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Lawrence Ferlinghetti: «Disobbedire per vivere» (1983)

Redazione Spazio70

Da un articolo di Fabrizio Paladini per «Il Messaggero», 1° settembre 1983

«Non sono venuto qui solo per leggere le mie poesie al festival. In realtà c’è un altro motivo. Il 17 settembre ad Assisi ci sarà una cerimonia per salvare gli uccelli della cittadina umbra. Questi uccelli stanno via via morendo tutti, vengono sterminati dai cacciatori e allora noi facciamo questa manifestazione. Assisi e San Francisco, la mia città, sono gemellate e per questo ci siamo fatti promotori dell’iniziativa. Ci saranno un sacco di gruppi ecologici di tutto il mondo. Oh, certo che se San Francisco sapesse quello che sta accadendo agli uccelli di Assisi sarebbe molto triste. Hanno invitato anche il Papa ma non credo che verrà…».

Lawrence Ferlinghetti ha un’aria molto serena. I suoi occhi celesti rassicurano e invitano alla riflessione. Lui, a 64 anni, con sulle spalle il mito consumato dei padri della Beat Generation, guarda il mondo intorno a sé e lo racconta con la stessa grinta e semplicità degli anni ’60.

«LO SPIRITO DI ALLORA È ANCORA VIVO»

Ginsberg Ferlinghetti

Allen Ginsberg e Ferlinghetti alla fine degli anni Ottanta

A più di vent’anni dai teneri racconti di Kerouac, dalle provocatorie filastrocche di Ginsberg, dai duri atti d’accusa di Ferlinghetti stesso, cosa resta della Beat Generation?

Resta molto. È un continuo movimento di poesia. Oggi ci sono molti giovani poeti che si sono formati sull’esempio di Ginsberg che rimane certamente il più grande poeta vivente americano. E oltre ai poeti, io posso dire che anche lo spirito di allora è ancora vivo. È lo spirito della disobbedienza civile, che è cosa ben diversa dal pacifismo della tradizione di Gandhi. Quando lo Stato è parte attiva nelle attività violente, quando lo Stato ti conduce verso delitti e catastrofi mondiali, l’individuo ha il dovere di disobbedire alle leggi di questo Stato. Questo è il punto che deve essere molto chiaro ed è l’unico punto che deve avere ben in testa il poeta. Perché il poeta per definizione è Eros, rappresenta lo spirito libero, lo spirito che si nutre dell’amore, lo spirito della vita. Il «super-Stato», il grande potere del mondo, sono i rappresentanti della morte con i loro impressionanti armamenti. Il poeta è invece la forza che alimenta la vita contro chi lavora per la distruzione. Ovunque nel mondo è lo stesso: i poeti americani, gli italiani, i siciliani, i tedeschi, quelli del Mezzogiorno, non importa dove, devono rappresentare la forza della vita. Questo è lo spirito che continua nel tempo.

Lei nel suo «Manifesto populista per i poeti con amore», parafrasando il primo verso del celebre Howl di Ginsberg, scriveva: «Abbiamo visto le migliori menti della nostra generazione distrutte dalla noia ai readings di poesia». Eppure lei oggi è qui proprio per leggere in pubblico le sue poesie…

Quello di essere distrutti dalla noia ai readings è un fatto che sfortunatamente succede. Ci sono molti poeti che si ostinano a parlare da soli, non vedono il vicino, non osservano il mondo e parlano di poesia. I fatti della vita li ignorano e parlano di poesia e tutti si addormentano velocemente. Ma qui a Roma c’è molto poco di questo: i poeti raccontano qualcosa legato al mondo e la gente li segue. Io credo che il festival di Roma, giunto alla sua quarta edizione, stia diventando uno dei più importanti del mondo. Venire qui a leggere è un riconoscimento piuttosto gratificante.

Ma rispetto ai tempi del festival di Castelporziano le cose sono cambiate parecchio…

Certamente. Quello era una specie di Woodstock italiano, c’erano gli hippies arrivati da tutta Europa accampati sulla spiaggia di Ostia. Ma quello fu un momento molto importante per il riconoscimento della poesia in Italia. Anche negli Stati Uniti le prime volte che facevamo i readings c’erano situazioni simili.

POESIA E POLITICA, «EQUILIBRIO E CONOSCENZA»

Ferlinghetti Howl

Ferlinghetti nel 1957 con le copie di The Howl, il poema di Allen Ginsberg

Lei ha parlato di hippies, razza ormai estinta. Che fine hanno fatto i vostri primi fans?

In Europa spesso si segue dopo qualche anno quello che succede negli States ed è questa la mia paura. In America la maggior parte di quelli della generazione hippy sono diventati reazionari e di destra. Eccoli lì, in primo piano: sono i dirigenti delle case discografiche, sono entrati nella finanza, sono i cardini della reazione. Sono quelli di mezza età, che oggi sostengono Reagan, che non fanno più niente, che pensano solo al loro tornaconto. Vorrei tanto che in Europa questo non succedesse, o forse è già accaduto?

Tra tutti i poeti della Beat Generation lei è certamente il più «politico». Cosa resta oggi nella sua letteratura delle marce per il Vietnam, delle sue battaglie contro gli armamenti atomici, in difesa della pace?

La poesia cambia perché la politica cambia. Una volta scrissi dei versi contro Nixon, «To run as Nix» si chiamava. Se la leggo oggi suscita una grande noia, nessuno la vuole ascoltare. Il poeta che scrive solo poesie politiche si condanna da solo a una morte precoce. Nello stesso tempo, però, bisogna tener presente la situazione in cui si vive perché altrimenti si fa una poesia astratta, ci si inaridisce e non si potranno più avere gli strumenti per comporre versi di qualsiasi tipo. Ecco, se posso spiegare meglio direi che il poeta segue il corso della politica ma a un certo punto si deve ribellare e trovare gli strumenti per scrivere la sua poesia di amore e di luce. Ci vuole equilibrio e conoscenza. Qui a Roma io ho letto delle poesie politiche, delle poesie d’amore, delle poesie intime.

Nel 1957 con la casa editrice che aveva fondato pubblicò «Howl» di Ginsberg e per questo fu processato. Oggi varrebbe la pena ripassare tutti quei guai?

Lo rifarei subito ma devo anche dire che da allora io non ho più avuto altri «Howl» da pubblicare. Quello fu l’unico. Il processo c’è stato ma il libro continua ad essere edito. Ne è valsa la pena, no?

«NON FUI UN IMPRENDITORE, FUI FORTUNATO…»

Ferlinghetti City Lights Bookstore

Ferlinguetti nella sua storica libreria di San Francisco

Con la casa editrice City Lights Books lei diffuse tutte le voci più scomode d’America dalla fine degli anni ’50 in poi. Com’era questo ruolo di «imprenditore alternativo»?

Ci sono tante altre case editrici che ora pubblicano le cose con cui iniziò la City Lights Books. Ma noi siamo stati enormemente fortunati per la grande pubblicità che ci ha dato il processo. Ginsberg è diventato famoso così; anche la polizia ci ha aiutato tanto… è davvero difficile ottenere tutta questa pubblicità gratis. Fu una questione di choc, la novità. Quando nel 1957 quel pazzo di Ginsberg si spogliò durante un reading a San Francisco successe il finimondo, oggi nessuno ci farebbe caso, addirittura non ci troverebbero niente di strano. Non fui un imprenditore, fui solo fortunato per la stupidità altrui.

Nelle sue poesie lei cita spesso Dante Alighieri. È davvero così importante nella sua formazione letteraria?

Nell’ultima poesia pubblicata in Italia, «Storia del mondo», c’è un verso che dice:

È l’alba dopo il sogno / nella grande notte americana / nel mezzo del viaggio / incontriamo noi stessi in una foresta oscura / e ci riconosciamo per la prima volta.

Questo, anche se forse non mi fa onore, l’ho preso a prestito da Dante. Questa allegoria tanto antica è ancora oggi molto valida per l’uomo moderno e i poeti se ne rendono conto. Questa è anche l’università di Dante.

C’è una bellissima poesia in cui lei parla tanto dei vecchi italiani che muoiono nella sua San Francisco. Cosa ha rappresentato l’Italia per lei?

Io sono di origine italiana, Ferlinghetti è un nome italiano. Mio padre era di Brescia ma morì prima che io nascessi. Mia madre invece era un’ebrea portoghese. Imparai a parlare prima francese e poi inglese ma l’italiano non lo conosco e questo mi dispiace. Mi piace guardarli gli italiani e capirli. Ora mi fermo un po’ qui per studiare l’italiano. Si, devo avere finalmente dentro di me la mia lingua che non ho mai avuto, devo imparare la «bella lingua».

Larry Ferlinghetti si alza e mostra il testo di una poesia che leggerà al festival: «È una cosa che ho scritto su Reagan, per l’America Latina. È la storia del “grande cowboy” e bisogna leggerla col l’accento texano. Ora gliela faccio sentire:

Come il grande cowboy andò a cavallo fino al Rio Grande / e diede al presidente del Messico / un fucile da caccia cattivo presagio / Come il grande cowboy successe al grande incantatore / che scomparì in Georgia per rinascere / Come si allinearono presso il Rio Grande per occupare le posizioni…»

Piove, non è proprio il tempo giusto per un cowboy.