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«Non funzionerà». Giorgio Galli sul progetto di unificazione socialista (1965)

Redazione Spazio70

Da un articolo pubblicato su «L'Astrolabio» (settembre 1965)

Di Giorgio Galli

A me pare che ogni problema di scissione o di unificazione nell’ambito del movimento socialista da oltre un quarantennio non sia che il problema derivante, in Italia, dalla scissione più ricca di storia: quella che ha dato origine, nel 1921, al Partito comunista d’Italia. Questa scissione è, a sua volta, il prodotto più tipico del permanente riprodursi, nella storia dei movimenti socialisti, del contrasto tra una interpretazione gradualista e una interpretazione rivoluzionaria del marxismo. Tante volte si è creduto di aver superato questo contrasto, ma esso si ripropone continuamente. Si ripropone oggi, per esempio, nella “linea generale” che il Partito comunista cinese suggerisce al movimento comunista internazionale.

La contrapposizione tra interpretazione gradualista e interpretazione rivoluzionaria, a sua volta, è conseguenza del vuoto che si è determinato, nel pensiero marxista, circa il ritmo e i tempi del passaggio dal capitalismo al socialismo. Un processo che — nel pensiero di Marx — era visto come collocato nell’ambito di alcuni decenni e che avverrà invece — se avverrà — nel corso di un periodo di tempo considerevolmente più lungo. Il che sposta e complica i termini del problema del passaggio dal capitalismo al socialismo.

«IL PCI? È LA FORZA POLITICA MENO RAZIONALE DELLO SCENARIO ITALIANO»

Con queste brevi premesse non intendo dire né che il marxismo è superato né che accantonandolo si renderebbero più semplici e più risolvibili le questioni del socialismo. Vorrei solo sottolineare che senza richiamarci ai presupposti teorici (o secondo l’espressione di Rodolfo Mondolfo e di Gramsci, di filosofia della prassi) è difficile capire appieno le origini storiche e ideologiche della contrapposizione che caratterizza tutta la vicenda dei movimenti socialisti da un secolo a oggi.

La sopravvivenza e lo sviluppo — almeno sino a ora e presuntivamente almeno per alcuni decenni (più in là non è possibile fare previsioni) — del sistema capitalistico di produzione come il più efficiente nelle aree industriali più avanzate del pianeta, rende assai difficile la definizione di una posizione e di una strategia rivoluzionaria che si richiamino al marxismo. E se la rende difficile oggi, la rendeva addirittura improponibile mezzo secolo fa, allorché Lenin credette di aver restaurato per sempre il marxismo rivoluzionario contro l’involuzione socialdemocratica.

Il Pci rimane legato non già al leninismo, ma al suo atto di origine basato su una ipotesi dello sviluppo degli avvenimenti che senza dubbio era legittimo formulare nel 1917, ma che oggi appare manifestamente infondata. Il voler tentare di giustificare un atto di nascita e una storia basata su una ipotesi erronea (la possibilità di una rivoluzione socialista entro pochi anni nell’Occidente europeo) rende il partito comunista la forza politica meno razionale (cioè meno logicamente motivata) tra quante oggi operino con grande influenza sulla scena politica italiana.

NON RIDURRE TUTTO AL «MINIMO COMUN DENOMINATORE» DEL RIFORMISMO

E con questo termine — razionale — entro, dopo la premessa, nel merito nella prima domanda. A mio giudizio, l’esigenza di razionalizzazione della vita politica italiana dovrebbe investire in primo luogo la forza politica che giudico meno razionale, cioè il Pci. A me sembra che l’unificazione socialista quale oggi è concepita dalle forze che si delineano come maggioritarie nel Psi e nel Psdi non è idonea a raggiungere questo scopo. Non è idonea, cioè, a modificare l’irrazionalità del nostro sistema di forze politiche laddove ha il suo centro di gravità, cioè nel Pci.

Chiarisco, come ho già avuto occasione di scrivere altrove, che, a mio giudizio, la razionalizzazione della vita politica nell’ambito del movimento socialista non significa ridurre tutte le forze che vi operano al minimo comun denominatore del riformismo. Sono convinto che in Italia vi è anche spazio per una forza politica di una certa consistenza (maggiore, per fare un esempio, dell’attuale Psiup) che si richiami a Lenin e alla versione rivoluzionaria del marxismo. Ma il raggruppamento politico maggioritario nel movimento socialista sarebbe indubbiamente di tipo riformista, per le ragioni oggettive (sviluppo del capitalismo) che ho prima indicato.

La razionalizzazione, dunque, consisterebbe in una nuova dislocazione di forze, che raccogliesse da un lato i riformisti (maggioritari) e dall’altro i rivoluzionari (minoritari). L’unificazione socialista della quale attualmente si discute, a mio avviso, raggrupperebbe sì nel nuovo partito unificato un vasto settore riformista (Psi più Psdi più altre forze di cui ha parlato Nenni nella sua lettera); ma lascerebbe fuori il largo settore riformista oggi ingabbiato nella struttura autoritaria del Pci, che ingabbia anche le componenti leniniste (o neo-leniniste) che vi figurano. Su scala alquanto minore, analoga, è la situazione del Psiup che pure comprende — in un contesto assai composito — gruppi riformisti e gruppi rivoluzionari.

«L’UNIFICAZIONE SOCIALISTA? SARÀ FONTE DI ULTERIORI SCISSIONI»

In sostanza, se fosse portato a termine il processo politico detto di unificazione socialista, avremmo da un lato un partito socialista democratico unificato forse un poco al di sopra del 15 per cento dei voti; e dall’altro lato rimarrebbe il Pci sempre più simile, quanto a razionalità, al socialismo diciannovista da Gramsci definito “Barnum”, ma assai più efficiente data la sua struttura autoritaria; e accanto a esso un piccolo partito socialista di sinistra che darebbe all’insieme di questo schieramento un complesso di voti attorno al 30 per cento.

In queste condizioni la lotta politica in Italia sarebbe appena un poco più razionalizzata di quanto lo sia ora (quattro partiti che si richiamano al socialismo costituiscono un massimo, forse, di irrazionalità); ma in misura probabilmente non sufficiente per portare avanti con celerità e con efficacia una politica di riforme. Le riforme, per intenderci, che figurano nel programma di centro-sinistra, sono sostanzialmente ancora quelle che figuravano nei programmi dei governi centristi, che hanno come meta la società democratico-pluralista della quale molto parlano i dirigenti della Dc, riforme che non si sono ancora realizzate perché le coalizioni sin qui sperimentate (di centro e di centro-sinistra) non hanno avuto forza e volontà politica sufficienti per attuarle. (Quello che ho detto prima rende del tutto implicito che, a mio avviso, è impossibile pensare di utilizzare il Pci per accrescere quella forza; il Pci per la sua collocazione nella storia della politica italiana rende non già più facili, ma più difficili, e talvolta impossibili persino le riforme che sinceramente propugna).

In sintesi, dunque, l’unificazione socialista risponde a una esigenza di razionalizzazione; ma vi risponde in modo insufficiente; avverrebbe, forse, al prezzo di qualche ulteriore scissione e causando non poche delusioni a molti tra i migliori militanti non solo del Psi, ma anche del Psdi.

«LA DC MANTERRÀ IL RUOLO DI PARTITO EGEMONE»

Naturalmente, il minimo di razionalizzazione che l’unificazione, comunque, rappresenta, potrebbe essere giudicato positivamente se non esistesse altra alternativa possibile e se, rinunciando all’unificazione, si lasciassero le cose così come stanno, con la sopravvivenza di Pci, Psi, Psdi e Psiup quali essi sono. Essere ostili all’unificazione per lasciare la situazione qual è attualmente, dunque, ancora meno razionale del proporla e tentarla; ed essere ostili all’unificazione illudendosi di avvalersi, in qualsivoglia modo, del Pci per controbilanciare la posizione moderata della Dc, costituirebbe poi il massimo della irrazionalità. Fra queste tre formule — le più ricorrenti nel dibattito politico — l’unificazione socialista è ancora quella che maggiormente risponde all’esigenza di razionalizzazione della vita politica.

Per tentare di proporre una alternativa più razionale che investa l’irrazionalità laddove ha il suo centro di gravità (cioè il Pci) si possono vedere le conseguenze dell’unificazione attraverso le altre due domande. In sintesi, il potere contrattuale nei confronti della Dc del partito socialista unificato sarà quasi sicuramente maggiore dato che la sua consistenza politica risulterà accresciuta rispetto a quella suddivisa tra Psi e Psdi. Ma anche accresciuto tale potere sarà considerevolmente inferiore a quello della Dc: immaginando le due forze come espressione di circa il 40 per cento e di poco più del 15 per cento dell’elettorato, i rapporti tra loro non potranno essere determinati che da questo scarto. La Dc sarà come sempre abbastanza generosa in termini di posizioni di potere al centro e alla periferia; ma intenderà mantenere il ruolo di partito egemone, che detta il modo e il ritmo di attuazione del programma. E non vedo come in una coalizione un partito che rappresenta elettoralmente meno della metà dell’altro possa reagire di fronte a una distribuzione dei ruoli che ha una base oggettiva.

IL TEMA DEL CONFRONTO CON I LIVELLI DI VITA OCCIDENTALI

Avremo dunque una maggioranza governativa a direzione moderata, senza alcuna energica ripresa di azione riformatrice (le riforme verranno assai lentamente) e tanto meno con un “New deal” socialista. Vorrei dire, a questo proposito, che dare un indirizzo socialista a un programma di governo sarebbe problema assai complesso anche per un partito che controllasse il governo: si veda il caso di Wilson. E ciò non per carenza di volontà politica, ma perché è difficile delineare una alternativa al tempo stesso più efficiente sul piano produttivo e più produttiva sul piano sociale, finché il capitalismo funziona come in questi decenni. Si può ironizzare quanto si vuole su Erhard e sulla “economia sociale di mercato”, ma finché non si individuano e sperimentano migliori modelli di sviluppo è inutile e pericoloso definire “socialismo” sistemi economici o insieme di iniziative che rimangono al di sotto del rendimento produttivo e del livello di vita non solo degli Usa ma anche della Germania, uscita dalla “tabula rasa” economica che tutti sappiamo.

Questo socialismo (o questo dramma) del socialismo è connesso alla tematica che ho indicato all’inizio e cioè al vuoto teorico circa i ritmi e i tempi della possibile evoluzione dal capitalismo al socialismo. Questo vuoto non può essere riempito né da una fermissima volontà politica (della quale certo non mancavano né LeninStalin) né da una maggioranza parlamentare (come quella che hanno avuto o hanno i socialisti inglesi e scandinavi).

Che si possa fare, col 15 per cento o anche col 20 per cento dei voti, in Italia, ciò che non è stato possibile né per via rivoluzionaria né per via riformista a gruppi e a partiti politici che — pur nella diversità delle motivazioni e dei contesti sociali — erano di alto livello e sono arrivati a gestire con pochi condizionamenti il potere politico — è a mio avviso ipotesi non realistica. La prospettiva socialista, probabilmente, deve recuperare e sperimentare la dimensione dell’efficienza aziendale accompagnata dalla partecipazione non alienata, secondo una linea di pensiero alla quale ho accennato su “Tempi Modermi” e che qui ricordo perché i lettori dell’Astrolabio non abbiano l’impressione che poiché i problemi sono complessi tanto vale non affrontarli e accontentarsi dell’esistente.

LA SCARSA POSSIBILITÀ DI SOTTRARRE CONSENSI AI COMUNISTI

Quello che i socialisti possono fare, intanto, è di ottenere la attuazione dei programmi delle maggioranze e dei governi ai quali partecipano, posto che sono programmi che non hanno nulla di eversivo e che solo si propongono di portare l’Italia al livello di società costituzional-pluralistiche (il termine è di Aron) più avanzate. Ora, ritengo che il futuro partito unificato, pur avendo maggior potere contrattuale rispetto alla Dc del Psi e del Psdi, non ne avrà abbastanza per ottenere questo risultato, cioè una politica di riforme organica e tempestiva, non continuamente bloccata dagli interessi e dai gruppi di pressione che ricattano una maggioranza debole, divisa, dotata di scarso vigore politico.

Ritengo quindi probabile una stabilizzazione dell’attuale fase del centrosinistra; che farà le riforme (ne sono state fatte anche in periodo centrista) ma con grande lentezza e senza tenere il ritmo con le esigenze della società italiana in crescita.

Questo partito socialista in questa maggioranza avrà, a mio giudizio, scarsa possibilità di attrarre consensi nell’elettorato comunista. E non già perché il Pci proponga riforme più efficaci o più rapide o dimostri maggiore sollecitudine per gli interessi popolari. Ma semplicemente perché un partito che sta permanentemente all’opposizione e che ha salde radici nel Paese non può essere ridotto elettoralmente, al di là di oscillazioni limitate, una volta che il suo impianto organizzativo rimanga invariato in un periodo di sostanziale stabilità elettorale.

LA FORZA DELLA MILITANZA PCI

L’elettorato comunista è acquisito alle liste del partito da una serie di “mediatori”: l’apparato del Pci, i suoi attivisti non professionali, l’Unità, la Cgil, la Lega delle cooperative, il potere locale e così via; è in queste istituzioni che operano gli “opinion leaders”, per usare una espressione sociologica che orientano e organizzano il voto comunista. Con quegli strumenti questi uomini determinano il voto, illustrando l’articolo dell’Unità, svolgendo una pratica dell’Inca, commentando in un certo modo una trasmissione Tv in un circolo Arci, e così via: possiamo dire che circa 80 mila persone procurano ognuna cento voti alle liste del Pci.

Attirare i consensi dell’elettorato comunista significa influire su questo rapporto per modificarlo. Per incidere sull’elettorato comunista occorre influire sui suoi “opinion leaders” che operano nel quadro delle istituzioni a direzione comunista. Questi militanti, questi attivisti, sono oggi di fronte a problemi di orientamento che non esistevano nel periodo staliniano e che sono infinitamente maggiori di quelli del 1956, che erano traumatici (il rapporto Krusciov, l’Ungheria) mentre oggi sono diventati organici (la permanente contestazione tra Pcc e Pcus nell’ambito di una situazione caotica di tutto il movimento comunista internazionale).

L’unificazione socialista così come ora viene pensata (almeno mi sembra) trascura questo problema del contatto permanente coi militanti e con gli attivisti che mediano il voto comunista. Coloro che si pongono la questione, pensano tutt’al più che l’unificazione metterà queste persone di fronte a un fatto nuovo e le farà ripensare influendo sul loro orientamento. Questo è probabile; e se proprio non vi fosse altra prospettiva, c’è da augurarsi che l’unificazione ottenga questo risultato. Che però è limitato. A mio giudizio, è possibile concepire l’unificazione come processo che non solo faccia pensare, ma coinvolga quella parte del quadro attivo del Pci che potenzialmente è già su posizioni gradualistiche. I problemi e le prospettive dell’unificazione socialista, cioè, possono essere discussi anche coi comunisti. Anche se, ovviamente, discutere insieme non vuol dire trovare insieme le soluzioni.

Può essere che dopo un anno di dibattito che investa tutto il movimento operaio, si verifichi che la soluzione più razionale immediatamente possibile sia la unificazione nei termini concepiti da Nenni (attraverso i comitati d’intesa e quella che egli chiama costituente socialista). Ma sarà molto diverso se si arriverà a questo risultato escludendo a priori il dibattito coi comunisti o invece dopo averlo fatto, soprattutto a livello di base comunista. A me pare che questo dibattito presto o tardi creerà le premesse per una autentica razionalizzazione della lotta politica in Italia nei termini che ho inizialmente indicato.