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Com’è stato passare venti ore da solo a tu per tu con Videla, il “demone maggiore”

Redazione Spazio70

"Perché non intervistarlo? Non era forse stato il protagonista principale della tragedia argentina degli anni '70? E se avessimo l'opportunità di intervistare Stalin, Fidel Castro, Pinochet, Hitler o Mussolini, non lo faremmo?"

Al giornalista argentino Ceferino Reato, nostro collaboratore, abbiamo chiesto di scrivere poco tempo fa un primo articolo sui contenuti emersi nelle nove interviste compiute a Jorge Rafael Videla, successivamente confluite nel libro “Disposición Final”.

In questa seconda parte abbiamo invece proposto a Reato di voler condividere con i nostri lettori anche le sensazioni sperimentate e le riflessioni scaturite dagli incontri con l’ex dittatore, oltre agli attacchi personali subiti per il solo fatto di aver dato “diritto di parola” a uno dei personaggi più nefasti dell’Argentina del Ventesimo secolo. Da qui l’accusa, già lanciata ingiustamente allo scrittore Ernesto Sabato, di sostenere la “teoria dei due dèmoni” che vedrebbe equiparata moralmente la violenza repressiva del terrorismo di Stato a quella della guerriglia più audace degli anni ’70.

 

di Ceferino Reato *

 

Le nove interviste — venti ore in totale — con il dittatore più sanguinario della storia argentina, il generale Jorge Rafael Videla, spogliato dei gradi e rinchiuso a vita per crimini contro l’umanità, risvegliarono in me una sinfonia di sensazioni alle quali risposi come potei. Da un punto di vista più generale, cercai di mantenere una prudente distanza di sicurezza con l’intervistato che — continuo a pensare — permette al giornalista di conservare il proprio ruolo. Si tratta, ritengo, di fare e rifare domande, sempre rimanendo focalizzati sui lettori, per far luce su fatti già accaduti che in Argentina continuano a influire sulle vite di molti.

Può essere che abbia esagerato un poco con quella “prudente distanza di sicurezza con l’intervistato”. Ricordo infatti che dopo i primi incontri con i colleghi, nell’arduo compito di promuovere il libro, la responsabile dell’ufficio stampa della casa editrice Sudamericana mi chiamò e mi suggerì di non mostrarmi così freddo quando i giornalisti mi facevano la solita domanda: “Che cosa hai provato quando ti sei trovato faccia a faccia con Videla?”.

Io rispondevo che non avevo provato grandi sensazioni perché ero concentrato sul compito che dovevo portare a termine. Ci credevo realmente, ma non era del tutto vero: poco tempo fa mio cognato, che a quei tempi mi aveva accompagnato varie volte presso il carcere di Campo de Mayo, nella Gran Buenos Aires, mi ha detto che durante i viaggi di ritorno non spiccicavo parola, rinchiuso in un silenzio imbarazzante, come se stessi metabolizzando tutto quello che avevo ascoltato.

Le affermazioni di Videla erano state molto dure: “Mettiamo che fossero sette o ottomila le persone che dovevano morire. Non potevamo fucilarle. Non potevamo nemmeno portarle davanti alla giustizia” e così altre ancora. Persino un giornalista — anche se molti dicono che non abbiamo né cuore né anima — si sentiva colpito dalla durezza di simili affermazioni. Sicuramente per questo finii per crearmi in un secondo momento una corazza, perché mi sembrava meschino approfittare dell’occasione per mostrarmi come un falso eroe che condannava quanto era rimasto di quel dittatore dopo decenni di carcere. Anche se forse, per mere ragioni di pubbliche relazioni, sarebbe stata migliore una risposta del tipo: “Ho avuto voglia di sputargli in faccia”.

COME AVER A CHE FARE CON UNO COME VIDELA

Videla fotografato in carcere (11 gennaio 2012)

Tuttavia io non credo in questo tipo di atteggiamenti. Per me, Videla così come i leader guerriglieri sopravvissuti — Mario Firmenich, Roberto Perdìa, Fernando Vaca Narvaja, Luis Mattini —sono protagonisti degli anni ’70, ognuno a proprio modo e al di là dell’opinione che se ne possa avere. Essi sono gli attori principali della tragedia argentina; possiedono quanto io vado cercando, che è l’informazione di prima mano. Credo che anch’essi meritino un trattamento cordiale. Da queste parti abbiamo un modo di dire, non molto usato in questi tempi di profonde divisioni e di eccessivo, e fittizio, protagonismo di giornalisti che gridano verità in nome del popolo: “La gentilezza nulla toglie nulla al coraggio”.

Nel caso di Videla la cortesia, per esempio, di avergli dato la mano quando lo intercettai nel cortile della prigione per chiedergli una intervista mi tirò addosso le più severe critiche da parte dei giornalisti militanti, ovvero allineati politicamente con il kirchnerismo e con le organizzazioni a tutela dei diritti umani. “Che pretendevano? Avrei dovuto prenderlo a calci, insultarlo o fargli le pernacchie?” Il mio obiettivo era che accettasse di essere intervistato. L’editrice mi aveva avvisato di togliere quella frase dalla prefazione del libro “Disposición Final” ma io non volli; mi pareva che le sue cautele fossero ingiustificate.

L’IMPORTANZA DI UNA BUONA CASA EDITRICE

Devo molto a Fernanda Longo. Da principio l’idea era soltanto quella di includere dichiarazioni di Videla per un libro sulla lotta tra rivoluzionari e controrivoluzionari nella provincia di Cordoba, nel cuore dell’Argentina, durante il 1975, quando egli era già comandante dell’esercito, nominato dalla presidente Isabel Peron, la vedova del fondatore del peronismo. “Mi sembra che tu abbia per le mani un gran libro, ma su Videla e la dittatura” ricordo che mi disse Fernanda quando le mostrai il risultato della prima intervista, che durò tre ore e mezza, un sabato di ottobre del 2011.

Non me ne ero reso conto. Forse ero stato pure io influenzato da questo tacito consenso — politicamente corretto — che si era venuto a creare tra i giornalisti argentini riguardo a che non valesse la pena intervistare Videla, nonostante si trovasse in carcere a solo trenta chilometri dal centro della città di Buenos Aires.

Tutti noi eravamo stati colonizzati — chi più, chi meno — dalla costante predica dei leader dei diritti umani per i quali la storia doveva essere ricostruita solo con le parole dei “buoni”, ovvero di loro stessi in primo luogo e poi di coloro che essi autorizzavano.

 SE STALIN FOSSE ANCORA VIVO, NON LO INTERVISTEREMMO?

Una volta che Fernanda mi aprì gli occhi, ritrovai nella pratica classica del buon giornalismo gli argomenti più validi per spiegare perché avevo intervistato Videla: perché non farlo? Non era forse stato il protagonista principale — non l’unico certamente, ma il principale — della tragedia degli anni ’70. E se avessimo l’opportunità di intervistare Stalin, Fidel Castro, Pinochet, Hitler o Mussolini, non lo faremmo?

In ogni caso, ho sempre saputo che un libro come questo non poteva passare inosservato. Ancora oggi alcuni — invero pochi — siti web schierati con il kirchnerismo mi qualificano come “il biografo ufficiale del dittatore Videla”. Una carezza in confronto ad altre parole versate nei miei confronti negli ultimi anni. Anche Fernanda Longo e il direttore editoriale di Sudamericana, Pablo Avelluto, dovettero affrontare le loro battaglie interne affinché questa prestigiosa casa editrice includesse nel suo catalogo un libro con venti ore di interviste a Videla, il maggior demonio della dittatura.

Scrivo queste righe pensando che in Italia forse non si capisce il perché di tanti dubbi e indugi. In poche parole, nell’Argentina di quegli anni si pensava che solo alcuni potessero parlare degli anni ’70: le Madri di Plaza de Mayo, le Abuelas de Plaza de Mayo, gli ex guerriglieri… I militari, no; Videla, men che meno.

E si credeva che questo fosse molto democratico: non bisognava dar voce a chi aveva distrutto la democrazia e violato i diritti umani. Questo perché in tutti noi si era instillata la convinzione che i guerriglieri fossero, in realtà, militanti della democrazia e dei diritti umani: erano sorti, per la precisione, per combattere i cattivi, Videla e compagnia.

 LA TEORIA DEI DUE DEMONI COME ARMA

Foto istituzionale di Videla ai tempi della dittatura (1976)

Per questa ragione, le principali critiche che ricevetti furono le seguenti: “Come ti è venuto in mente di intervistare quel genocida?” oppure “non ti rendi conto che stai favorendo la teoria dei due demoni?”. La teoria dei due demoni, ecco la kriptonite usata fino allo sfinimento dal governo e dai leader dei diritti umani. Il cappello messo in testa a chiunque osasse contraddire i sommi sacerdoti della narrativa ufficiale sugli anni ’70. No: di demone ce ne fu uno solo, rappresentato dai militari, dalla polizia e dai loro complici civili dentro e fuori dall’Argentina. I guerriglieri erano quasi angeli: avevano nobili ideali e per essi avevano lottato a costo delle loro vite. Alcuni ammettevano che avessero scelto i metodi sbagliati — la lotta armata — ma, per sicurezza, non entravano troppo nei dettagli al riguardo. Non ho mai dato troppa importanza a un simile argomento. Questo tipo di teorie — dei due demoni, dei cento demoni, di angeli e demoni — mi sono sempre parse artifici retorici buoni a giustificare l’appropriazione della storia, tanto da un fronte come dall’altro.

Per fortuna questi tempi sono già passati: il kirchnerismo e i leader dei diritti umani hanno perso il loro alone di purezza: gli ex guerriglieri non sono più visti come partigiani della libertà.

LA BANALITÀ DEL MALE E I LIMITI DELL’UOMO

Quando intervistati Videla, questi aveva già 86 anni e in tutto e per tutto l’aspetto di un nonnino — con i suoi sei figli, ventitré nipoti e quattrodici bisnipoti — al punto tale che, suppongo, a uno straniero che lo avesse conosciuto in quella circostanza sarebbe stato difficile immaginare che si trattava del dittatore implacabile che governò l’Argentina per cinque anni, tra il 1976 e il 1981. “In pratica ho fatto tutto quello che ho voluto” aveva sottolineato.

Qualche “poliziotto del pensiero” storcerà il naso dinanzi alla frase “l’aspetto di un nonnino”. Però tutti abbiamo già letto qualcosa di Hanna Arendt e abbiamo qualche nozione sul concetto di “banalità del male”: spogliati della loro epoca, dei loro attributi e orpelli, molti dittatori e molti assassini — di destra, di sinistra e di centro — tornano a essere persone comuni. Questa mi pare essere la straordinaria lezione di tutto questo: noi esseri umani siamo capaci di grandi cose, ma possiamo anche commettere azioni atroci.

Una delle cose che più mi avevano impressionato di Videla è che sembrava conservato in formalina, legato a un passato che egli stesso narrava come se fosse stato vissuto da un’altra persona, da un estraneo. Con il tempo, Graciela Fernandez de Meijide, madre di un desaparecido e onesta militante per i diritti umani — i suoi e quelli degli altri — mi disse che questo atteggiamento era l’unico che permetteva a Videla di non sprofondare nella follia. Videla aveva portato avanti una leadership particolare: molta gente era convinta che non fosse così cattivo, che in realtà fosse stato troppo morbido al punto tale da essere vittima di militari ancora più feroci — come l’ammiraglio Massera, l’estroverso comandante della marina che insieme a lui fece parte della Junta Militar. Vale a dire, in termini strettamente argentini, che allora molti preferirono credere che fosse uno “scemo” e non un “figlio di puttana”. Io non credo in queste categorie per definire i personaggi storici: condivido, piuttosto, l’analisi di Karl Marx nel secondo paragrafo del Diciotto brumaio di Luigi Bonaparte: “Gli uomini fanno la propria storia, però non la fanno a loro libero arbitrio, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze nelle quali si vengono a trovare direttamente, che esistono e che hanno ricevuto in eredità dal passato.”

Mi dispiace per tutti quelli che confondono la politica con la morale, ma questi sono gli uomini e le loro circostanze. E questa è la banalità del male.

[Traduzione e adeguamento a cura di Spazio 70. La versione originale del presente articolo, scritto in esclusiva per noi da Ceferino Reato, è consultabile qui]

* Giornalista e scrittore, la sua ultima pubblicazione è intitolata “Masacre en el comedor”. Già redattore della sezione politica nazionale del giornale Clarin, caporedattore di Perfil, corrispondente dell’agenzia internazionale ANSA di San Paolo del Brasile, Reato è stato consigliere stampa dell’ambasciata argentina in Vaticano. Molto attivo sul circuito radio-televisivo argentino, ha pubblicato diversi libri d’inchiesta tra cui una serie di interviste all’ex dittatore Jorge Rafael Videla. Nel 2017 è stato riconosciuto dalla Fondazione Konex come uno dei cinque migliori giornalisti dell’ultimo decennio nel campo della ricerca.