logo Spazio70

Benvenuto sul nuovo sito di Spazio 70

Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
Il sito comprende sei aree tematiche e ben ventidue sottocategorie con centinaia di pezzi su anni di piombo, strategia della tensione, vicende e personaggi più o meno misconosciuti di un’epoca soltanto apparentemente lontana. Per rinfrescare la memoria di chi c’era e far capire a chi era troppo giovane o non era ancora nato.
Buona lettura e non dimenticare di iscriverti sulla «newsletter» posta alla base del sito. Lasciando un tuo recapito mail avrai la possibilità di essere costantemente informato sulle novità di questo sito e i progetti editoriali di Spazio 70.

Buona Navigazione!

Un leader poco amato. L’ostilità del mondo politico e imprenditoriale verso Aldo Moro

Redazione Spazio70

Soprattutto tra i media di destra, Moro venne decisamente detestato. Ma anche a sinistra i giudizi furono spesso sferzanti

Aldo Moro appariva così diverso dagli altri uomini politici italiani che parlare di lui richiedeva una grande attenzione. È anche per questo che fu coniata una scienza strana e complicata, che prese il nome di «morologia», giustificata dalla difficoltà di capire quel che diceva o faceva. Il presidente della Dc fu spesso oggetto di una fiducia incerta, quasi sospettosa, perché la sua faccia si presentava melanconica e il suo sguardo enigmatico. Quando Moro viene ucciso dalle Brigate rosse, in molti sciolgono inni alla sua memoria. Si tratta degli stessi che lo consideravano poco attraente. Secondo il deputato comunista Davide Lajolo, «Moro ha il colore della lenta pioggia d’autunno», mentre per il liberale Giovanni Malagodi «è un Fanfani più lungo e melanconico». L’ex presidente della Repubblica Giuseppe Saragat lo ha definito poi «un beduino seduto davanti alla sua tenda, che conta i cammelli delle carovane che attraversano il deserto». A ben vedere, malignità di poco conto, quasi sberleffi, al confronto con l’ostilità vera che gli veniva tributata dal mondo politico e imprenditoriale.

«CON LUI QUESTA ITALIA DI MEZZE TACCHE HA DATO ALL’EUROPA IL PIÙ GRANDE STATISTA MORENTE»

Giornalisti celebri gli rinfacciarono il suo cattolicesimo o addirittura immoralità politica per l’abitudine a sfumare, a non pronunciarsi quasi mai in maniera decisa, per non bruciarsi delle strade, delle possibilità, utili a raggiungere l’obiettivo che gli interessava.

Tra i media di destra, Moro è decisamente detestato. Il Tempo gli rimprovera, nel giugno 1971, «i molli patteggiamenti assembleari, fatti di scontri apparenti e incontri clandestini, oggi cedendo qualche cosa, domani negandone un’altra, perdendo terreno magari, ma un metro al giorno». È ancora Il Tempo a dedicargli questo gentile pensiero: «Per mesi hanno echeggiato a Palazzo Chigi il ruggito del topo e l’ululato del coniglio. Con la tecnica molle, scivolosa e viscida di una piovra per anni egli è andato avanti, flaccido e cascante, come un piccolo visir, cupo, funereo, spargendo il suo cammino di cadaveri e rovine. I fatti di luglio, il governo delle convergenze, la morte di Tambroni, l’eliminazione dal gioco, tipo sgambetto e tradimento, di Fanfani».

Nell’editoriale del Giornale nuovo del 31 ottobre 1974, intitolato La faccia di Moro, si legge che tutti i suoi ritorni sulla scena politica italiana sono sempre preceduti e sottolineati da «un rullio basso di tamburi, come quello che nei melodrammi accompagna il passaggio sulla scena dei condannati, e da premonizioni listate a lutto. C’è gente che passa la vita ad aggiornare il necrologio di Moro. Con lui, questa Italia di mezze tacche ha dato all’Europa il più grande statista morente».

UNA SCARSA PREDISPOSIZIONE PER LE BATTUTE

C’è poi lo sberleffo, sempre dietro l’angolo.

«È una questione di faccia. Quella di Moro è tutt’altro che antipatica, ma invita allo sbadiglio. Egli comunica con la gente, ma comunica solo il torpore. E se una magia esercita, è quella della anestesia capace di procurare al paziente il più dolce dei sonni, ma senza dargli nessuna certezza di svegliarsi a operazione compiuta e riuscita. A torto o a ragione, insomma, l’uomo della strada vede in lui più che un risolutore un ibernatore di situazioni e di problemi. E si domanda perplesso se fosse proprio di questo che l’Italia aveva bisogno».

Nel nostro Paese, si sa, la serietà può però essere scambiata per melanconia e tristezza e la scarsa predisposizione di Moro per le battute venne vista come un intollerabile difetto capace di turbare, piuttosto che come una dote. Anche lo scrupolo per l’esattezza, la meticolosità certosina, l’abitudine a limare parole, discorsi, comportamenti e atteggiamenti, furono sue caratteristiche tipiche che destarono inquietudine nel mondo politico e nel Paese in genere. Di lui si pensò fin troppo spesso che avesse residenza tra le nuvole e gli astri e invece la sua è sempre stata una mania per la precisione che faceva un tutt’uno con il rispetto che aveva verso i suoi interlocutori. Moro sapeva che la politica è una cosa complessa e si esprimeva di conseguenza. Nonostante il suo eloquio, egli fu chiaramente un testardo. Se una cosa si presentava in un modo, e lui la voleva così, non c’era verso di fargli cambiare idea. 

Con il tempo, quell’aura di «statista morente», che allora suscitava fastidio o ironia, si è trasformata in una delle chiavi per comprenderne la statura. Moro non cercava il clamore, non si prestava a semplificazioni: preferiva la fatica del compromesso e dell’ascolto. Il suo linguaggio prudente, che molti giudicavano indecifrabile, era in realtà l’espressione di una visione alta della politica, attenta alla complessità del reale e rispettosa delle persone. In un Paese che prediligeva figure carismatiche e parole d’ordine nette, apparve alieno. Solo dopo la sua morte si colse quanto quel distacco fosse, invece, il segno di un rigore raro: la consapevolezza che il potere non si esercita per dominare, ma per servire.