Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
Il sito comprende sei aree tematiche e ben ventidue sottocategorie con centinaia di pezzi su anni di piombo, strategia della tensione, vicende e personaggi più o meno misconosciuti di un’epoca soltanto apparentemente lontana. Per rinfrescare la memoria di chi c’era e far capire a chi era troppo giovane o non era ancora nato.
Buona lettura e non dimenticare di iscriverti sulla «newsletter» posta alla base del sito. Lasciando un tuo recapito mail avrai la possibilità di essere costantemente informato sulle novità di questo sito e i progetti editoriali di Spazio 70.
Quando si parla di Agostino Di Bartolomei non ci si imbatte certamente in un calciatore qualunque. Tanto in vita quanto dopo il suicidio, avvenuto il 30 maggio del 1994 nella sua villa di San Marco di Castellabate, gli appellativi affibbiati alla grande bandiera della Roma sono stati innumerevoli: «nato vecchio», «capitano silenzioso», «l’antipatico» senza contare i riferimenti agli «occhi tristi» e ad altri tratti distintivi tutti tendenti a evidenziare un certo rigore di fondo dell’uomo e del calciatore. Tuttavia, se quel ragazzo cresciuto nella borgata di Tor Marancia ha lasciato un grande vuoto nella cultura sportiva italiana non lo si deve soltanto alle sue grandi gesta calcistiche, né tantomeno alla sua tragica fine.
Carattere schivo e serioso, che inizialmente lo rese impopolare perfino tra i tifosi della sua città, Di Bartolomei era sicuramente un antidivo, un antieroe trovatosi in un mondo, quello del calcio, da sempre superficiale, meschino, a tratti spietato. Per chi ha avuto la fortuna di averlo come compagno di squadra, invece, era il capitano per antonomasia, il più coraggioso, colui che nel momento del bisogno si prendeva le sue responsabilità, al netto di tutte le conseguenze.
C’è un episodio, dai più sconosciuto o poco approfondito, che ben riassume la personalità e i valori di quello che, all’epoca, era soltanto un ragazzo di ventitré anni. Nella primavera del 1978, a due mesi dall’inizio del mondiale in Argentina, Agostino Di Bartolomei fu il primo calciatore italiano a rispondere all’appello lanciato da Amnesty International, nel quale si denunciavano la violenta repressione, le torture e le esecuzioni di massa, in sostanza le reiterate violazioni dei diritti umani messe in atto dalla dittatura militare argentina guidata dal generale Jorge Rafael Videla, al potere dal marzo del 1976. Un appello che si rivolgeva al mondo dello sport italiano, al governo e a tutte le forze politiche, non ultimo al Vaticano.
Nel silenzio generale dei partiti e di buona parte della stampa, la risposta del giovane centrocampista giallorosso destò probabilmente molta sorpresa, anche se non ebbe un forte eco mediatico. Rievocare dunque le mobilitazioni e le proteste che precedettero il «mondiale della vergogna» significa raccontare anche un pezzo di Agostino Di Bartolomei, in quelle settimane del 1978 ancora nel listone dei possibili convocabili dal CT azzurro Enzo Bearzot, ma che al mundial argentino, alla fine, non prese neanche parte.
Nelle democrazie europee i primi dibattiti intorno alla partecipazione o meno ai mondiali di calcio iniziarono nell’estate del 1977. Alcuni esuli argentini riparati in Francia, insieme agli attivisti del Comitato di Appoggio alla Lotta del Popolo Argentino (CSLPA), diedero vita al Comité pour le boycott de l’organisation par l’Argentine de la Coupe du monde de football, più comunemente noto come COBA.
L’obiettivo primario dell’associazione era quello di pressare le federazioni calcistiche a non mandare i propri atleti in Argentina, chiedendo lo spostamento della manifestazione sportiva in un altro Paese. Nonostante una poderosa raccolta firme realizzata da oltre duecento comitati sparsi in tutto il territorio francese e il sostegno di importanti figure del mondo dello spettacolo e della cultura (su tutti Jean Paul Sartre), il boicottaggio fu osteggiato dalle principali forze politiche di sinistra (soprattutto dal PCF, il Partito comunista francese). Vi era inoltre una cospicua maggioranza di esuli argentini, più vicini al movimento dei Montoneros , che vedeva nella partecipazione al mondiale un’occasione irripetibile per mostrare al mondo cosa stava accadendo nel Paese sudamericano.
In una conferenza stampa, tenutasi a Parigi il 13 gennaio 1978, il poeta e scrittore argentino Juan Gelman riassunse perfettamente tali posizioni. Uno stralcio del suo discorso fu riportato da Le Monde nell’edizione del 16 gennaio 1978:
«La decisione di andare o meno in Argentina è una questione di sovranità dei Paesi interessati. Il boicottaggio o l’invio di una squadra sportiva accompagnata da giornalisti hanno i loro rispettivi vantaggi. Ma preferiremmo, per il nostro bene, che numerosi giornalisti possano recarsi in Argentina con il desiderio di raccontare, anche in questa occasione, ciò che accade fuori dagli stadi e che i mondiali si trasformino in una gigantesca conferenza stampa che permetta di informare l’opinione pubblica sulla tragedia che sta vivendo il nostro popolo».
Insomma: in Argentina sì, ma «con gli occhi aperti». Nonostante le buone intenzioni, le cose andarono diversamente. La stampa internazionale, soprattutto quella italiana, adottò infatti una linea piuttosto tollerante nei confronti della dittatura di Videla, un regime che godeva dell’appoggio degli Stati Uniti in funzione anticomunista e che non incontrò l’opposizione neanche dell’Unione Sovietica (per ragioni principalmente commerciali) e di Cuba (che fornì regolare appoggio diplomatico alla dittatura nei forum internazionali). A questo, silente e non, generalizzato consenso, fecero seguito gli atteggiamenti ambivalenti dei Partiti comunisti di tutto il mondo, i quali si allinearono alle posizioni moderate del PCA argentino che nella tragica primavera del 1976 aveva intravisto nel generale Videla «il male minore». Il silenzio della stampa mondiale, dunque, rifletteva perfettamente questi controversi rapporti di politica internazionale.
«I governi che avevano gli strumenti per sapere e per intervenire», scrisse in Niente asilo politico il diplomatico Enrico Calamai (che salvò oltre trecento perseguitati politici dalla dittatura argentina), «non fecero niente. Tentarono anzi di trarre il maggior vantaggio possibile dalla loro collaborazione alla strategia di oscuramento e negazione, necessaria perché i militari potessero portare tranquillamente a termine i loro piani. Mi riferisco soprattutto alle grandi democrazie occidentali e in particolare all’Italia».
Nonostante il progetto di boicottaggio non fosse andato a buon fine, il grande merito del COBA e del CSLPA fu quello di accendere i riflettori sulla tragica situazione argentina. A questa vasta campagna d’informazione contribuirono in modo determinante le iniziative di Amnesty International.
L’Ong fondata nel 1961, fresca del Premio Nobel per la Pace ricevuto l’anno precedente, all’inizio del 1978 pubblicò un rapporto sulla situazione in Argentina, frutto di una missione intrapresa dal novembre del 1976. Il rapporto di AI, di fatto, può considerarsi la prima denuncia ufficiale delle violenze sistematiche e della violazione dei diritti umani messi in atto dal regime militare.
Nonostante il rapporto avesse messo a nudo la tragedia consumatasi nei primi due anni di terrore, con numeri da capogiro relativi agli arresti e alle sospette sparizioni di migliaia di detenuti politici, l’atteggiamento dell’opinione pubblica stentava a uscire dall’indifferenza generale man mano che il mundial si avvicinava, complice anche la massiccia campagna di disinformazione orchestrata dal regime di Videla dentro e fuori i confini nazionali. Di qui la necessità e la volontà, da parte di Amnesty International, di rivolgersi ai diretti interessati, ossia agli atleti e ai lavoratori del mondo del calcio e dello sport in generale, giornalisti compresi.
La petizione, dalla quale scaturì il rapporto The 1978 World Cup and Human Rights: what Sports People Think (pubblicato il 17 maggio 1978), mirava a scuotere i principali governi europei ad attivarsi in favore dei detenuti politici argentini. Fu un’iniziativa coraggiosa e non mancarono risposte importanti da parte del mondo dello sport europeo. Tuttavia, a meno di due mesi dall’inizio del mondiale, l’appello cadde sostanzialmente nel vuoto. In Italia risposero e firmarono in pochi, tra questi il primo fu proprio Agostino Di Bartolomei.
Alla petizione lanciata da Amnesty International non fu dedicato molto spazio nella stampa italiana. Fanno eccezione le principali testate di sinistra, tra cui si possono menzionare L’Unità, L’Avanti e Paese Sera. La notizia esce esattamente il 14 aprile 1978, quando tra i primi firmatari spuntò il nome del giovane centrocampista della Roma. Questo è quanto si legge su L’Unità:
«Agostino Di Bartolomei, mezzala della Roma, è stato il primo giocatore italiano a sottoscrivere, dichiarando di condividere pienamente l’azione di Amnesty International, gli appelli che la sezione italiana dell’organizzazione ha rivolto, alla vigilia dei campionati del mondo, al Presidente del Consiglio ed al Papa, tendenti a caldeggiare iniziative concrete in favore di prigionieri politici e persone scomparse in Argentina. Amnesty ha chiesto di firmare gli appelli anche ai giocatori della nazionale italiana di calcio che disputeranno i mondiali in Argentina».
Come già anticipato, l’iniziativa lanciata dalla sezione italiana di AI non mirava soltanto a sollecitare il mondo del calcio a prendere posizione rispetto alle violazioni dei diritti umani da parte del regime di Videla bensì si rivolgeva direttamente all’allora governo in carica (Andreotti IV) e a Papa Paolo VI. Questo è quanto riporta L’Avanti nella medesima data del 14 aprile:
«Amnesty International chiede che il governo italiano solleciti la pubblicazione di liste complete dei prigionieri da parte del governo argentino e l’applicazione più ampia possibile del “derecho de opcion” in base al quale chi è detenuto senza imputazione può scegliere di lasciare il Paese; che chieda formali assicurazioni sulla sorte di centinaia di cittadini italiani e d’origine italiana detenuti o scomparsi; che si adoperi per l’approvazione di una legge che disciplini il diritto d’asilo (art. 10 della Costituzione) favorendo l’ingresso in Italia degli esuli dall’Argentina».
In quei giorni di aprile il giovane centrocampista della Roma non solo rese nota la sua firma alla petizione di AI ma rilasciò anche una breve dichiarazione al quotidiano romano Paese Sera. Poche righe ma parole molto forti, che furono tradotte in inglese dalla sezione britannica di Amnesty International nel suddetto documento pubblicato il successivo 17 maggio:
«It is not possible to keep your eyes closed. I have signed the petition because one should give a hand to those who need it, and at this moment the people of Argentina need help. It is a matter of individual conscience. Some sportspeople pretend to ignore it. Football is a beautiful jungle where you can live hidden, where the important things are goals and the rest doesn’t count».
Per tutti coloro che negli anni successivi hanno conosciuto il calciatore, l’uomo e la tragedia consumatasi nel 1994 sul mare del Cilento, c’è molto del personaggio Di Bartolomei in questa breve dichiarazione. Il giovane campione giallorosso non si limita solo a mostrare solidarietà al popolo argentino, ma critica fortemente i suoi colleghi calciatori («alcuni sportivi fingono di non sapere») e quella «bellissima giungla», il mondo del calcio, dove al di là dei risultati, dei gol e del successo, il resto conta poco o nulla.
In Italia, oltre a Di Bartolomei, furono davvero in pochi a firmare la petizione lanciata da AI. Nella stampa del nord venne dato maggior risalto alle firme del blocco Milan, composto dal leggendario allenatore Nereo Rocco e dai calciatori Aldo Bet, Ruben Buriani, Giuseppe Sabadini e Aldo Maldera. Nessuna posizione ufficiale da parte della Federazione Italiana Giuoco Calcio e dalla compagine azzurra in partenza per il mundial. In quelle settimane, d’altronde, FIGC, Lega e calciatori sono impegnati in accese trattative sulla questione dello status di semiprofessionisti dei giocatori militanti nelle serie minori e, soprattutto, sulla cosiddetta «firma contestuale» (ossia la possibilità dei calciatori di rifiutare i trasferimenti imposti dai club), un braccio di ferro che si concluse con la storica vittoria dell’Associazione Italiana Calciatori e che costrinse alle dimissioni il già «poltronissimo» Franco Carraro, all’epoca presidente della Lega Calcio. Insomma, a torto o ragione, l’attenzione dei calciatori era rivolta altrove.
Fuori dall’Italia l’appello di AI riscosse invece maggior successo. Tra i firmatari più noti non poteva mancare l’eccentrico bavarese maoista Paul Breitner, tornato dall’esperienza madrilena l’anno precedente e in forza all’Eintracht Braunschweig. Il campione del mondo del 1974, in aperta polemica col CT della nazionale Helmut Schön e con la federazione tedesca, decise di continuare il suo «esilio volontario» dalla rappresentativa della Germania Ovest e di non partecipare al mondiale argentino. La sua defezione, tuttavia, non va confusa con le iniziative di boicottaggio lanciate dai comitati francesi in quei mesi. Queste le sue parole riportate da Amnesty:
«Boicottaggio è una parola usata in politica e non ha nulla a che fare con lo sport. Ma questo non dovrebbe significare che gli sportivi debbano essere politicamente passivi. Potrebbero rifiutarsi di essere usati come una sorta di burattini in un gioco politico. Potrebbero per esempio rifiutare qualsiasi contatto con i generali argentini. Penso che una dimostrazione alle partite di apertura avrebbe più effetto che la raccolta di migliaia di firme».
Di Bartolomei, Breitner, il ritiro dalla nazionale del capitano argentino Jorge Carrascosa alla vigilia del mondiale. Nomi certamente degni di nota che, comunque, rappresentarono solo delle rare eccezioni nel silente mondo del calcio. Furono proprio i giocatori della nazionale francese, trascinati dalle polemiche scoppiate in patria all’inizio del 1978, a prendere le distanze dalle iniziative del COBA. «La politica mi interessa poco e non trovo normale che possa essere mischiata allo sport. Non ho nessun problema a giocare in Argentina — dichiarò Michel Platini, astro nascente del Nancy, al Corriere della Sera l’8 febbraio 1978 — Nessun calciatore fa politica perché i partiti potrebbero strumentalizzarlo, come succede già con altri sportivi». Nel medesimo articolo, più argomentata e riflessiva la risposta dell’attaccante Dominique Rocheteau: «Non mi va di fare una dichiarazione tanto per farla, non mi interessa ottenere un brevetto di buona condotta, che mi si dica “Rocheteau è di sinistra”. Resta però da sapere se è possibile giocare quando, nella stessa città, c’è qualcuno che viene torturato. Ma se non si dovesse più giocare nei paesi che vìolino i diritti dell’uomo in breve tempo il calcio sarebbe finito».
Il mondo del calcio, in sostanza, non si schierò. A scendere in campo contro il regime di Videla fu solo la stampa internazionale. Peccato che quest’ultima, specie quella italiana, al mundial ci andò sconfitta già in partenza.
Il gesto di Agostino di Bartolomei e dei calciatori del Milan, seppur nella sua piccola incidenza — diremmo oggi — mediatica, assume la sua rilevanza se si considera la situazione politica italiana in quei due mesi che precedettero il mondiale in Argentina. Quando esce la notizia della petizione di Amnesty International è passato appena un mese dall’agguato di via Fani e tutte le attenzioni dell’opinione pubblica sono naturalmente concentrate sul sequestro Moro realizzato dalle Brigate Rosse.
«Nel clima di tensione per il caso Moro», scrivono Alberto Molinari e Gioacchino Toni in Storie di sport e politica: una stagione di conflitti, 1968-1978 (Mimesis Ed., 2018), «anche il dibattito politico sul caso argentino fatica a svilupparsi. Per buona parte delle forze politiche, dell’opinione pubblica e della grande stampa, i campionati del mondo si configurano come una parentesi rasserenante, un’occasione per spostare l’attenzione dalle drammatiche vicende interne alla “festa del calcio” e alle imprese della nazionale azzurra».
Non c’è soltanto il desiderio di non intaccare la manifestazione sportiva più amata del mondo. C’è dell’altro, molto di più. Se il regime di Videla, per garantirsi il potere e un largo consenso internazionale, ha beneficiato di importanti connivenze, l’atteggiamento dell’Italia è stato particolarmente controverso. Legati ormai da un secolo dal fenomeno migratorio, tra i due Paesi intercorrevano rapporti significativi di natura commerciale, finanziaria e imprenditoriale.
Nell’Argentina di Videla si muove soprattutto Licio Gelli. I legami tra il venerabile e i vertici militari argentini sono storia accertata, basti citare il generale Carlos Guillermo Suárez Mason (tessera P2 nr. 609), ricordato in patria come el carnicero de El Olimpo (il boia del Garage Olimpo), e l’ammiraglio Emilio Eduardo Massera (tessera P2 nr. 478), capo di stato maggiore della marina nonché direttore dell’ESMA, antisemita, una sorta di icona della violenta repressione messa in atto dal regime militare.
A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, inoltre, Gelli controllava il Corriere della Sera del gruppo Rizzoli. Fu proprio il più importante quotidiano d’Italia, ormai nelle mani della loggia P2, a inaugurare un certo taglio editoriale mirante a descrivere l’Argentina come finalmente «normalizzata», «pacificata», e il mondiale di calcio come un’occasione irripetibile per modernizzarla. Il nuovo Corriere della Sera diretto da Franco Di Bella appoggerà di fatto la propaganda orchestrata dal regime, minimizzando l’aspetto repressivo e dando scarsa visibilità alle inchieste e ai numeri raccapriccianti denunciati proprio in quei mesi.
Non ci soffermiamo sui contributi forniti dal giornalista Paolo Bugialli (inviato in Argentina al posto del più scomodo Giangiacomo Foà) e dagli inviati di altre testate nazionali, per i quali rimandiamo i lettori a consultare il succitato buon lavoro di Molinari e Toni. Riportiamo piuttosto un curioso trafiletto del Corriere, pubblicato il 26 marzo 1978, in cui vengono resi noti alcuni passaggi di un comunicato molto aggressivo inviato dalla TELAM, la principale agenzia di stampa argentina:
«Portavoce qualificati hanno ricordato che in Italia hanno cercato rifugio personaggi ed autonominati dirigenti della guerriglia argentina, che hanno trovato ogni tipo di facilitazioni per svolgere indegne attività, cercando di creare un’immagine distorta del regime che governa il nostro Paese». Nel mirino non ci sono soltanto i rifugiati argentini ma anche «(…) la campagna di Amnesty International e di altre organizzazioni, che hanno protetto, come difensori dei diritti umani, persone che nascondevano sotto una pelle d’agnello la ferocia assassina delle loro aberranti ideologie».
Il trafiletto, non firmato, non è accompagnato da nessun commento. Nella stessa pagina, l’inviato a Mosca, Piero Ostellino, dedica due colonne alla insostenibile censura in Unione Sovietica.
C’è un altro piccolo ma emblematico articolo del Corriere della Sera che vale la pena menzionare, perché riguarda Agostino Di Bartolomei. Nella già citata data del 14 aprile 1978 anche il quotidiano di via Solferino copre la notizia riguardante il centrocampista giallorosso ma lo fa nella maniera più invisibile possibile. Sulla pagina sportiva, nelle ultime righe di un trafiletto dal titolo veramente poco eloquente («Nella Roma col Verona ritorna Chinellato»), viene brevemente data notizia della sua firma per l’appello di AI. Nella colonna a fianco, una pubblicità di una agenzia di viaggi milanese promuove soggiorni-vacanze a Buenos Aires per la fase finale dei mondiali. Nel medesimo box pubblicitario, in evidenza, campeggia lo spot: «Il mondiale più bello della storia del calcio». Quanto a Di Bartolomei, la sua foto viene prontamente messa in evidenza due giorni dopo, il 16 aprile 1978, sulle pagine della cronaca romana del Corriere, in quanto sentito dai magistrati come potenziale testimone, insieme al cantante Mal, nell’inchiesta sull’anonima sequestri romana, verso la quale il giocatore della Roma dimostrò in brevissimo tempo la sua totale estraneità.
Buona parte dei quotidiani nazionali seguì la linea tracciata dal Corriere, mantenendo una certa distanza dalle terribili notizie provenienti dall’Argentina e, in alcuni casi, attaccando perfino le poche testate che provavano invece a raccontare la verità. A tal riguardo, è rimasta famosa la frase dell’editorialista e inviato de Il Giornale, Livio Caputo, pubblicata il 28 maggio 1978: «Se certa stampa nostrana insisterà negli indiscriminati attacchi dei giorni scorsi contro il regime argentino e se a Roma si continuerà a chiudere entrambi gli occhi di fronte alla distribuzione di materiale propagandistico sovversivo da parte dei Montoneros, l’Italia rischia a sua volta di entrare nel mirino».
I timori di Livio Caputo forse erano meramente sportivi, anche se in quei mesi non furono in pochi a sovrapporre l’esperienza argentina alla situazione interna italiana. Si pensi ai facili parallelismi tra BR e Montoneros e ai subdoli confronti tra l’efficace metodo sicuritario sudamericano e la debolezza (la «fiacchezza») delle democrazie occidentali in preda al terrorismo rosso.
Benché non tutta la stampa italiana si sia allineata su tali interpretazioni, una seria campagna d’informazione fu perseguita principalmente dal basso. Un ruolo di primo piano fu recitato dall’UISP (l’Unione Italiana Sport per Tutti) che con la sua agenzia di stampa Uispress costituì la principale base di appoggio per la sezione italiana di Amnesty International prima e dopo l’inizio dei mondiali di calcio. Ne costituisce un esempio l’ultimo appello lanciato da Amnesty, pubblicato da Uispress il 15 giugno 1978, nel quale si chiedeva ai calciatori della nazionale una presa di posizione almeno simbolica nei confronti del regime militare: «L’UISP si appella inoltre alla squadra italiana, agli atleti, ai tecnici, ai dirigenti (…) chiedendo che essi non partecipino a cerimonie ufficiali indette dalla Giunta militare, come atto di solidarietà con l’azione, interna e internazionale, contro la violenza e l’oppressione, per la pace e la democrazia».
Nel corso delle ultime settimane del maggio 1978, con il caso Moro ormai alle spalle, si riaccendono i riflettori sulla questione argentina e sulle iniziative di Amnesty International. In una dichiarazione fornita dalla fondatrice e presidente della sezione italiana di AI, Margherita Boniver, socialista e futura berlusconiana, si legge anche una critica alla redazione di via del Solferino. La riporta Lotta Continua, nell’edizione del 15 giugno 1978: «Siamo arrivati al punto che gli articoli di alcuni giornali, come quello di Bugialli al Corriere della Sera del gruppo Rizzoli, sembrano addirittura scritti su commissione della stessa giunta».
Mar del Plata, 2 giugno 1978. La formazione dell’Italia scesa in campo nella vittoriosa sfida contro la Francia (2-1) valevole per la prima fase a gironi del campionato del mondo 1978
Con il mondiale ormai alle porte le proteste e le mobilitazioni si allargarono al mondo dell’associazionismo e dei sindacati, finanche ai movimenti universitari. A Roma il Circolo G. Castello, polisportiva molto attiva nel sociale nei quartieri a sud della Capitale, lanciò un ulteriore appello alla Federcalcio e alla Lega affinché non voltassero le spalle alla causa argentina. In occasione della partenza degli azzurri da Fiumicino, nella notte tra il 22 e il 23 maggio, l’aeroporto romano divenne teatro di una larga assemblea tra i giornalisti in partenza per il mundial e diversi esponenti della confederazione nazionale CIGL, CISL e UIL, dello stesso UISP e del CAFRA (Comitato antifascista contro la repressione in Argentina). Un commiato «un po’ freddo per gli azzurri», come si legge sul numero de L’Avanti del successivo 24 maggio.
La nazionale di Bearzot fu una sorpresa: giocò un bel calcio e di fatto pose le basi per la grande vittoria in Spagna del 1982. I giornalisti italiani inviati in Argentina, grosso modo, contribuirono al successo propagandistico del regime, come commentò il direttore di Tuttosport Gian Paolo Ormezzano, il 24 giugno 1978, mentre la competizione volgeva al termine:
«Ordine, serenità. Sì, qualche problema economico, ma chi al mondo non ne ha? Il tutto è avvenuto, sia chiaro, con piena buona fede da parte dei giornalisti, che magari erano partiti per scrivere lancinanti verità e che hanno finito per descrivere la bellissima bistecca che hanno mangiato. Noi pensiamo, in sostanza, ad una vittoria del regime, vittoria che verrà perfezionata se l’Argentina vincerà il titolo».
L’albiceleste del CT Cesar Luis Menotti quella coppa la alzò al cielo mentre il popolo argentino continuò a vivere l’incubo della dittatura per altri cinque lunghi anni. Rimaste più volte inascoltate dai governi occidentali, le denunce di Amnesty International, dei comitati francesi, dei rifugiati politici argentini, trovarono ufficialmente conferma solamente dopo il 1983.
A trent’anni della sua scomparsa, sono ancora in molti a parlare, a ricordare e a scrivere di lui. Di campioni come Di Bartolomei ce ne sono stati altri; di uomini come Ago, o Dibba, invece, il mondo del calcio ne ha conosciuti assai di meno. Anche in quei lontani ma ancora molto nitidi anni Settanta, era più il personaggio, piuttosto che il calciatore, a far discutere stampa e tifosi. I presunti limiti calcistici di Di Bartolomei (la lentezza) e caratteriali (serio, introverso), lo posero al centro delle polemiche fin da giovanissimo, nonostante rappresentasse una promessa del calcio italiano, non solo romano.
Ciò che probabilmente più incuriosiva, e qualche volta indisponeva, era proprio quel suo essere avulso dal mondo del calcio. Quel «ragazzo nato vecchio», definizione attribuita a Giancarlo Picchio De Sisti, contrariamente ai suoi colleghi non aveva solo il pallone nei suoi progetti. Abbandonato presto il sogno di fare il medico, si iscrisse alla facoltà di Scienze Politiche; nel 1977 progettava già una seconda laurea e un futuro professionale altrove, come commercialista oppure giornalista. Non appena ventenne Di Bartolomei dichiarò anche che, qualora fosse rimasto nell’ambiente, avrebbe desiderato svolgere un ruolo dirigenziale nella sua Roma. L’amore per il calcio e per il club giallorosso, col senno di poi, segnò dunque il suo destino.
A indisporre stampa e tifosi non era quindi la sua cultura o la sua intelligenza ma il fatto di volerla usare, di voler dire qualcosa di diverso nel mondo del calcio. Nelle numerose interviste, mai banali, rilasciate alla fine degli anni Settanta, Di Bartolomei parlava di Belli e Trilussa, della letteratura russa, di arte moderna e di Guttuso, che conosceva di persona. Forse era troppo: tanto in campo quanto nelle sale stampa, quella sua fredda dialettica lo fece passare per saccente, altezzoso, ma ovviamente non era così. Lo scorso anno, il giornalista e telecronista Fabio Caressa ha dedicato un mini-documentario alla bandiera giallorossa, tratteggiando alcuni aspetti di quel «Capitano silenzioso» che vale la pena citare:
«Per quelli della mia generazione Agostino Di Bartolomei voleva dire qualcosa di veramente speciale. Era un giocatore veramente sui generis. Innanzitutto era un giocatore “parlante”, “pensante”: era una persona di grande cultura, un uomo di sinistra. Mi ricordo che nei primi anni Ottanta o fine anni Settanta sconvolse tutti dichiarando che votata PdUP, un partito di estrema sinistra, quando tutti invece non si esprimevano o avevano paura di esprimersi perché erano anni di grande contrapposizione politica. Lui ha sempre avuto parole di pace, ovviamente, ma ha sempre detto che riteneva importante la vita politica, condividere delle opinioni e dei pensieri forti in politica… Opinioni e pensieri forti che aveva anche in campo. Agostino, un giocatore “pensante” degli anni Settanta e Ottanta… ed era soprattutto un grandissimo calciatore».
Il ricordo di Caressa apre uno spiraglio interessante sul profilo del giovane Agostino. Di sicuro il centrocampista della Roma in più occasioni sottolineò l’importanza della politica, tanto nello sport quanto nella società civile, atteggiamento decisamente in controtendenza rispetto a quelli degli altri calciatori. Qualche interrogativo lo apre la definizione che il celebre telecronista fa di lui come «uomo di sinistra», anche perché a Di Bartolomei è stato sovente assegnato un profilo politico ben diverso. Credente, non praticante, in diverse interviste dichiarò di apprezzare le abilità politiche di Giulio Andreotti. Rimase nella storia la visita del Milan di Silvio Berlusconi a Papa Wojtyla il 20 dicembre 1986, organizzata proprio dall’ormai ex giallorosso grazie a un suo amico cardinale.
L’immagine di un Dibba democristiano probabilmente non è esatta. In merito al profilo tratteggiato da Caressa, riportiamo un paio di risposte rese da Di Bartolomei in un’intervista realizzata dalla rivista Giallorossi nell’ottobre del 1978. Alla prima domanda (Che senso ha la politica nello sport?) rispose cosi: «Sono contrario alla politica che strumentalizza. Il partitismo nello sport non c’entra nulla. Però lo sport, in sé e per sé, non esclude che si possa fare politica attiva». Alla domanda successiva (Per chi ha votato alle ultime elezioni?) troviamo una piccola conferma: «L’ho detto una volta. Non commetterò lo stesso errore. Mi sono accorto che può influenzare l’opinione pubblica. Comunque tendo a una sinistra moderata».
Una risposta alla Di Bartolomei, tanto geloso della sua vita privata quanto insofferente rispetto alla sua stessa notorietà. Questo perché, nel 1978, il giovane cresciuto nella borgata Tor Marancia era già un nome importante nel panorama calcistico italiano. Non solo si era appena affermato (un po’ a fatica) nella sua Roma, a suon di reti dalla distanza e da calcio piazzato ma, già dal 1977, era diventato il faro del centrocampo della nazionale giovanile allenata da Azeglio Vicini, proprio in quell’anno passata dall’Under 23 all’Under 21. Tra i pochi fuori quota per età, Di Bartolomei era di fatto il leader degli azzurrini, una squadra fortissima che annoverava futuri campioni del mondo quali Antonio Cabrini, Fulvio Collovati e Pablito Rossi. Anche in maglia azzurra si farà largo a suon di gol (7 reti in 8 presenze); grandi prestazioni che, tuttavia, non gli valsero un futuro nella nazionale maggiore, dove non giocò neanche un minuto. A conti fatti, sono in molti a sostenere che il dualismo con il fuoriclasse della Fiorentina Giancarlo Antognoni non giustificò la perenne esclusione dalla compagine azzurra.
La sua presa di posizione rispetto al mondiale argentino coincise esattamente con la fine dei sogni azzurri e, forse, fu il primo bivio che segnò il suo destino di calciatore e di uomo. Finché vestì la maglia giallorossa, Di Bartolomei fu facile bersaglio della stampa, specie quella del nord. Qualcosa cambiò quando seguì il Barone Nils Liedholm a Milano, dopo il tragico epilogo del 1984 in Coppa dei Campioni. Il resto della storia la conosciamo tutti. Il mondo del calcio (e la Roma in primis) si dimenticò presto di lui, lo ignorò. Quel giocatore troppo pensante era ormai diventato d’intralcio.
Forse l’unica sua colpa era stata quella di voler restare in quella «bellissima giungla» senza scendere mai a compromessi, senza nascondersi. Una cosa è certa, da calciatore c’era riuscito.