Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
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È stato Renato Vallanzasca a rapire Emanuela Trapani, la studentessa sedicenne sequestrata quarantuno giorni fa a San Siro e rilasciata in piazza Piemonte. Lo ha dichiarato ieri la stessa ragazza nel corso di una affollata conferenza stampa alla quale hanno partecipato anche i genitori, il magistrato inquirente e l’avvocato di famiglia, Giovanni Bovio. Elegante e accuratamente truccata, Emanuela Trapani, la figlia dell’amministratore delegato della «Helene Curtis», ha ricevuto giornalisti e fotoreporter nel lussuoso soggiorno della sua abitazione in via dei Loredan.
«Sono stata trattata molto bene — ha subito esordito la giovane che in effetti non portava sul volto i segni della lunga prigionia —. Ho vissuto in un appartamento piuttosto elegante e quei signori mi davano da mangiare tutto ciò che chiedevo: bistecche, insalata mista, formaggio e frutta. A mia richiesta, poi, mi compravano bibite e vino. Con ciò non voglio dire che sia stata una bella esperienza. Tutt’altro. Ho sofferto come tutte le altre persone che sono state protagoniste di simili episodi. Ho avuto momenti di sconforto e ho pianto pensando ai miei genitori. Certa è una cosa: siccome in casa temevano che qualcuno di noi sarebbe anche potuto rimanere vittima di un sequestro, ci eravamo preparati. Ed è stato proprio ciò a darmi la forza necessaria per non impazzire».
Le domande a questo punto sono diventate moltissime anche perché, a bassa voce, Emanuela aveva pronunciato un nome: quello di Renato Vallanzasca, il bandito che tra il luglio e il novembre dello scorso anno ha ucciso due sottufficiali di polizia in altrettanti conflitti a fuoco. «In effetti uno dei miei carcerieri — ha risposto la studentessa — era Renato Vallanzasca. È stato lui stesso a dirmelo. Dei due che mi tenevano prigioniera, era il solo a farsi vedere bene in faccia; l’altro, che io avevo soprannominato “lo smilzo” per la sua corporatura, si nascondeva dietro un cappuccio.
«Il giorno del rapimento, dunque, Renato mi ha presa in disparte e con molto orgoglio mi ha mostrato i ritagli dei giornali in cui si parlava di lui. “Vedi — mi ha detto — sono proprio io, il pericolo pubblico numero uno chiamato spesso in causa, anche quando mi trovavo a mille chilometri di distanza. Per una volta tanto, però, un giornalista del Corriere della Sera ha visto giusto quando ha riferito che, a portarti via, forse sono stato io. Tuo padre deve pagare tanti soldi per riaverti. Ma non temere, se ti comporterai bene, non ti sarà fatto nulla e avrai a disposizione tutto ciò che vuoi”. In effetti — ha aggiunto Emanuela — Renato e l’altro individuo incappucciato mi hanno trattata con molta umanità. Erano pieni di premure, tanto è vero che mi hanno messo a disposizione un orologio, una vestaglia, una camicetta e un paio di pantaloni acquistati proprio perché avessi la possibilità di cambiarmi. Ero libera di muovermi in quell’appartamento come e quando volevo. Ero costretta, però, a rispettare delle regole. Ho pensato anche alla fuga; ma poi ho desistito. In un momento di tristezza ho pensato anche a ciò che era accaduto alla povera Cristina Mazzotti. Io, al proposito, penso una cosa: e cioè che quella povera ragazza deve aver visto qualcosa che non doveva vedere. Per questo, forse, è stata uccisa. Così non ho mai approfittato di quanto mi concedevano quei signori. Se c’era da accendere radio o televisione (evidentemente per coprire rumori esterni n.d.r.) lo facevo, nello stesso modo mi sono comportata quando i carcerieri e i loro complici si appartavano in una stanza vicina per fare il punto della situazione.
Mi chiedete come ho passato il tempo? Leggendo giornali — ha aggiunto Emanuela — facendomi raccontare da Vallanzasca la sua vita o giocando con lui a scopa o a scala quaranta. Le sere di Natale e Capodanno Vallanzasca ha poi voluto brindare con me a champagne. “Ti faccio tanti auguri — mi ha detto in entrambe le circostanze — e vedrai che tornerai presto a casa”».
Il discorso, a questo punto, si è concentrato sulla somma di denaro versata ai rapitori per ottenere la liberazione della studentessa. «Alla domanda non possiamo rispondere» hanno detto simultaneamente sia il dottor Gaetano Trapani sia l’avvocato Bovio. Un analogo tentativo fatto con il dottor Marra, il magistrato responsabile delle indagini, ha portato il medesimo risultato. «Top secret», quindi sui soldi incassati da Renato Vallanzasca per «l’ultimo colpo della mia carriera (come aveva dichiarato un paio di mesi fa a un giornalista) che mi permetterà di vivere di rendita in Brasile». Si sa solo che la prima richiesta dei malviventi era stata di 30 miliardi di lire.
«Che le trattative con mio padre procedessero bene — ha continuato a raccontare la ragazza — lo immaginavo ogni qual volta mi costringevano a farmi fotografare con in mano il quotidiano del giorno. Per quell’operazione usavano una Polaroid. Poi, a fotografia riuscita, me la mostravano facendomi solitamente dei complimenti. Nei confronti di quegli individui, comunque, non sento sentimenti né di rancore, né di odio, né di rabbia. Certo, per loro non provo alcuna simpatia. Ma quando penso che avrebbero potuto trattarmi peggio, mi sta bene come sono andate le cose. Un sentimento di rabbia, piuttosto, lo nutro verso quelle persone che non riescono ad impedire che in Italia accada tutto ciò. Continuate a chiedermi di questo Renato Vallanzasca — ha concluso Emanuela —. Penso che lo conosciate ormai tutti. D’altra parte lui continuava a ripetermi che non aveva nulla da perdere dovendo già scontare tre ergastoli. Comunque posso dirvi che è un megalomane. Uccidere le persone e poi conservare i ritagli di giornale è poi una forma di pura follia».
La studentessa, che fu rapita davanti a casa mentre, accompagnata dall’autista e dalla sorella minore, stava recandosi a scuola, è stata liberata l’altra sera alle 22.30 in una strada vicino a Piazza Piemonte. Dopo averla fatta scendere da un’auto, i banditi le hanno detto: «Aspetta almeno cinque minuti prima di toglierti i cerotti dagli occhi. Poi cerca in tasca i due gettoni telefonici che ti abbiamo lasciato e avverti tuo padre». Così è stato. Dopo quarantun giorni di segregazione, Emanuela ha potuto riabbracciare i genitori. «È stata un’esperienza che mi ha maturato — ha confidato alla sua più intima amica —. Prima non capivo cosa volesse dire vivere; ora lo so».