Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
Il sito comprende sei aree tematiche e ben ventidue sottocategorie con centinaia di pezzi su anni di piombo, strategia della tensione, vicende e personaggi più o meno misconosciuti di un’epoca soltanto apparentemente lontana. Per rinfrescare la memoria di chi c’era e far capire a chi era troppo giovane o non era ancora nato.
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Le donne gli fanno la posta. Lo aspettano in piena notte, ad ore impossibili, o all’alba, quando il sole comincia a sorgere e poi, come arriva, lo bloccano nel tentativo di parlargli. Oppure gli telefonano a casa e come lui dice «pronto», dall’altra parte del filo si sente lo schiocco di un bacio e quindi il clic del ricevitore abbassato. Oppure arrivano da ogni dove, persino dall’Inghilterra o dalla Cecoslovacchia, per vederlo. Parliamo di Giacomo Agostini, il «motociclista play-boy» e delle ragazze che vorrebbero averlo «almeno un po’». Con la vittoria del 19 luglio scorso, a Brno, egli ha conquistato l’ottavo titolo mondiale, riuscendo così a insediarsi al secondo posto assoluto fra coloro che dal 1948 – anno dell’istituzione dei mondiali – hanno ottenuto titoli iridati: lo precedono Carlo Ubbiali e Mike Hailwood, entrambi con nove successi. In cinque anni, Agostini ha saputo conquistare cinque titoli nelle «500» e tre nelle «350», vincendo 64 Gran Premi. Due anni fa, inoltre, ha stabilito un altro particolarissimo record, trionfando in tutte le 17 gare del campionato mondiale. In quello stesso 1968, la rivista inglese Motor Cicle News lo proclamò «Uomo dell’anno» e il giornalista inglese Peter Carrick scrisse di lui: «Agostini attrae come uno spettacolo teatrale».
Giovane, bello, spensierato e ricco, Agostini ha preso nel cuore della folla il posto che fu di Alberto Ascari, Per vederlo correre in moto, a Brno sono accorsi in 170 mila, al Sachsenringin 200 mila, e tutte le volte che lo vedevano «uscire» dalla curva che immette sul rettilineo, gli spettatori si alzavano in piedi soggiogati, ammutoliti dalla paura. A Monza, quando corre lui, ci sono più spettatori che a una gara automobilistica. È uno dei pochi autentici personaggi del nostro tempo, un divo, anche se sarebbe ingiusto rinfacciarglielo perché del divo non ha né l’atteggiamento, né la superbia, né la presunzione.
«Io sono uno qualsiasi», dice. È un giovane come gli altri che però ogni domenica corre su due ruote a quasi 300 all’ora, guadagnando, come dice lui, «la metà della metà di un calciatore». «Ed è sommamente ingiusto», aggiunge subito, «perché il rischio, loro, non sanno neppure che cosa sia». Questo ragazzo, che il padre avrebbe voluto ingegnere, ha 28 anni e almeno per otto mesi all’anno va a cavallo della morte. Sarebbe sicuramente piaciuto a Ernest Hemingway. E a Hemingway sarebbe piaciuta anche la madre, Maria Vittoria, che ad ogni gara del figlio va in chiesa, accende una candela e prega «perché il mio Mino ritorni da me».
Quando gli riferiamo che, a volte, vedendolo lanciato a 270 all’ora («anche 280», precisa lui) la folla gli dà del «matto», Agostini si agita sulla sedia del soggiorno e con voce tagliente, grida: «Sì? Dicono che sono matto? E allora perché non mettono un matto vero su una moto e non lo fanno correre a 280 all’ora?». Giacomo Agostini è tutt’altro che matto. È talmente savio, prudente ed accorto da trasformare le sue corse in saggi di precisione e di realismo. Dice:
«Io sono nato con la benzina nelle vene. Lo so. Ma ciò non mi ha mai dato il diritto di sottovalutare i mille pericoli di una corsa. Alla vigilia delle prove, dovunque io mi trovi, mentre i miei avversari alla sera vanno a dormire, io salgo sulla mia auto e percorro metro per metro, con i fari bene accesi, tutto il tracciato della gara. Di notte, le gibbosità, gli avvallamenti, le striature della strada, le buche, gli asfalti corrosi, tutte le insidie, insomma, si notano molto meglio che di giorno, proprio per un gioco di luci e ombre. E allora che cosa faccio io? scendo dalla macchina e a piedi vado ad osservare quelle irregolarità, le tocco con i polpastrelli delle dita, mi chino sin quasi a toccare l’asfalto col mento, osservo meglio che posso la pista, fotografando nella mente ogni tipo di irregolarità. Perché non mi sono mai fatto niente quelle poche volte in cui sono caduto dalla moto? Semplice, ho seguito un corso di judo, per imparare a cadere».
Lei è caduto poche volte nel corso della sua carriera e non s’è mai fatto niente, o quasi. Perché?
«Semplice: ho frequentato un corso di judo per imparare a cadere».
A Milano Marittima, a causa di una macchia d’olio, Agostini rovinò a terra e, mentre la moto impazziva nell’aria come un cavallo da rodeo, lui compì una strisciata sull’asfalto di 170 metri sfasciando col petto, come grissini sotto il tacco di una scarpa, tutte le balle di paglia che incontrava nella drammatica scivolata. Non si fece nulla, «Però mi resi conto per la prima volta», ammette, «di come si possa morire in una frazione di secondo. Nel momento in cui ho cominciato a volare, mi son sentito tirare tutti i nervi e son rimasto senza fiato, bloccato, è come essere colpiti da una frustata dentro il cervello».
E dopo il capitombolo, che cosa si prova?
«Se sono in me, la prima cosa che faccio è quella di rimettermi in piedi e di restarci. Sa perché? Perché ho visto piloti alzarsi dopo uno spaventoso volo e quindi afflosciarsi immediatamente, stecchiti. Io, invece, sto lì fermo otto o nove secondi, immobile. Se al decimo non stramazzo a terra, mi dico: “Mino, sei vivo”. E ritorno ai box».
Alto 1.69 («Scriva 1.70, va», dice «Faccio più colpo») e pesante 66 chili, Agostini è un fascio di muscoli sempre pronti ad agire. In corsa, bisogna cambiare marcia non meno di 1500 volte e se non si è abituati allo sforzo, la vittoria inevitabilmente sfuma. A vederlo in sella sembra un cavaliere antico, fiero e nobile nella guaina di pelle che gli fa da armatura. È il solo pilota di motociclette (lui non vuole che lo si dica, però) che prima di fare una gara si faccia massaggiare a lungo tutto il corpo per essere sempre scattante e pronto. Ha i nervi di acciaio e un autocontrollo a prova di scariche elettriche. Ma se gli fanno uno sgarbo diventa una belva. A Francorchamps, nel luglio dell’anno scorso, un commissario di gara voleva proibirgli di provare la moto sulla pista solo perché Agostini era arrivato con mezz’ora di ritardo. Il nostro pilota non disse nulla: ritornò sulla Porsche, fece marcia indietro e poi in piena velocità si diresse verso la sbarra di legno che impediva l’accesso al circuito, sbriciolandola. In moto diventa irresistibile proprio perché soffre troppo quando non è in sella. Per lui la velocità è una sorta di liberazione. Nell’autunno del 1959, quando aveva appena 17 anni, una domenica andò a Monza con un amico, ai bordi della curva di Lesmo, per assistere al Gran Premio motociclistico. Quando lo speaker annunciò al microfono la partenza dei piloti, l’amico che era al suo fianco sentì qualcuno piangere. Si guardò intorno. Era Agostini. «Beh, adesso perché piangi?», gli chiese. «Perché vorrei essere io su una di quelle moto», si sentì rispondere. Per questo perfetto impasto di sensibilità, di stile, di coraggio ragionato, di esasperato equilibrio, di qualità agonistiche innate ed affinate, Agostini è stato soprannominato dai belgi «il Merckx del motociclismo».
È evidente allora un fatto: che i belgi non hanno mai conosciuto a fondo sia il loro campione sia il nostro. Perché se è pur vero che Merckx ha l’irresistibile passo del dominatore, Agostini possiede anche doti che gli conferiscono dimensioni più «umane». Come l’attaccamento ostinato della giovinezza ai piaceri della vita, il desiderio di viverla giorno per giorno, di gustarla fino in fondo. Quando la stagione delle corse è lontana, Giacomo disputa grandi duelli a tavola con gli amici. Con le letture e la musica, invece, è in debito. Scorre soltanto i giornali che parlano di lui. «Non ho il tempo» dice «di leggere un libro fino in fondo». Accetta la compagnia di tutti, a volte prende anche qualche «bella sbronza».
Un giornale sportivo scozzese, commentando tempo fa la mancanza di personaggi pittoreschi nel mondo dell’automobilismo, citava Mike Hailwood – il più forte avversario che Agostini abbia mai incontrato, ora ritiratosi – come un esempio che i piloti di Formula 1 avrebbero dovuto seguire. Hailwood era sempre pronto a divertirsi. A Snetterton comparve persino in pubblico completamente vestito da «figlio dei fiori». «Questa pagliaccesca spensieratezza fa parte della fama di Hailwood», concluse quel giornalista. Ebbene, Agostini, oltre ad avere superato l’abilità di Hailwood come pilota, gli è per lo meno pari anche nelle mattane. L’anno scorso, ad esempio, dopo aver passato una giornata intera nei negozi di Carnaby Street, a Londra, Agostini tornò in Italia e la mattina dopo scese nella piazza del suo paese con un abito talmente sgargiante che gli amici gli chiesero se quello fosse un vestito o un pigiama. Anche ora, ripensandoci, si diverte come un matto.
Ride molto meno, invece, quando parla delle sue fatiche in corsa e dei suoi guadagni. «Tutta una vita a 300 all’ora per pochi soldi», confessa, «A Brno, domenica scorsa, sa a quanto ammontava il primo premio? Quaranta sterline, sessantamila lire». Scuote la testa, ma pensiamo che sia un simpatico bugiardo. Sappiamo che guadagna bene, perché la sua casa, la MV, gli passa uno stipendio di tutto rispetto: tanto che ora ha fatto costruire in paese un palazzone (che affitterà dopo aver tenuto per sé un appartamento) e una villetta («per stare finalmente un po’ solo a pensare ai fatti miei» afferma soddisfatto). Inoltre, è proprietario di una torbiera e vorrebbe acquistare un appezzamento di terreno di 54 mila metri quadrati, fuori dal paese. Fino ad ora ha girato due film e ha interpretato un fotoromanzo.
Renzo Pasolini afferma che lei è il più forte in campo mondiale solo perché dispone di una moto più veloce. È dello stesso parere?
«No. Però, se lui vuole, una sfida la possiamo sempre fare. Con due motociclette identiche, siano esse Benelli o MV. Cinque milioni di premio al vincitore. Ma una sola gara, perché io sto bene dove sono. Poiché perderà, la smetterà finalmente, prima di ogni corsa, di venirmi a dire: “Oggi all’arrivo mi vedrai di schiena”».
Ora ha intenzione di passare all’automobilismo: per chi correrà? Due anni fa Juan Manuel Fangio dichiarò che lei ha le qualità per diventare il nuovo Clark.
«Deciderò forse entro due mesi, sicuramente per Natale. Una scuderia inglese mi ha invitato a provare le sue vetture di “formula 2” per un mese di seguito. Ferrari mi confidò un giorno: “Un posto per lei nella mia scuderia ci sarà sempre”. Giovanni Agnelli mi disse: “Se ha intenzione di correre in auto, possiamo parlarne quando vuole”. Ma io vorrei, prima di tutto, diventare il più famoso di tutti i piloti motociclisti mai esistiti, vincendo dieci titoli mondiali. Poi vedrò: perché con tutti gli occhi che avrò addosso, io non potrò sbagliare. Per questa ragione, prima passerò alla “Formula 2”. Mi dedicherò alla “Formula 1” soltanto quando sarò sicuro di vincere. In ogni caso, se proverò una vettura da corsa, lo farò lontano dall’Italia: in Australia, in Tasmania, magari. Adesso, comunque, è troppo presto, anche se non è soltanto questa la ragione che mi frena: la verità prima è che le auto da corsa d’oggi sono troppo pericolose. Si incendiano a soffiarci sopra. Perché, vede, andare a sbattere contro un palo o contro un muro sarebbe anche il meno. È pensare di finire i miei giorni bruciato che mi seccherebbe un po’».