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La posizione di Zaccagnini, Amendola e Pertini sul movimento del ’77

Redazione Spazio70

Le prime settimane del 1977 rappresentano un avvertimento per tutto il mondo politico. Uno squillo di tromba di un nuovo ribellismo giovanile che prima di tutto mette in allarme il Pci

All’inizio del 1977, i giovani sono di nuovo in agitazione. Tra i fulcri della protesta, come ormai accade da un decennio, le università. A Luciano Lama – segretario della Cgil, il più grande e importante sindacato italiano – viene impedito di parlare durante un tentativo di comizio alla Sapienza di Roma: è la famosa «cacciata» del 17 febbraio alla quale di fatto, con responsabilità e modalità diverse, partecipano le più importanti componenti del movimento romano del ’77. Sul tema della condizione giovanile, non sono certamente pochi i convegni, gli studi, i dibattiti che nella metà degli anni Settanta vengono promossi da istituzioni pubbliche e private: i numeri che emergono sulla disoccupazione dei giovani sono impietosi, anche se pur sempre inferiori a quelli che si registreranno molti anni dopo in Italia. Se qualcuno parla, in relazione al movimento del ’77, di «nuovo Sessantotto», molti altri restano scettici su una interpretazione degli eventi che non rende conto di alcuni chiari elementi di discontinuità, primo fra tutti il carattere nazionale o locale del Settantasette rispetto alla contestazione globale partita dalle università americane negli anni Sessanta.

DROGA, UNIVERSITÀ, LAVORO. L’UNIVERSO GIOVANILE A UN BIVIO

C’è poi l’inquietante problema della droga – in particolar modo pesante – che nella seconda parte dei Settanta si manifesta in tutta la sua drammaticità. Un mondo, quello delle tossicodipendenze, che allarma famiglie, assistenti sociali, psicologi, medici. In un contesto di crisi economica, e in uno di grandi cambiamenti sociali, la famiglia, e la tradizionale rete di protezione parentale, appaiono in affanno, con genitori spesso distratti dalle mille incombenze di ordine economico e lavorativo, ma anche da problematiche di tipo personale ed esistenziale. Gli input provenienti da un contesto sociale, mediatico e pubblicitario – seducente, ricco di promesse e modelli competitivi, spesso difficilmente raggiungibili – agiscono non sempre benevolmente su nuclei familiari indeboliti, sempre più impotenti nella formazione – e protezione – delle nuove generazioni.

Chi sono questi giovani? Se nel 1968 avevano dieci anni, nel 1977 ne hanno circa venti e votano. Politici e studiosi – soprattutto se legati a un contesto partitico o «istituzionale» – osservano l’universo giovanile, all’alba di un 1977 che promette un nuovo attivismo colmo di istanze e rivendicazioni, come si osserverebbe un fenomeno misterioso. Si evidenzia come il problema droga stia investendo ogni classe sociale: non soltanto quelle medio-alte, ma anche quelle di estrazione operaia o addirittura sottoproletaria. Dall’altro lato, però, questo stesso ceto politico-intellettuale evidenzia come, negli anni Settanta e in particolare nella seconda metà del decennio, per la prima volta nella storia del nostro Paese, stiano facendo il loro ingresso nelle aule universitarie strati sociali fino a poco tempo prima sostanzialmente esclusi dalla trasmissione di un sapere a carattere tecnico e umanistico. Se da un lato, cioè, si elogia l’allargamento della base universitaria, dall’altro si guarda, quasi con senso di impotenza, ai numerosi studenti parcheggiati nelle aule universitarie che in un futuro non molto lontano troveranno gravi difficoltà nell’ingresso nel mondo del lavoro.

Si osserva, insomma, come i giovani studino di più e siano disposti a difendere le proprie idee politiche, qualsiasi esse siano, anche in maniera radicale. Ma a parte questo, dell’universo giovanile si ignora tutto e anzi si osserva, con grande inquietudine, cercando di prevederne le mosse, un esercito — fatto di scontenti e non garantiti — che si riversa nelle aule universitarie, nelle piazze, tra le strade delle città italiane. La già citata «cacciata» di Lama dalla Sapienza, rappresenta uno choc, un avvertimento, per tutto il mondo politico, al di là dei distinguo, sostanzialmente di ordine elettoralistico, che possono essere letti tra partiti e media differenti. Uno squillo di tromba di un nuovo ribellismo giovanile che prima di tutto mette in allarme il Pci – che come maggior partito della sinistra forse pensava di poter legittimare sé stesso di fronte a tutto l’arco costituzionale in un ruolo di controllo e magari riassorbimento di una base giovanile collocata alla sua sinistra – ma inquieta anche i partiti di governo, incapaci, quasi antropologicamente, di alimentare un qualsiasi canale dialettico con «i giovani».

«IL SESSANTOTTO? UNA FINTA RIVOLUZIONE, UN GRAN POLVERONE»

Se il segretario della Democrazia Cristiana, Benigno Zaccagnini, afferma che i giovani non dovrebbero «isterilire la loro azione con una fuga in avanti, capace di negare l’onestà di intenti, di rendere inefficace lo sforzo produttivo» di una protesta che va avanti ormai dalla fine degli anni Sessanta, una figura storica del Pci come Giorgio Amendola, a maggior ragione dopo l’episodio che ha visto protagonista Lama, si fa portatore di una posizione nella quale appaiono numerosi gli avvertimenti a tornare nei ranghi di un partito e, più in generale, di un sistema politico-costituzionale ansiosi di riassorbire una carica antagonista giovanile che si preannuncia, già nelle prime settimane del 1977, carica di conseguenze pregiudizievoli per la sconfitta della lotta armata e in generale il mantenimento dell’ordine pubblico in Italia.

Giorgio Amendola alla fine degli anni Settanta

«I giovani? Altro che Marcuse, l’esistenzialismo, lo strutturalismo! Che studino la storia, piuttosto, se davvero vogliono agganciarsi a qualcosa che sia vivo, reale, capace di condizionarli, qualcosa che è esistito prima che essi pensassero di scendere in campo». Un giudizio, quello sulla contestazione sessantottesca, che l’anziano leader comunista aveva già espresso in tempi non sospetti: «Il Sessantotto? La verità è che io sono sempre stato molto diffidente verso quella stagione di confuse speranze e finte rivoluzioni. Fu un gran polverone, che per di più ha attutito il senso di responsabilità individuale che io ritengo debba essere sempre preminente nella lotta per trasformare una società». E i libri? I richiami culturali del Sessantotto e quelli, forse un po’ più sfumati e confusi del Settantasette? «Studiare significa soprattutto lavorare duramente, non sparlare di libri che non si sono mai letti o di cui abbiamo captato confusi racconti. Tra l’altro», continua Amendola, «pretendere di realizzare nella scuola un’oasi di eguaglianza è una velleitaria utopia. Significa ignorare che nella scuola e fuori di essa le differenze di classe esistono e sono feroci ed esigono una azione politica di lunga durata». Una rottura su tutta la linea, quindi, alimentata anche in un giudizio decisamente stroncatorio delle istanze giovanili riguardanti l’ambito familiare e i rapporti tra i sessi: «Io appartengo», ebbe modo di dire proprio nel 1977 l’anziano leader comunista, «a una generazione che fu protagonista di ben altre rotture nei rapporti familiari e in quelli sessuali. Mi offende l’aspetto dilettantesco di certe esperienze compiute con la pretesa di avere le spalle bene coperte dalla famiglia o dalla società». Un richiamo, insomma, «al valore del sacrificio senza il quale non si costruisce nulla di duraturo», totalmente incompatibile con le istanze di un movimento come quello del «Settantasette», portatore in quanto tale di un radicale rifiuto di qualsiasi politica capace di favorire un nuovo accumulo capitalistico.

«LA VIOLENZA? È UN METODO FASCISTA, COME LA CACCIATA DI LAMA»

Sandro Pertini

E Sandro Pertini, considerato tra i più sensibili sul tema della condizione giovanile, che cosa ha da dire sul movimento del ’77? «Nei miei anni alla presidenza della Camera», dice il futuro Presidente della Repubblica, «ho ricevuto cinquantacinque mila giovani, discutendo con loro di ogni problema. Non credo essi siano degli sbandati e non credo ci si trovi di fronte a un nuovo Sessantotto, che era un movimento a carattere mondiale. Ai giovani vorrei dire che credo in loro, ma non è con gli slogan o accanendosi contro le sedi dei partiti avversari che si ottiene di più. La violenza è un metodo fascista e quanto è accaduto all’università di Roma mi lascia esterrefatto. I giovani che si sono accaniti contro il comizio di Lama si sono messi su un terreno fascista».

Un giudizio, quello espresso da Pertini, molto netto ma anche capace di cogliere nel segno nell’evidenziare il rifiuto, da parte del movimento del ’77, di ogni intento paternalistico da parte di una classe dirigente sentita come distante e autoreferenziale: «I giovani rifiutano ogni forma di paternalismo», dice Pertini, «rifiutano la mano sulla spalla, la pretesa di essere messi davanti a noi e stare sugli attenti». Sul tema della droga, poi, il leader socialista si mostra perentorio: «Le nostre leggi hanno già stabilito che il colpevole non è il drogato, ma chi spaccia la droga. Verso gli spacciatori io sarei implacabile. Giungerei nei loro confronti a prevedere la pena dell’ergastolo perché corrompere un giovane – e i giovani sono per principio di animo puro – è forse il peggiore delitto che esista». Infine un appello finale ai giovani del Settantasette: «Il vostro presente è anche il vostro domani. La lotta per un domani migliore, non la fuga, è la strada più nobile che un giovane possa seguire. Lo dice un uomo di ottant’anni che ha trascorso la propria giovinezza lottando e che ha pagato di persona. La vita è una esperienza unica, appassionante. Giovani, non sprecatela».

Foto in capo all’articolo: «Cacciata di Lama dalla Sapienza, 17 febbraio 1977», Tano D’Amico