Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
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di Gianluca Falanga
La Dichiarazione di Venezia del giugno 1980 viene ricordata come un passaggio decisivo negli sforzi per trovare una soluzione alla questione palestinese. E in una certa misura indubbiamente lo fu, in proiezione futura si delinearono parametri che ritroviamo nel percorso diplomatico degli anni Novanta. Sotto la presidenza di turno italiana, il Consiglio europeo riuscì nell’impresa di scostarsi dalla linea americana rimproverando agli accordi di Camp David del 1978 di trascurare i legittimi diritti del popolo palestinese, a cominciare da quello all’autodeterminazione. Una giusta soluzione del conflitto mediorientale, così il documento approvato dagli allora nove membri della Cee, non poteva prescindere dal coinvolgimento dell’Olp nei negoziati di pace. I governi euro-occidentali si erano spinti molto avanti sulla questione dello status internazionale dell’Olp (attirandosi le proteste del governo israeliano, che paragonò la Dichiarazione dei Nove all’accordo di Monaco del 1938), ma non vi fu il pieno riconoscimento ufficiale come unico legittimo interlocutore auspicato dalla leadership palestinese.
Venezia doveva segnare la svolta, il trionfo del corso diplomatico abbracciato da Arafat nel 1973/74. E invece subito dopo troviamo Damasco. In un comunicato congiunto, approvato il 17 giugno 1980 al termine di una riunione per discutere gli esiti del Consiglio europeo, il presidente siriano Assad e i capi della “resistenza” palestinese Arafat (Olp/Fatah), Habbash (Fplp) e Hawatmeh (Fdlp), espressero «la necessità di una revisione fondamentale della strategia di azione araba nei confronti della cospirazione sionista-americana-Sadat contro la nazione araba e la sua causa principale, la causa della Palestina» e, convenendo sull’importanza di consolidare le relazioni di collaborazione con il campo socialista guidato dall’Urss, si discussero le misure operative per «annullare l’accordo di Camp David». Dal loro punto di vista, a parte le belle parole, Venezia non contribuiva a niente di nuovo, nessun passo concreto in merito al ritiro degli israeliani dai territori occupati dal 1967 né in favore della costituzione di uno Stato palestinese indipendente. La colpa di ciò era attribuita agli americani, le cui pressioni impedivano agli europei di determinare liberamente la loro politica mediorientale.
Damasco ci fa intravedere la complessità e le contraddizioni di un quadro che a decenni di distanza riesce ancora difficile da decifrare in tutte le sue pieghe per la limitata disponibilità delle fonti, specie quelle riguardanti gli aspetti più delicati della politica occulta e della diplomazia segreta. Le fonti diplomatiche, come i dispacci delle missioni europee da Beirut, le carte dell’archivio Kreisky conservate a Vienna o i cablogrammi delle ambasciate Usa in Europa, ci raccontano di una delusione registrata dagli osservatori europei in alcuni settori dell’articolata galassia palestinese e convergono in sostanza con le testimonianze di esponenti di Fatah come Abdallah Frangi, rappresentante Olp in Germania Ovest, che lamentavano l’inefficacia dell’iniziativa europea. La Dichiarazione di Venezia prevedeva un package deal, il presupposto era la disponibilità di israeliani e palestinesi a riconoscersi reciprocamente il diritto all’esistenza, ma Israele continuava a considerare l’Olp un’organizzazione terroristica e Arafat non voleva sprecare la carta del riconoscimento dello Stato d’Israele. Venezia non sbloccava l’impasse che, nel campo palestinese, rafforzava i gruppi radicali dentro e fuori dall’Olp, ostili alla strategia di Arafat e che insistevano sulla necessità della lotta armata, forze che rispondevano agli interessi dei loro sponsor, i regimi iracheno, siriano e libico, i quali a loro volta le usavano per influenzare e condizionare il movimento palestinese.
Questo era il contesto che, alle soglie degli anni Ottanta, fece registrare una netta ripresa del terrorismo internazionale. Ma con almeno due importanti differenze rispetto alla prima ondata di proiezione internazionale del terrorismo palestinese nei primi anni Settanta. La prima: la permanente ambiguità di Arafat non era più frutto della strategia binaria che in passato aveva abilmente alternato e combinato terrorismo e diplomazia, bensì risultava dalla seria difficoltà a mediare fra interessi eterogenei e divergenti, a governare la storica frammentazione del movimento palestinese e a consolidare i risultati ottenuti sul fronte diplomatico, in una situazione nella quale le linee di faglia fra moderati e radicali non erano più solo fra organizzazioni diverse ma anche interne al suo stesso partito Fatah. La seconda differenza era che il terrorismo che si annunciava sul finire degli anni Settanta era sempre più un terrorismo di Stato, che non aveva più bisogno di impressionare per richiamare l’attenzione internazionale sulla questione palestinese, gli attentati erano messaggi indirizzati ai governi e che solo i governi e i loro apparati di sicurezza sapevano decifrare, il loro significato restava invece per lo più oscuro all’opinione pubblica. I regimi arabi sponsor di quel terrorismo si servivano della questione palestinese, talvolta alleati, più spesso l’uno contro l’altro, per prevalere nelle loro rivalità regionali oppure punire ed eliminare la dissidenza, ma anche contro Israele, esponenti arabi e palestinesi moderati e Stati come gli Usa, la Francia, la Germania Ovest, l’Austria e l’Italia, impegnati sullo scenario mediorientale a smorzare e contenere il terrorismo tramite concessioni e mediazioni.
Fra Camp David, Venezia e Damasco troviamo la crisi profonda della leadership di Arafat. Tale debolezza lasciava spazi di dispiegamento dell’azione a soggetti ed apparati influenti come il servizio segreto dell’Olp Jihaz al-Rasd, diretto dal numero due di Fatah Salah Khalef, meglio noto col nome di guerra Abu Ayad. Quest’ultimo era stato il fautore principale della strategia di internazionalizzazione del terrorismo palestinese ovvero dell’impiego calcolato del terrore combinato all’azione politica, fase coincidente con la parabola di Settembre Nero, esperienza che venne infatti immediatamente liquidata nel 1973 per passare al nuovo corso negoziale. Ma Abu Ayad era anche il padrino della diplomazia segreta con gli apparati di sicurezza internazionali, che permise al movimento palestinese di sfruttare al meglio le condizioni del mondo diviso della Guerra fredda, operando a cavallo fra i blocchi. Alla fine degli anni Settanta, Abu Ayad e suoi uomini di fiducia collaboravano contemporaneamente con l’antiterrorismo della Stasi tedesco-orientale e il Bundeskriminalamt della Germania Ovest, con il Kgb di Andropov e il capocentro dell’intelligence italiana a Beirut, il colonnello del Sismi Stefano Giovannone. Nello stesso periodo, il capo del servizio segreto dell’Olp lanciava a mezzo stampa minacce di attentati e ritorsioni all’indirizzo di governi occidentali per la loro ambivalenza di fronte alla questione palestinese, gli stessi governi coi quali dialogava e collaborava osservando patti di non belligeranza, inoltre era autore di pesanti interventi depistanti delle indagini di stragi come quelle alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 e all’Oktoberfest di Monaco del 26 settembre 1980.
Intanto, una catena di attentati minori, taluni falliti o sventati dall’arresto di commando palestinesi tutti riconducibili al Rasd di Abu Ayad, nella primavera del 1979 ben cinque solo fra Olanda, Germania e Austria, allarmarono le intelligence europee su entrambi i versanti della Cortina di ferro, che presagirono l’imminenza di una nuova offensiva su scala internazionale del terrorismo arabo-palestinese. La Germania Est, pur temendo di venire usata come avamposto per operazioni di gruppi radicali palestinesi contro obiettivi in Occidente, garantì a quest’ultimi protezione e notevoli libertà di manovra, avanzando negli anni Ottanta a principale santuario del terrorismo internazionale in Europa. Gli archivi della Sed ci dicono che, in sintonia col Cremlino, Honecker si fece latore di un duro rimprovero ad Arafat per il suo tentativo di “sfondamento (diplomatico) a ovest”. La progressiva disaffezione del regime di Berlino Est verso il corso giudicato troppo filo-occidentale di Arafat nel biennio 1978-80 si manifestò nella decisione tedesco-orientale di investire maggiormente nell’evoluzione “progressista” (cioè filosovietica) dell’Olp, instaurando rapporti ufficiali, di collaborazione e sostegno materiale e finanziario alle principali formazioni politiche in opposizione a Fatah all’interno dell’Olp: Fdlp, Fplp, i baathisti filosiriani delle forze di al-Saiqa e il piccolo Partito comunista palestinese, costola di quello giordano. Negli anni a seguire, continuando a pretendere da Arafat di chiarire da che parte stesse, di dare dimostrazione di antimperialismo contro il blocco occidentale, si pensò seriamente alla sua sostituzione con un elemento che desse maggiori garanzie sul fronte dell’allineamento al campo socialista. Forse proprio Abu Ayad?
Non è chiaro se il capo del servizio segreto dell’Olp rilanciò il terrorismo nel teatro europeo venendo in aiuto ad Arafat, per riportare movimento nel processo politico bloccato, oppure fosse invece il capo segreto di un’opposizione alla linea moderata dello stesso leader palestinese, che aveva condotto il movimento in un vicolo cieco. Comunque sia, Abu Ayad fu il regista dietro l’operazione Carlos, la cui Organizzazione dei rivoluzionari internazionali, sigla Ori, sarà una delle compagini protagoniste di una stagione segnata dal terrorismo internazionale, che conserva ancora oggi il carattere di un black box tutto da indagare. La Stasi, questo è sicuro, conosceva molto bene la gestazione dell’organizzazione di Carlos. I nomi in codice delle operazioni dell’apparato di sicurezza della Germania Est sono raramente misteriosi, talvolta inutilmente originali, spesso banali. Nel caso di Separat, il nome assegnato all’operazione di marcatura stretta dell’indesiderato terrorista venezuelano, sorvegliato praticamente a ogni passo per oltre cinque anni, fino a che tolse il disturbo, preferendo abbandonare l’Europa orientale, forse si riferiva solo al fatto che il pupillo di Haddad si era messo in proprio, forse però esprimeva anche un ragionamento sull’entità diversa, nuova, appunto separata dell’Ori rispetto al panorama terroristico collegato alla galassia palestinese.
Attraverso le fonti Patriot e Salamander interne a Fatah (ma la cosa trovava corrispondenza anche nelle informative scambiate col servizio ungherese), la Stasi era venuta a conoscenza di un convegno segreto tenutosi a Dubrovnik, in Jugoslavia, nel settembre 1978, convocato dai dirigenti del Rasd e alla quale avrebbero partecipato anche esponenti di gruppi europei della lotta armata e lo stesso Carlos, al quale si discussero le linee guida per un rilancio del terrorismo antimperialista in Europa. Contestualmente e questo e ad altri incontri successivi presso la centrale Olp a Beirut, Abu Ayad e Abu Daud, ovvero gli architetti e registi della strage alle Olimpiadi di Monaco 1972, decisero di appaltare a Carlos l’organizzazione di una struttura integrata clandestina, da impiantare in Europa orientale, che operasse (parole della Stasi) «come braccio armato coperto per la realizzazione di operazioni terroristiche [non rivendicabili] dei servizi segreti palestinese, iracheno, libico e siriano», ovvero del consorzio di forze ostili a Camp David e alle ingerenze occidentali nel mondo arabo. Per questo motivo, Carlos non aveva semplicemente rapporti coi regimi arabi filosovietici e i loro servizi segreti, come è noto, l’organigramma dell’ORI era composto di militanti europei, soprattutto tedeschi e svizzeri già inseriti nel network di Haddad, qualche sudamericano in orbita cubana (invano le divisioni antiterrorismo della Stasi, del StB cecoslovacco e della Sicurezza di Stato ungherese tenteranno di concerto di convincere i compagni della Dirección de Inteligencia castrista ad attirare il baricentro dell’Ori via dall’Europa verso l’America latina) e una schiera di uomini dei servizi arabi pienamente organici all’organizzazione.
L’idea di recuperare uno schema strategico e operativo precedentemente collaudato con Settembre Nero esaurì abbastanza presto il suo fascino e la sua forza, come quasi impossibile fu tenere insieme i regimi siriano, iracheno e libico nel Fronte della Fermezza e del Rifiuto. Già nell’estate 1979 la Stasi registrò l’insofferenza di Carlos, geloso della propria autonomia, a sottomettersi alla direzione del Rasd. E in colloqui con Abu Hisham, uomo di Abu Ayad nei ranghi dell’Ori, fu deciso di scioglierne l’organicità all’Olp con questa formula: Carlos era ancora disposto a collaborare e operare per l’Olp, dando il proprio contributo alla realizzazione di determinate operazioni «su commissione e dietro pagamento, utili alla causa palestinese».