Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
Il sito comprende sei aree tematiche e ben ventidue sottocategorie con centinaia di pezzi su anni di piombo, strategia della tensione, vicende e personaggi più o meno misconosciuti di un’epoca soltanto apparentemente lontana. Per rinfrescare la memoria di chi c’era e far capire a chi era troppo giovane o non era ancora nato.
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«Una vera e propria holding economico-finanziaria, con proiezioni economiche transregionali e strategie criminali silenziose finalizzate a promuovere esclusivamente l’immagine imprenditoriale». Così la DIA ha recentemente definito il clan Moccia, storico sodalizio criminale di Afragola, piccolo comune sito a nord di Napoli. Stando alle inchieste giudiziarie tuttora in corso i Moccia avrebbero raggiunto l’apice del loro potere economico finanziario e, come ha scritto mesi fa su L’Espresso la giornalista Francesca Fagnani, costituirebbero ormai «l’élite della camorra».
Nelle suddette inchieste si parla di affari milionari, che vanno dal giro degli appalti pubblici agli investimenti nei traffici petroliferi. Ma prima di diventare i «padroni assoluti di Afragola», come li ha definiti Nello Trocchia sul quotidiano online Lavialibera, vi è stato un tempo per la famiglia Moccia in cui gli affari si decidevano a colpi di lupara e mitra. Perché è da quella lotta per il controllo del territorio afragolese, iniziata intorno alla prima metà degli anni Settanta, che il clan avrebbe intrapreso questa sua presunta «scalata» verso l’alto. Passata mediaticamente alla storia come la «faida di Afragola», per oltre vent’anni i Moccia si fronteggiarono con altri due clan, i Giugliano e i Magliulo. Saranno soprattutto i primi, nel corso degli anni Settanta, a ingaggiare una vera e propria guerra, senza esclusione di colpi e di sangue.
Per comprendere meglio l’origine della faida di Afragola bisogna fare un passo indietro e tornare ai primi anni Sessanta, quelli del cosiddetto boom economico. La plurisecolare vocazione agricola di tutto l’hinterland napoletano venne sconvolta dall’apertura di migliaia di cantieri edili; piccoli centri come Casoria, Acerra e la stessa Afragola, crebbero a dismisura e in maniera incontrollata. L’ondata edilizia si rivelò, di fatto, un affare irripetibile per le famiglie più ricche e influenti del territorio.
«Afragola», scrive il giornalista Gino Cavallo su Il Mattino nell’edizione del 30 maggio 1978, «è certamente uno dei centri della Campania che dal punto di vista edilizio ed industriale è maggiormente cresciuto negli ultimi vent’anni. Il racket dei cantieri, le pesanti tangenti imposte ai costruttori, pena qualche imprevista interruzione dei lavori a base di tritolo, è divenuto in breve uno dei filoni più ricchi per la vecchia e nuova malavita».
Secondo le cronache giudiziarie dell’epoca, nel corso degli anni Sessanta la famiglia «dominante» nel territorio afragolese era quella dei Giugliano (da non confondere con il più noto clan napoletano dei Giuliano, del quartiere Forcella), forti di un saldo legame con la DC locale e operanti sia nel fruttuoso settore ortofrutticolo della zona, sia sui classici affari «sommersi» come il contrabbando, la ricettazione e, ovviamente, l’usura.
Un potere, quello dei Giugliano, tutt’altro che incontrastato. I Magliulo — altra potente famiglia radicata sia ad Afragola che nel casertano — si affacciavano prepotentemente sul panorama degli appalti pubblici sotto la guida del capostipite Mario Magliulo, classe 1920, noto costruttore e imprenditore della zona, nonché capo elettore democristiano. La rivalità tra le due famiglie stava proprio all’origine di una guerra locale destinata a prolungarsi per oltre due decenni.
Il primo fatto omicidiario riconducibile alla faida risale addirittura al 20 settembre 1964: di fronte a un bar sito in piazza Gianturco, già piazza Belvedere (che diverrà, tristemente, il principale teatro di sangue negli anni successivi), il ventitreenne Antonio Maiello resta ucciso da sei colpi di pistola. L’articolo dell’inviato del Corriere della Sera riduce la vicenda a un alterco nato per futili motivi e finito in tragedia, parlando di «vecchi rancori alla base del “dichiaramento”», ma i fatti vanno ben oltre la rivalità tra singoli compaesani. Il Maiello, giovane vicino alla famiglia Magliulo, aveva infatti sfidato un «pezzo grosso», il ventisettenne Giovanni Giuliano, colpendolo ripetutamente alla nuca con il calcio della sua pistola, dalla quale sarebbero anche partiti alcuni colpi non andati a segno. Il Giugliano aveva reagito svuotando il caricatore sul suo aggressore. Per questo delitto era stato assolto per legittima difesa.
Un episodio, quello dell’omicidio Maiello, piuttosto isolato nel tempo, ma abbastanza emblematico rispetto a quanto avverrà nel decennio successivo.
Per la maggior parte dei cronisti dell’epoca, la faida di Afragola non origina solo per una impossibile convivenza territoriale tra le due famiglie: c’è di mezzo la politica.
«La sanguinosa faida», si legge su L’Unità il 14 dicembre 1977, «ha inizio nel 1970 quando ad Afragola si svolgono le elezioni per il rinnovo del consiglio comunale. Il clan Magliulo appoggia la lista della DC (uno dei Magliulo ne è addirittura candidato) mentre i Giugliano e i Moccia (all’epoca famiglia non ancora “potente”) si schierano con un gruppo di dissidenti democristiani che presentano una lista propria, la “Campana”. Qualche giorno prima delle elezioni gli “attacchini” delle due liste (appartenenti ai due clan) si scontrano: numerosi colpi di pistola e un paio di feriti per parte. Da quel momento la guerra è aperta».
La ricostruzione dell’inviato de L’Unità, avvenuta peraltro molti anni dopo gli eventi riportati, può in parte considerarsi corretta, pur restando il dubbio circa la posizione dei Moccia e il loro schierarsi inizialmente con il clan Giugliano (i fatti successivi, semmai, dimostrarono il contrario). Quel che è certo è che dal 1970 in poi seguirono una lunga serie di attentati, sparatorie e omicidi, tanto che i principali quotidiani nazionali soprannominarono Afragola la «Seminara della Campania», accostandola al piccolo comune di Seminara (in provincia di Reggio Calabria) che proprio in quegli anni era insanguinata da una brutale guerra tra le ’ndrine locali. Un confronto che, alla fine degli anni Settanta, si sarebbe spostato «a favore» del piccolo comune campano.
Il primo morto «eccellente» arriva il 9 settembre 1973. Mentre tutta la provincia napoletana è sconvolta dall’avvento del colera, in piazza Gianturco, dove nove anni prima aveva ucciso Antonio Maiello, cade in un agguato Giovanni Giugliano, considerato a tutti gli effetti il capoclan della sua famiglia. Pochi giorni dopo spiccano i mandati di cattura per i tre fratelli Luigi, Giuseppe e Mario Magliulo e i tre figli di quest’ultimo, Vincenzo, Giovanni e Angelo. Per quanto riguarda il capo-elettore della DC, però, le indagini non portano a nulla ed è rimesso in libertà dopo poche settimane. La risposta dei Giugliano arriva il successivo 5 novembre, neanche due mesi dopo l’omicidio di piazza Gianturco. Questa la ricostruzione dell’agguato, pubblicata su L’Unità il 4 novembre 1973:
«Lo spietato delitto è avvenuto in via Ciampa, ad Afragola, dove abitava il noto capoclan assassinato, Mario Magliulo, 53 anni, titolare di un’impresa edile e interessato al commercio dei prodotti ortofrutticoli, che aveva accumulato in questi anni una buona dose di rispetto nella zona (…). L’appaltatore stava rientrando a casa insieme con il figlio Giovanni e il “figlioccio” Francesco Catapano, 21enne di San Giuseppe Vesuviano. La vettura sulla quale viaggiavano si è fermata davanti al portone d’ingresso. A breve distanza si erano appostati gli assassini, i quali, non appena hanno scoperto la figura di Mario Magliulo che si avviava verso le scale che portano all’appartamento, hanno premuto i grilletti dei mitra che imbracciavano».
Per il Magliulo non c’è scampo e muore durante il trasporto all’ospedale mentre il Catapano viene raggiunto alle gambe, riuscendo a sopravvivere. Nella sparatoria resta invece ferito gravemente un bambino di sette anni, Alfredo Minzoni, trovatosi solo casualmente sul luogo dell’agguato. Morirà dopo due anni di agonia nel 1975.
L’omicidio di Mario Magliulo segna un punto di svolta nella faida di Afragola: gli schieramenti a favore dell’una o dell’altra famiglia si cristallizzano e la guerra si allarga anche al di fuori del territorio afragolese. Il principale bersaglio dei Magliulo e i loro alleati diviene Luigi Giugliano (succeduto al fratello Giovanni) che, negli anni successivi, sfuggirà clamorosamente a diversi attentati. Tra questi, vi è un episodio in particolare che segna il definitivo ingresso nella faida di un’altra importante famiglia di Afragola, i Moccia, che fino a quel momento non era mai uscita allo scoperto. Ne diverranno i protagonisti principali.
Se vi è una regola da sempre osservata e rispettata dalla vecchia criminalità organizzata è quella di apparire il meno possibile. Fino ai primissimi giorni del 1976, infatti, gli affari che ruotano attorno alla famiglia Moccia restano pressoché invisibili, almeno per quanto riguarda le cronache giudiziarie. Invisibili, si, ma non a tutti. Gennaro Moccia, un ricco possidente immobiliare, era già entrato nel mirino di un sottufficiale dei carabinieri, il maresciallo Gerardo D’Arminio. Di origini salernitane, il trentasettenne D’Arminio aveva fatto «scuola» a Palermo e da due anni dirigeva la stazione dei carabinieri di Afragola. Nel marzo del 1975 aveva messo le manette al capostipite dei Moccia per detenzione illegale di armi, in seguito a una perquisizione eseguita nella sua lussuosa villa di residenza. Un arresto che, tuttavia, non aveva portato a risultati concreti, tanto che Gennaro Moccia (condannato a 20 mesi di reclusione) tornò in libertà provvisoria dopo appena sessanta giorni di carcere. Forse la casualità (o forse no) ha voluto che i destini dei due si incrociassero, tragicamente, l’anno seguente.
È il tardo pomeriggio del 5 gennaio 1976 e piazza Gianturco è ancora illuminata a festa per il periodo natalizio. Il maresciallo D’Arminio sta tornando a casa con il figlio di quattro anni, Carmine, a cui ha appena acquistato una bicicletta per l’Epifania. Una Fiat 500 si ferma a circa una decina di metri e una scarica di lupara lo prende in pieno, per poi dileguarsi rapidamente. Gerardo D’Arminio stramazza al suolo e muore sotto gli occhi di suo figlio.
Non passano neanche 24 ore e gli inquirenti sono già sulla pista giusta. Mentre Gennaro Moccia viene intercettato presso la sua casa vacanze a Roccaraso, in Abruzzo, i carabinieri si mettono sulle tracce dei suoi tre figli maggiori, Angelo, Luigi e Vincenzo, rispettivamente di 19, 18 e 17 anni.
«A orientare gli inquirenti verso i fratelli Moccia», spiega il giornalista Gianni Campili sul Corriere della Sera del 7 gennaio 1976, «oltre a elementi che non sono stati resi noti, è stato soprattutto il ritrovamento dell’auto, una 500 rossa usata per l’esecuzione del carabiniere, avvenuto stanotte alla periferia di Afragola, con ancora a bordo il fucile a canne mozze (…). La 500 è risultata intestata a uno zio dei tre fratelli Moccia».
Mentre stampa e forze dell’ordine si convincono che il D’Arminio sia stato eliminato per le sue indagini «scomode», arriva il colpo di scena. Il più giovane dei tre fratelli, Vincenzo Moccia, detto Angioletto, si costituisce nella tarda serata del 7 gennaio. Poco dopo i carabinieri arrestano anche gli altri due fratelli. Interrogato dal sostituto procuratore Martusciello, Vincenzo Moccia ammette di aver sparato in piazza Gianturco ma fornisce una versione dei fatti del tutto inaspettata. La riporta sempre Gianni Campili sul Corriere della Sera dell’8 gennaio 1973:
«Accompagnato dal suo legale, Vincenzo Moccia ha spiegato però che non aveva alcuna intenzione di uccidere il maresciallo D’Arminio. Il colpo era diretto all’uomo che si tratteneva a parlare con il sottufficiale, Luigi Giugliano, quarantotto anni, appartenente a un noto clan della zona (…). Il Moccia ha anche detto che non voleva ammazzare Luigi Giugliano: voleva solo intimidirlo, poiché era stato da lui minacciato e deriso».
Appurata la presenza di Luigi Giugliano in piazza Gianturco al momento dell’agguato (e mai del tutto chiarita, invece, la circostanza sul perché si stesse intrattenendo con il D’Arminio), la versione fornita dal Moccia non viene comunque ritenuta credibile; il giovane viene accusato di omicidio volontario e successivamente condannato a diciassette anni di reclusione.
Il «delitto dell’Epifania» segna dunque il definitivo coinvolgimento dei Moccia nella faida di Afragola: scendono in campo, però, non da gregari o come alleati occasionali dei Magliulo, bensì come «terza forza», pronti a contendersi il predominio sul territorio afragolese e non solo. Una scelta che la famiglia pagherà a caro prezzo, pochi mesi dopo, quando arriva la risposta dei Giugliano.
È il pomeriggio del 31 maggio 1976. Gennaro Moccia sta guidando la sua A112 in via Dario Fiore. Forse non si accorge di una 128 bianca che lo segue con a bordo almeno due persone. Il raid scatta non appena la sua auto si ferma a un semaforo rosso.
«È l’ennesima sanguinosa sentenza», si legge su L’Unità del 1° giugno 1976, «di una antica faida politico-mafiosa che vede coinvolte le famiglie Moccia, Giugliano e Magliulo. Gennaro Moccia è stato ucciso in via Dario Fiore, intorno alle 17. Secondo la ricostruzione fatta da un vigile urbano che era sul posto per la distribuzione dei certificati elettorali e che ha curato il trasporto all’ospedale del Moccia, quest’ultimo è stato raggiunto da numerosi colpi di pistola mentre era a bordo della sua A112. All’ospedale il Moccia è giunto cadavere. A sparare sarebbero state almeno due persone».
Nonostante la preziosa testimonianza del vigile urbano, i presunti autori dell’agguato di via Dario Fiore resteranno ignoti per diversi mesi. Ma per il sostituto procuratore Italo Ormanni vi sono pochi dubbi su chi possano essere i mandanti.
Nonostante la morte del capofamiglia e la carcerazione dei fratelli maggiori, gli affiliati del clan Moccia continuano la caccia a Luigi Giugliano. Nel novembre dello stesso anno, stando ai risultati delle indagini condotte dal nucleo investigativo dei CC guidati dal capitano Gentile, un giovane vicino ai Moccia, tale Ettore Gervasio, appostatosi nella palazzina di fronte allo studio del Giugliano, sito nella vicinissima Casoria, esplode dalla finestra diversi colpi di pistola senza, però, riuscire a colpirlo.
Dopo una tregua durata pochi mesi, la faida si riaccende il 26 settembre 1977 e a far da cornice c’è la solita piazza Gianturco. Luigi Giugliano sta conversando con alcune persone di fronte al «Circolo dei Cacciatori» quando da una 128 gialla (risultata poi rubata) partono due scariche di lupara che, però, non centrano il bersaglio. A rimetterci la vita, invece, è uno dei due attentatori, Aniello Silvestro, studente incensurato di soli sedici anni:
«Nella fuga», si legge sull’articolo del Corriere della Sera del 27 settembre 1977, «aveva tentato di travolgere un ufficiale dei vigili urbani paratosi davanti alla vettura per bloccarlo. Quest’ultimo ha evitato di essere investito e ha fatto fuoco più volte con la pistola contro l’auto che si allontanava. Un proiettile ha colpito al collo, sotto la nuca, il sedicenne mancato killer, ammazzandolo all’istante. L’auto ha sbandato paurosamente andandosi a schiantare contro un palo della luce elettrica. Dalle lamiere contorte è stato estratto il giovane già privo di vita. Il suo complice è riuscito a far perdere le sue tracce».
Verso la fine del 1977 si muovono anche le forze dell’ordine. Per l’omicidio di Gennaro Moccia, il 29 novembre, il sostituto procuratore Ormanni e il giudice istruttore Roberto D’Aiello emettono diversi mandati di cattura. Tra i mandanti figurano ovviamente i nomi dei fratelli Luigi e Antonio Giugliano, nonché del quarantaseienne Giuseppe Di Micco; tra i presunti esecutori materiali spunta curiosamente il nome di Mariano Bacioterracino, all’epoca ventenne: le immagini della sua spietata esecuzione, avvenuta davanti a un bar del rione Sanità nel 2009 e registrata da una videocamera di sorveglianza, hanno fatto il giro del mondo. Mentre si apre il processo per l’omicidio di Gennaro Moccia, il 22 dicembre 1977 si chiude quello per l’uccisione di Mario Magliulo: tutti e tre gli imputati, Biagio Barra, Aristide Esposito e Raffaele Esposito Maiello, vengono assolti per insufficienza di prove.
L’ultimo sussulto di quel sanguinoso 1977 avviene nella mattinata del 13 dicembre quando Biagio Giugliano, figlio ventunenne di Luigi, subisce un attentato mentre cammina per via Dario Fiore. Questa la ricostruzione dell’inviato de L’Unità pubblicato il 14 dicembre 1977:
«L’agguato gli è stato teso verso le 9.30. Biagio Giugliano, 21 anni, stava camminando a piedi per via Dario Fiore quando si è visto affiancare da una 128 verde dalla quale sono partiti una decina di colpi di arma da fuoco. Colpito in più parti del corpo, è riuscito a non cadere e si è trascinato sino ad una panetteria dove lavora suo cognato, Gennaro Senese: qui è stramazzato vicino a un cumulo di farina, sussurrando: “Mi hanno ucciso”. Soccorso dal cognato, è stato trasportato all’ospedale e operato».
Il sanguinoso agguato doveva servire, forse, da mero avvertimento: mentre sconosciuti ferivano il ventunenne in via Fiore, Luigi e Antonio Giugliano si trovavano in aula di tribunale per la conclusione del processo Magliulo, terminato — come si è già scritto — con l’assoluzione di tutti gli imputati.
Le sentenze giudiziarie sembrano giocare un ruolo chiave sull’andamento della faida. Nell’aprile del 1978 la I° corte d’Assise di Napoli proscioglie Antonio Giugliano dall’accusa di essere il mandante dell’omicidio di Gennaro Moccia e torna in libertà (per lo stesso reato, invece, Luigi Giugliano viene rinviato a giudizio e trattenuto in carcere). Una libertà che, nei fatti, si traduce in una sentenza di morte. Ad «eseguirla» sarà un ragazzino di 13 anni, Antonio Moccia, il quarto figlio maschio del capostipite Gennaro: il 29 maggio 1978, nel cortile del vecchio tribunale di Napoli, l’antica fortezza angioina di Castel Capuano, il giovanissimo Moccia fredda con quattro colpi di pistola Antonio Giugliano. Non avendo ancora compiuto quattordici anni, il ragazzo non è imputabile e se la cava col riformatorio.
La vendetta per l’omicidio di Gennaro Moccia si consuma definitivamente nei due anni successivi. Il 30 marzo 1979, nella ormai consueta piazza Gianturco, dei sicari uccidono Biagio Barra, ventotto anni, nipote di Luigi e Antonio Giugliano, già scampato a un attentato dinamitardo nei mesi precedenti. Il 17 ottobre 1980, invece, è la volta di Giuseppe Di Micco, detto Bombicella, considerato un piccolo boss alleato con i Giugliano. Nell’agguato resta gravemente ferito anche il 42enne Raffaele Triola:
«I due», si legge sul Corriere della Sera del 18 ottobre 1980, «erano a bordo della 127 di proprietà del Di Micco, che era al volante. Giunti in via San Marco, l’automobile è stata affiancata da un’altra 127 a bordo della quale si trovavano alcune persone che hanno sparato numerosi colpi di pistola e sono poi fuggite».
Anche Di Micco, nel gennaio dello stesso anno, era scampato a un attentato a colpi di lupara; anche lui, come il Barra, era stato assolto, in qualità di mandante, per l’omicidio di Gennaro Moccia. Entrambi sfuggirono alla legge dello Stato, non a quella della faida.
Il «fattaccio» di Castel Capuano e gli omicidi di Barra e Di Micco segnano la fine del clan Giugliano, ma non della faida di Afragola. A contendere il potere dell’emergente famiglia dei Moccia, guidata dai fratelli maggiori Angelo e Luigi e dalla madre Anna Mazza, meglio conosciuta come la «vedova nera della camorra», vi sono ancora i Magliulo. Alla guida di quest’ultimi si pone il giovane Vincenzo Magliulo, di professione ingegnere, che dal padre aveva ereditato una discreta abilità nel muoversi sia a livello politico che istituzionale: ricoprirà la posizione di assessore alla pubblica istruzione nonché di rappresentante per la DC nella Unità Sanitaria Locale di Afragola.
«Vincenzo Magliulo», scrive Vittorio Mazzone, storico capogruppo del PCI afragolese di quegli anni, nel blog centoannipci.it, «nei mesi del dopoterremoto dell’80 presidiava ogni mattina il Comune di Afragola, con l’intento di affermarsi come indiscusso padrone del campo. Era presente a tutti i consigli comunali, dove solo i comunisti denunciavano apertamente il cancro della camorra e la necessità di combatterla, pena la sconfitta di qualsiasi ipotesi di progresso».
Per i Moccia, insomma, un avversario scomodo. Negli anni Ottanta, inoltre, non vi sono soltanto i soldi per affrontare l’emergenza abitativa di migliaia di terremotati: tra il 1983 e il 1985 la zona di Napoli (e in particolare l’area del comune di Afragola) diviene tra le possibili candidate del nuovo parco divertimenti della Disney Company. In sostanza, una grande Disneyland nel napoletano, un affare colossale che avrebbe potuto portare ad Afragola centinaia di miliardi di lire. Ovviamente si trattò di una candidatura effimera, abortita sul nascere per l’incompatibilità territoriale e, soprattutto, per il concreto pericolo di infiltrazioni criminali nella gestione dei soldi pubblici.
Per buona parte del decennio il progetto del parco divertimenti, seppur ridimensionato, resta comunque in ballo, per poi sfumare definitivamente nel 1988, in concomitanza col duplice omicidio dei due consiglieri comunali democristiani, Paolo Sibilio e Francesco Salzano, avvenuto nella notte tra l’11 e il 12 marzo. Nella giunta locale, i due consiglieri avevano recentemente assunto il delicato ruolo di controllo e gestione di alcuni miliardi destinati alla ricostruzione delle case per i terremotati.
«Nessuno, purtroppo», scrive il giornalista Renato Caprile su La Repubblica il 12 marzo 1988, «ha elementi per poter collegare in maniera certa la morte dei due consiglieri DC con la storica rivalità tra i clan di Afragola. Di sicuro si sa solo che Paolo Sibilio, 39 anni, medico, titolare di un laboratorio di analisi, proprietario di una farmacia, famiglia assai ricca, era amico di uno dei Magliulo. Di quello che, insomma, viene considerato il capo: Vincenzo, ingegnere, ex assessore anche lui al Comune di Afragola».
La sanguinosa faida tra i Moccia e i Magliulo, dunque, non risparmia neanche gli esponenti della classe politica. Già il 29 agosto del 1983 era caduto in un agguato Antonio Uzzauto, assessore comunale del PSDI, considerato vicino al clan Moccia. Tre anni dopo, il 3 luglio 1986, viene gambizzato il nipote di Uzzauto, Salvatore Caputo, detto Usain, anche lui esponente del partito socialdemocratico. Caputo, ribattezzato dalla stampa napoletana come il «senatore del clan Moccia», verrà ucciso in un agguato nel maggio del 2017, all’età di 72 anni. Secondo il collaboratore di giustizia Salvatore Scafuto, l’ordine di eliminare Usain sarebbe partito proprio dai Moccia, con i quali Caputo aveva smesso di collaborare.
«Qui si muore a ritmi vertiginosi», commenta il giornalista Renato Caprile nel succitato articolo di Repubblica. Il duplice omicidio di Sibilio e Salzano rappresenta il punto di arrivo della pluridecennale faida di Afragola che nel biennio 1987-88 era ormai giunta alla resa dei conti. Il 3 maggio 1987 viene ucciso Angelo Magliulo, 35 anni, fratello di Vincenzo. L’omicidio avviene in un contesto piuttosto particolare, presso il piccolo stadio di Afragola, davanti a circa mille spettatori, durante l’ultima partita di campionato della quadra di calcio «Città di Afragola», di cui il Magliulo era il presidente.
«L’uomo», riporta Fulvio Milone, inviato de La Stampa, il 4 maggio 1987, «attraversa il campo di calcio, tra le ovazioni dei tifosi, almeno mille, che affollano il piccolo stadio di Afragola. Alza le braccia in segno di saluto, sorride mentre si avvia verso la tribuna. Improvvisamente due giovani in jeans e t-shirt corrono verso di lui; hanno le pistole in pugno, non esitano ad aprire il fuoco. Almeno 20 proiettili lacerano le carni dell’uomo che si abbatte sull’erba, mentre sullo stadio cala un silenzio di morte. In mille hanno assistito al delitto, ma in mille diranno alla polizia di non aver visto né udito nulla».
L’efferato delitto del Magliulo verrà vendicato nel giro di pochi mesi. Un fratello per un altro fratello. Vincenzo Moccia, Angioletto, il terzo figlio che nel 1976 si autoaccusò dell’omicidio «involontario» del maresciallo D’Arminio, dal marzo del 1987 si trovava in regime di libertà vigilata; rispetto agli altri due fratelli, Angelo e Luigi, entrambi latitanti, era sicuramente l’obiettivo più vulnerabile. Nella mattinata del 21 novembre 1987, mentre è in auto con il 23enne Raffaele Ciuccio, due Fiat Uno lo bloccano alla periferia di Casoria. Diversi colpi di pistola e una scarica di mitra non gli lasciano scampo: il 28enne Vincenzo, il figlio prediletto di Anna Mazza, muore presso l’ospedale Nuovo Pellegrini; Ciuccio viene ricoverato in gravi condizioni.
L’omicidio di Angioletto scatena l’ira del clan. Neanche quattro giorni dopo, all’alba del 25 novembre, un commando di quindici persone irrompe nella casa di un ragazzo di 25 anni, Giuseppe Fusco, pregiudicato vicino al clan Magliulo. È un’esecuzione in piena regola, spietata. Questa la ricostruzione dell’agguato riportata dal giornalista Ermanno Corsi su Repubblica il 25 novembre 1987:
«Per ammazzare un boss hanno assediato in quindici, all’alba, un intero quartiere. Poi un commando di tre irrompe nell’abitazione presa di mira, in un vecchio edificio del centro di Afragola. Superano facilmente lo sbarramento di alcuni familiari e penetrano nella camera di Giuseppe Fusco, 25 anni, pregiudicato. Non gli danno nemmeno il tempo di guardarsi intorno. Lo trascinano giù dal letto e, in pigiama, lo spingono per le scale. Lo caricano su una macchina e lo portano alle spalle di una casa colonica nelle campagne di Pomigliano d’Arco. Uno dei killer che lo spinge contro il muro gli dice con voce dura: “è giunta la tua ora, adesso ti ammazziamo”. Gli strappano il pigiama. Gli legano mani e piedi e lo crivellano di colpi. Accanto al cadavere piantano nel terreno una croce di legno».
La faida si conclude, di fatto, con l’arresto dello stesso Vincenzo Magliulo, intercettato dalle forze dell’ordine a Santa Marinella, nei pressi di Civitavecchia, nel luglio del 1989. Angelo Moccia si costituisce nel 1992, dopo dieci anni di latitanza. Enzuccio, come viene chiamato dai suoi familiari, confessa decine e decine di omicidi ma non si pente: sull’esempio dei molti terroristi conosciuti in carcere, sceglie la via della dissociazione. Una scelta che non ha mai convinto del tutto giudici e opinione pubblica.
«È l’escamotage», scrive Vincenzo Iurillo su Il Fatto Quotidiano il 15 aprile 2021, «grazie al quale il clan Moccia si è reso impermeabile alle tempeste giudiziarie dagli anni ’90 in poi. Giocando ai tavoli dello Stato e delle mafie con le carte truccate. Offrendo agli inquirenti le briciole di generiche e strumentali dichiarazioni autoaccusatorie su reati di sangue e di violenza, stando attenti a non dire una parola sulle collusioni con la politica, sul reimpiego dei capitali illeciti nell’economia pulita, sui collegamenti con le altre cosche non coinvolte nella scelta della dissociazione. Poco, troppo poco, per fornire un reale contributo alla giustizia».
Se, nel panorama criminale campano, i clan Giugliano e Magliulo possono considerarsi «estinti», lo stesso non può certo dirsi dei Moccia, usciti «vincenti» dalla pluridecennale faida di Afragola e quantomeno «indenni» dalla più grande guerra di camorra tra la NCO di Raffaele Cutolo e la Nuova Famiglia, protrattasi per buona parte degli anni Ottanta, sfruttando dapprima i buoni rapporti con la fazione cutoliana, per poi schierarsi con Carmine Alfieri e affiliati negli anni successivi.
Nonostante la condanna all’ergastolo, la dissociazione ha portato ad Angelo Moccia alcuni «benefici»: dopo ben 23 anni di carcere, di cui 8 trascorsi in regime di 41 bis, ha ottenuto la libertà nel 2015. In un’intervista rilasciata al giornalista Gigi Di Fiore il 20 dicembre 2019, per il quotidiano Il Mattino, Angelo Moccia ha dichiarato a più riprese di aver chiuso col suo passato: «Ho pagato il mio debito con la giustizia. Il passato è parte di me, ma vorrei ora vivere una vita davvero da uomo libero anche se incontro ostacoli».
Tuttavia, le inchieste giudiziarie dei nostri giorni sembrano raccontare una realtà ben diversa e il nome dei Moccia viene speso ancora con una certa riverenza negli ambienti che rasentano il mondo della criminalità organizzata; in sostanza, un nome che fa ancora paura. «Il mio passato mi perseguita e non per colpa mia» sostiene Enzuccio nella suddetta intervista. Recentemente, il neo ministro della giustizia Carlo Nordio ha disposto per i fratelli Angelo e Luigi Moccia, su richiesta del pool anticamorra di Napoli, il regime di carcere duro. Sulla presunta preminenza del clan in ambito criminale, dovrà ancora pronunciarsi la giustizia.