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Ma allora? Quando, come e perché i servizi segreti entrarono in azione nel caso Orlandi? Domande che sorgono dopo l’audizione di Pietro Meneguzzi davanti alla Commissione Parlamentare di Inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori lo scorso 30 maggio. Secondo l’AGI (Agenzia Giornalistica Italia), il cugino della cittadina vaticana sparita a Roma il 22 giugno 1983 ha detto: «Si presentarono in Vaticano Giulio Gangi (007 del Sisde, ndr) e due suoi colleghi. Gangi lo conoscevo per via del mio lavoro alla Camera e lui mi aveva sentito parlare della scomparsa di Emanuela, ma non è vero, come pure è stato detto più volte, che conoscesse già da prima mia sorella Monica, che tra l’altro allora aveva solo 15 anni, molti meno di lui. Secondo me si è confuso, l’ho ribadito anche in Procura (di Roma, ndg) di recente».
Parole che spiazzano e disorientano. Perché in netto contrasto con la versione conosciuta fino a oggi circa il ruolo della nostra intelligence nella vicenda. Ovvero che, nei giorni seguenti la scomparsa, sia stato solo Gangi a intervenire, a titolo personale perché già amico di Monica Meneguzzi, con il Sisde (l’allora servizio segreto civile) a entrare ufficialmente in scena soltanto dopo il primo appello di Giovanni Paolo II (3 luglio 1983). Un resoconto, presente nella sentenza di archiviazione della prima inchiesta giudiziaria sulla vicenda, a cura della giudice Adele Rando (19 dicembre 1997), scaturito dalle deposizioni dello stesso Gangi e di altri ex funzionari del Servizio.
«Ho cominciato a seguire la vicenda inerente la scomparsa di Emanuela Orlandi a titolo esclusivamente personale in quanto già dall’anno precedente avevo intrattenuto un rapporto di frequentazione e di amicizia con Monica Meneguzzi, cugina della scomparsa, che avevo conosciuto per il tramite di Marino Vulpiani, a Torano di Borgorose […]. All’inizio, ripeto, il mio aiuto venne offerto a titolo personale in quanto ero rimasto colpito dalla notizia della scomparsa della ragazza che avevo avuto tramite organi di stampa, anche se all’epoca facevo già parte del SISDe». Così parlò Gangi, fino ad allora mai sentito dai giudici, il 19 luglio 1993.
Una versione ribadita anche il 25 gennaio 1994 – «Ho iniziato a occuparmi del caso Orlandi subito dopo la scomparsa della Emanuela, circa due o tre giorni dopo, a titolo personale» – e il 23 ottobre 2008, durante la seconda inchiesta giudiziaria sulla vicenda: «Nel luglio-agosto 1982 incontrai Monica Meneguzzi […] nel giugno ‘83, leggendo il giornale, appresi del sequestro Orlandi; il mio amico Marino Vulpiani mi accompagnò a casa Orlandi».
Torano di Borgorose è un paese del reatino ai confini con l’Abruzzo, dove gli Orlandi e i Meneguzzi erano soliti trascorrere gran parte delle vacanze estive. L’arrivo di Gangi e Vulpiani in Vaticano, anche per i ricordi di Ercole Orlandi (padre di Emanuela), avvenne la sera del 26 giugno 1983, poco prima della mezzanotte. Circostanza confermatami anche da Gangi nella nostra intervista dell’ottobre 2014. Nella quale precisò come Vulpiani fosse uno studente di Medicina, non appartenente ai Servizi, e come nelle settimane precedenti la sparizione di Emanuela una voce negli ambienti del Sisde avesse connesso i casi di minori scomparse con storie di festini e orge sataniche.
A ogni modo, appaiono evidenti le differenze tra i suoi ricordi e quelli di Pietro Meneguzzi. Secondo il quale, Gangi avrebbe conosciuto sua sorella Monica dopo la sparizione di Emanuela (circostanza confermata dalla diretta interessata anche in Procura lo scorso febbraio). Ma soprattutto – come appreso da ambienti della Commissione – si sarebbe presentato a casa Orlandi perché aveva sentito parlare della vicenda dallo stesso Meneguzzi, di cui era amico per il comune impiego alla Camera, dove lo 007 avrebbe stazionato in qualità di assistente parlamentare dell’onorevole del Partito Repubblicano, Mario Dutto.
Anche qui, però, emerge un’altra divergenza. Gangi mi disse infatti che la collaborazione con Dutto terminò nel 1979, per poi passare alle dipendenze di un’altra foglia d’edera: Vittorio Olcese. E allora: come stanno davvero le cose? Tra Giulio Gangi e Pietro Meneguzzi, chi ha ragione?
Ma le differenze non sono finite. Perché Pietro Meneguzzi, alla Commissione parlamentare, ha raccontato anche come Gangi (scomparso nel 2022) sarebbe arrivato a casa Orlandi quarantotto ore dopo la scomparsa (dunque non il 26, ma il 24 giugno) e in compagnia non di una, ma di altre due persone. Il già citato Vulpiani e Gianfranco Gramendola. Alias dottor Leone, il responsabile della squadra del Sisde che si occupò della vicenda. Che però alla giudice Rando, il 27 gennaio 1994, negò la conoscenza di Vulpiani – «Non conoscevo il Vulpiani, se non per il tramite di Gangi che me ne parlava, riferendomi tra l’altro che il Vulpiani era stato a Torano e che come lui aveva conosciuto la famiglia Orlandi e Meneguzzi» – e accreditò di fatto la versione di Gangi: «Ribadisco di aver fatto parte del gruppo operativo del SISDe che si occupò della vicenda Orlandi quando la stessa assunse connotati particolari a seguito dell’appello del Pontefice e comunque dopo che la famiglia ebbe pubblicati i manifesti della ragazza. Il Gangi aveva intrapreso, a titolo personale, alcune iniziative in quanto conosceva o credo fosse amico della famiglia, tanto che per questo mi risulta essere stato rimproverato dato che non aveva informato il Servizio di tali iniziative».
Una di queste fu l’avventata incursione al residence Mallia, di cui vi abbiamo già parlato. E per la quale Gangi si prese una dura reprimenda dal suo superiore, il dottor Giorgio Criscuolo, nel 1983 tra i dirigenti del Servizio. Anche lui convocato da Rando, il 17 dicembre 1993 mise a verbale che il «SISDe cominciò a occuparsene in termini istituzionali soltanto dopo la pubblicazione dei manifesti che annunciavano la scomparsa della ragazza». Parole anticipatrici di quelle poc’anzi trovate in Gramendola, sul cui ingresso nella vicenda affermò che «quando intervenne […] lo fece istituzionalmente e quindi su nostro ordine». Non così Gangi: «Mi risulta sia intervenuto subito dopo il fatto a titolo personale in quanto amico dalla famiglia».
Le contrapposizioni tra gli ex appartenenti al Sisde, giunte un decennio dopo il fatto, e Pietro Meneguzzi, arrivate invece dopo ben quarant’anni, inducono a domandarsi: perché mai un servizio segreto avrebbe avuto tanto interesse informale per una minorenne che non era ritornata a casa e di cui la stampa si era occupata con un trafiletto (Il Tempo, 24 giugno 1983), al punto da mandare più di un uomo a casa sua? Passi per Gangi, amico di famiglia al pari di Vulpiani, ma perché mai avrebbe dovuto intervenire subito anche una figura estranea a queste dinamiche come Gramendola?
Anche perché la natura del caso Orlandi non era di competenza dei servizi segreti. Lo disse, sempre alla giudice Rando, il dottor Francesco Paolo Calamaro, di stanza al Sisde nel 1983, quando si occupava di terrorismo di destra. «Non avevo ritenuto opportuno avviare alcuna iniziativa proprio perché sembrava un fatto di ordinaria amministrazione e comunque non di competenza dei Servizi». Ma come seppe di Emanuela? Proprio grazie a Gangi, che in origine faceva parte della sua squadra: «Subito dopo l’appello del Pontefice il mio dirigente, dott. Criscuolo affidò le attività operative al dott. Gramendola che coordinava la squadra alla quale nel contempo era passato anche il Gangi: Gangi, infatti, faceva parte della squadra da me coordinata ed era stato il primo a parlarmi della scomparsa nell’immediatezza del fatto quando la stampa non ne aveva ancora parlato».
Questa precisazione temporale è estremamente importante. Come scritto, i giornali accennarono alla scomparsa il 24 giugno. Se fosse questa data il riferimento di Calamaro, significherebbe che Gangi avrebbe saputo della sparizione di Emanuela fin da subito. Una ricostruzione che, se confermata, riattualizzerebbe l’audizione di Pietro Meneguzzi (Gangi a casa Orlandi a quarantott’ore dal fatto) e sconfesserebbe quella dello stesso 007.
Ma la deposizione di Calamaro merita attenzione anche per un altro motivo. Perché fa capire come negli ambienti del Sisde la notizia della scomparsa di Emanuela Orlandi girasse fin dall’inizio. Un particolare non da sottovalutare. Perché non si è mai capito che cosa abbiano fatto i Servizi prima del 7 luglio 1983, quando cioè assunse la gestione ufficiale del caso: «Il Direttore della Divisione viene incaricato dal Direttore del Servizio perché siano raccolti elementi informativi di merito e sia esaminata la possibilità di fornire la miglior collaborazione all’Arma territoriale. Conseguentemente, vengono attivati nella stessa serata i direttori dei tre Centri CS di Roma con l’incarico di sensibilizzare le fonti di settore, raccogliere elementi informativi e riferire nelle prime ore dell’indomani», si legge nella loro nota trascritta inedita in Atto di Dolore.
Nel libro è riportato anche un altro appunto Sisde, relativo all’orario del presunto incontro tra Emanuela Orlandi e il falso uomo Avon e agli atti della seconda inchiesta giudiziaria. Risale però al 5 luglio. Ci si chiede: nei giorni precedenti arrivò altro? Se sì, che cosa? Secondo Criscuolo, niente di significativo: «Le prime notizie valutate rilevanti o utili sono state raccolte nei documenti in tempi successivi al primo appello del Papa» (3 luglio, ndg). Gramendola affermò che proprio Criscuolo gli aveva affidato «l’incarico di fotografare la situazione di quei giorni, informando l’ufficio di tutte le attività svolte allo scopo di ricostruire le ultime ore di Emanuela prima della scomparsa». Ma non privilegiò «nessuna pista specifica, neanche quella cosiddetta politico-terroristica» e nel 1985, esauriti tutti gli spunti di raccolta informazioni senza risultati, fu destinato dai suoi superiori ad altre vicende.
Tra il 1993 e il 1994, la giudice Rando aveva acquisito la documentazione prodotta dal Sisde e dal Sismi (l’allora servizio segreto militare), ma la restituì perché non fu possibile «acquisire alcun utile spunto di indagine». Una parte, ridotta, l’ho trovata negli atti dell’inchiesta sull’attentato al Papa del giudice Rosario Priore. Altra fu messo a disposizione dei magistrati del caso Orlandi nel 2013. Ma non tutta, come scritto dagli stessi Servizi nella premessa di consegna del materiale. Doveroso a questo punto che Procura di Roma e Commissione Parlamentare la rilevino in toto. Per definire una volta per tutte la loro attività. Come l’installazione del loro registratore al telefono di casa Orlandi. Un nuovo motivo di contrasti tra Pietro Meneguzzi e i nostri 007. Secondo il primo, fin da subito fu un congegno sofisticato installato dal Sisde. Secondo Gangi, no: «Mario Meneguzzi mise infatti a disposizione un registratore a cassette che permise la registrazione delle prime telefonate. Solo successivamente, quando la scomparsa di Emanuela fu oggetto dell’appello del Pontefice e quindi quando ufficialmente il SISDe cominciò a interessarsi del caso ricordo che il piccolo registratore dei Meneguzzi fu sostituito da uno professionale a bobine presumo messo a disposizione dallo stesso Servizio o dai Carabinieri». Dello stesso avviso anche Gramendola: «Quando siamo intervenuti sul caso Orlandi, provvedemmo a sostituire il registratore improvvisato dal Meneguzzi con un altro più sofisticato».
Anche questa messa a fuoco non è di poco conto. Perché a quell’apparecchio giunsero le chiamate dei famigerati Pierluigi (25 e 26 giugno) e Mario (28 giugno). Due telefonisti particolari che di fatto lanciarono la pista dell’allontanamento volontario. Emanuela Orlandi, da loro ribattezzata Barbara o Barbarella, se ne sarebbe andata da casa perché annoiata della sua vita. Una frottola per depistare. Ma attuata mescolando informazioni vere e fasulle sul conto della ragazza, specchio di un’abilità da professionisti dell’intelligence adusi alle intossicazioni informative. Dei mitomani occasionali non avrebbero mai fatto tre telefonate nel giro di ventiquattr’ore col rischio di essere scoperti, come nel caso di Pierluigi. Al corrente di particolari fino a quel momento noti soltanto negli ambienti frequentati dalla vittima (Vaticano, famiglia) e presenti nella manciata di atti prodotti dalla Squadra Mobile. Come faceva a conoscerli? E chi c’era, con Mario, a mormorare «de’ più, de’ più», mentre dall’altra parte dell’apparecchio lo zio di Emanuela gli chiedeva l’altezza di Barbarella?
Quarantuno anni dopo, l’audizione di Pietro Meneguzzi ha addensato nubi sull’operato dei Servizi nel caso Orlandi e sui primi giorni dopo la scomparsa. Alla Procura e alla Commissione Parlamentare il compito di spazzarle via. Attraverso la documentazione custodita a Piazza Dante, confronti e audizioni dei soggetti coinvolti ancora in vita. Per capire quale versione sia giusta e quale sbagliata. Se si vuole la verità, l’orizzonte deve essere limpido. E soprattutto non si deve temere nulla.