a render pubblica la sua storia anche da un letto di un ospedale per reduci di Salt Lake City. La preoccupazione per il futuro della sua famiglia rappresenterà per lui da quel momento in poi il solo elemento capace di trattenerlo dal suicidio. «In altre circostanze non avrei avuto dubbi», ammetterà lui stesso davanti a dei reporter. «La morte non mi spaventa, ma voglio andare fino in fondo a questa faccenda».
In realtà l’atteggiamento omissivo e ostruzionistico delle autorità appare non incomprensibile se si riflette sul fatto che tra la fine della Seconda guerra mondiale e la metà degli anni Sessanta, negli Stati Uniti almeno 170 mila persone sono state sottoposte direttamente o indirettamente agli effetti dei test nucleari compiuti in aree desertiche del Paese. L’esercito americano, dal canto proprio, pur avendo compiuto negli anni numerose inchieste sugli effetti a lungo termine degli esperimenti, soprattutto di fronte alle cause legali e alle richieste di risarcimento, tenderà a trincerarsi dietro l’alibi della mancata conoscenza degli effetti nocivi delle radiazioni. «A quell’epoca», recitava la scusa ufficiale ciclicamente riproposta, «non potevamo sapere niente degli effetti di queste esplosioni sull’organismo. Come non sapevamo che il DDT è nocivo o che il gas degli spray danneggia lo strato di ozono che ci difende dai raggi ultravioletti. Non credevamo di esporre a pericoli la vita di tante persone».
È ormai il 1977 quando Paul Cooper passa due settimane al mese in ospedale per sottoporsi a una speciale terapia chemioterapica. I capelli gli sono diventati di colpo tutti bianchi e il suo fisico, un tempo marziale e in salute, è sempre più debole. A chi va a intervistarlo, dice più o meno sempre la stessa cosa: «La mia unica speranza è di restare in vita finché non sarà assicurata una pensione valida a favore della mia famiglia. Io e i miei compagni eravamo pagati per fare un lavoro e abbiamo fatto il nostro dovere, ma ora tocca a chi ha preso quella decisione sulla nostra pelle assumersi ogni responsabilità. Ci possono essere migliaia di altre persone nella mia condizione in questo momento. Voglio dire a tutti loro di non arrendersi, di far valere i loro diritti. Voglio aiutarli finché resterò in vita».
Nel febbraio 1978, a vent’anni da quella maledetta esplosione nel deserto del Nevada, l’ex sergente Cooper muore in un ospedale della Veterans administration. Il suo decesso arriva proprio quanto il Congresso e lo stesso governo degli Stati uniti inizia a mostrare una certa preoccupazione per gli uomini che hanno preso parte, in varie forme, ai test nucleari degli anni Cinquanta. La audizioni, proprio sull’operazione «Smoky» e su altre analoghe, stavano iniziando a farsi numerose. Si era fatto strada anche un programma volto a rintracciare i cosiddetti «veterani dei test» grazie all’apertura di un numero verde messo a disposizione del personale militare coinvolto negli esperimenti nucleari condotti nella fase più acuta della Guerra fredda.
Cooper, in particolare, aveva condotto una lotta serrata con l’esercito e l’amministrazione dei veterani ricevendo 820 dollari al mese in prestazioni di invalidità legate al servizio, pochi mesi prima di morire e soltanto dopo che il suo caso aveva ottenuto una larga copertura mediatica. Lo stesso Dipartimento degli affari dei veterani degli Stati Uniti d’America, nel concedere il denaro, aveva sottolineato di non aver accertato che la leucemia di Cooper fosse stata dovuta al test, ma semplicemente che l’ex paracadutista sembrava aver contratto la malattia durante il servizio.